Massimo Bottura: l’uomo del futuro

Entrare a Casa Maria Luigia dà una sensazione molto particolare: sai di entrare in un tempio dell’alta cucina, guidato da una delle brigate più rinomate al mondo, ma al tempo stesso entri anche in un museo di arte contemporanea, in una biblioteca, in una galleria di design, in un incredibile garage pieno zeppo di automobili e in un focolare domestico. Massimo Bottura è tutto questo. O meglio, è anche questo. Perché Bottura non è uno chef o un imprenditore, è entrambe le cose (ce lo dirà lui stesso), ed è soprattutto un insieme di passioni artistiche che gli hanno concesso di pensare fuori dagli schemi, uscire dal seminato di una vita che è nata come un rettilineo e si è trasformata in una pista di Formula 1.

Il percorso di Massimo Bottura è completamente anomalo. Ha studiato legge, ha fatto il grossista di prodotti petroliferi, ma il richiamo della cucina era troppo forte e così ha deciso di entrarci, in punta di piedi. Aveva 33 anni quando ha aperto Osteria Francescana, un progetto che sta per compiere 30 anni. Da lì Bottura non si è più fermato: 13 ristoranti, 13 refettori, multipli premi di miglior ristorante al mondo, una stella verde, e molto altro che è difficile da definire all’interno di confini dati dalle parole “chef” e “imprenditore”. Questi sono due termini che lo descrivono quantomeno professionalmente, che in un certo senso lo limitano e, talvolta, vanno a ostacolarsi: «penso di essere uno chef, l’imprenditore arriva dopo. Certo, se consideri tutti coloro che lavorano nei 13 ristoranti e nei 13 Refettori e che solo a Modena abbiamo 210 ragazzi che lavorano con noi, in generale coinvolgiamo quasi un migliaio di persone in tutto il mondo. Va detto che su certe cose sono un pessimo imprenditore: io sono in primis uno chef ossessionato dalla qualità e di conseguenza non conosco la parola food-cost. Non esiste. Noi diciamo sempre: qual è il miglior maialino da latte al mondo? Quale il miglior parmigiano? L’imprenditore ha sempre come fine ultimo il guadagno: per noi non è così, quello è una conseguenza di ciò che abbiamo seminato. Continuiamo a seminare cultura, conoscenza, coscienza, senso di responsabilità».

Sul senso di responsabilità di Massimo Bottura si parlerà molto. Quello di cui forse non si parla abbastanza è di Massimo Bottura come figura culturale perché raramente viene palesato quanto davvero sia appassionato di arte, letteratura, musica, poesia e altro. A Casa Maria Luigia l’arte è ovunque, perfino dentro l’acetaia, il casolare dentro al quale invecchia l’aceto balsamico che Massimo Bottura ha voluto produrre dal momento che non ne trovava uno con requisiti che lo soddisfacessero. Arte contemporanea, quadri, sculture, una stanza solo per la musica, ma anche moto e macchine vecchie e nuove sono ovunque al punto da essere quasi normali, da darle per scontato. Ogni volta che si guarda meglio una stanza, si finisce per notare qualcosa che prima era passata inosservata. «Colleziono da una vita. Sono enormemente appassionato, d’altronde non si riesce ad avere certi pezzi se non conosci davvero gli artisti e il mercato. Solo quando scendono di prezzo sai di poterteli permettere, ma l’appassionato vero sa cosa ha davvero valore», mi dice Massimo Bottura mentre parliamo di alcuni impressionanti pezzi esposti alle sue pareti. Il valore dell’arte e della cultura non è solo visivo, non è solo un aspetto collezionistico, e non ci vuole molto per comprendere quanto sia fondamentale per la crescita umana e professionale di Massimo Bottura, quanto sia intrinseco per lo sviluppo dei suoi valori e per la creazione della sua cucina: «la cultura è il più grande ingrediente per il cuoco del futuro. Solo dopo una lunga riflessione si arriva a capire il gesto dietro a una creazione che rimane però per sempre riconoscibile: se vedi o senti Oops mi è caduta la crostatina al limone, pensi subito a Massimo Bottura, così per Beautiful Psychedelic Spin-Painted Veal o Crunchy Part of the Lasagna – (tre dei piatti più iconici della carriera di Massimo Bottura, ndr). Il “segno distintivo” è fondamentale ed evolverlo con il duro lavoro è il segreto del successo. Poi ci devi aggiungere l’inaspettato: è lì che arriva la creazione». Non avevo mai incontrato qualcuno che parlasse di piatti e ricette come se fossero canzoni, hit indimenticabili per la loro scrittura o composizione melodica, ma Bottura lo fa, come a dire che bastano due note per riconoscere Yesterday dei Beatles. «Cucinare non vuol dire entrare in cucina, tagliare le carote, saltarle e servirle, vuol dire avere un palato connesso con gesti e pensieri. La maniera in cui noi cuciniamo è il modo in cui esprimiamo la contemporaneità, è lo stesso processo creativo che gli artisti contemporanei usano. Picasso diceva che copiare sé stessi è sterile, rubare agli altri è fondamentale. Il mio dialogo con gli artisti è per questo motivo costante e importante. A volte rubo io a loro, altre volte loro a me. Sono sempre in contatto con l’arte. Parlo sempre con poeti, scrittori, musicisti e artisti perché mi permettono di rendere visibile l’invisibile e di tradurre in parole o piatti quei pensieri che già avevo ma non riuscivo a rielaborare correttamente. Se devo dirti un nome su tutti, dico Carlo Benvenuto, probabilmente il più grande artista contemporaneo che c’è oggi. È dotato di un’intelligenza incredibile, ha uno sguardo sempre critico sul mondo e aiuta anche me a esserlo».

La cultura, si sa, può essere una risorsa particolare perché basta poco per renderla un bagaglio che pesa sul prossimo. Come diceva Umberto Eco, “l’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma chi sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve”, e stimolare un gruppo per tenerlo coeso durante una pandemia attraverso il proprio bagaglio artistico è essere uomini di cultura. Non solo, è anche ciò che, nel contesto culinario, distingue uno chef e un cuoco: «non è stando sulle padelle tutti i giorni che crei qualcosa di nuovo. Il nostro primo menu dopo il lockdown, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, era una riflessione tra tutti noi di quella che era la copertina del disco dei Beatles traslata in bocconi masticabili. Non è una conversazione nata per essere un menu, ma per stimolare i miei ragazzi durante il lockdown perché ho capito subito, dopo la prima settimana, che il problema non era chiudere la cucina, ma tenere assieme il gruppo». Chef quindi leader, in presenza o meno. «Sai cosa fa lo chef? Te lo spiego con un esempio: nel mio menu I’m not there, ispirato a Bob Dylan, ho lasciato interpretare a tutti i miei ragazzi a Modena i miei precedenti 40 anni di lavoro. Non volevamo fare un “best of”, ma una reinterpretazione astratta. Nel film di Dylan, lui non c’era ma la sua presenza era tangibile. Allo stesso modo, io ho poi rimesso mano a quei piatti, ho dato le indicazioni giuste, cambiavo, bilanciavo… Questo è essere chef. Il cuoco cucina. Al G7, ad esempio, abbiamo fatto una spaghettata per i principali capi di Stato mondiali: abbiamo fatto degli spaghetti con pomodoro, limone, qualche scampo, la burrata… lì siamo stati cuochi, che vuol dire unire gestualità alla sensibilità del palato. La qualità delle materie prime è determinante, ma la qualità delle idee è ancora più importante. Lo chef non si occupa solo dei piatti, ma anche di tutte le persone che ha attorno. Deve essere una guida, le deve stimolare. Se loro capiscono che non è più una guida, è il momento in cui tutto implode». I gruppi di lavoro all’interno delle varie realtà di Francescana sono estremamente grandi e variegati, ci sono persone di ogni età, nazione, credo religioso, background sociale, ragazzi che hanno riferimenti culturali e culinari diversi, ma anche un modo diverso di approcciare la vita. Creare una colla che li tenga tutti assieme è forse il più difficile dei lavori che fa Massimo Bottura perché «come costruisci il gruppo è importante: si mettono radici molto profonde per crescere gradualmente». E quindi, come quando si assembla una squadra di calcio, Bottura utilizza un’approccio simile a quello di un grande allenatore, Carlo Ancelotti, che è nato a 40 minuti di macchina da Casa Maria Luigia. «C’è una cosa che io faccio diversamente da tutti: lascio una libertà assoluta di espressione. La cucina di Mattia è la sua, così come quella di Antonio, che lavorano in maniera locale senza mai dimenticarsi chi sono e da dove vengono. Poi è ovvio, si confrontano con me perché mi rispettano, e in questo modo posso aiutarli a crescere, così come in altri momenti posso proteggerli».

Anche quando Bottura ci mostra le sue automobili o gira per la tenuta di Casa Maria Luigia, per fare un riferimento motoristico, non usa mai i giri bassi. Massimo fa tutto ad alta velocità e alterna momenti di totale controllo a scatti di ironia fanciullesca, come quando decide di accantonare le sue supercar e girare per i sentieri del suo giardino con l’amata Vespa 50 Special azzurra, o quando interrompe gli scatti per fare foto alla nostra troupe col suo cellulare così «almeno vedete il mio punto di vista. Da qui è bellissimo». La giocosità di Massimo tende a sparire però quando parla di sostenibilità. In questi casi diventa subito molto serio. Non sostenibilità per modo di dire, sostenibilità totale, circolare. Bottura è infatti il primo a portare avanti questo tema: per ogni ristorante, apre un Refettorio, ovvero un luogo in cui sfamare persone bisognose tramite il recupero di eccedenze alimentari sul modello del Refettorio Ambrosiano, aperto a Milano in occasione di Expo 2015. Da questa attività nasce Food for Soul, la no profit aperta con sua moglie per contrastare lo spreco alimentare e l’isolamento sociale, un progetto che lui stesso definisce «la cosa migliore che ho fatto in vita mia». Da qui, siamo entrati in un argomento tanto ampio quanto importante: «ogni ristorante che abbiamo in zona è certificato “zero spreco alimentare”. Alla fine non ho fatto altro se non mettere in pratica gli insegnamenti di mia nonna. Lei metteva tutte le briciole di pane in un grande vaso, poi la domenica sera le usava per fare i passatelli che, tra l’altro, rimangono il pasto preferito dei miei figli, perché certi valori vanno di generazione in generazione. A modo mio, cerco di passare gli stessi valori anche ai miei collaboratori. Proprio qui, Al Gatto Verde, abbiamo creato il ristorante più sostenibile del mondo. Abbiamo fughe in microcarboni che filtrano l’acqua piovana per poi irrigare il parco, 80 kilowatt di pannelli solari, un sistema di riscaldamento che utilizza il calore dei forni. C’è la sostenibilità “tradizionale” e poi quella umana che significa supportare le giovani madri single africane tramite uno stage da Roots (il coworking, ristorante e impresa sociale gestito dalla no profit Association for the Integration of Women) e poi farle entrare nella famiglia di Francescana. E poi? La circolarità alimentare: un barbecue stellato Michelin che usa le potature degli alberi di Casa Maria Luigia per le affumicature». Nonostante quanto dica Bottura, molti chef sostengono che l’alta cucina non sia più sostenibile: troppi sprechi, troppi costi, margini bassi, dipendenti sottopagati. Lo stesso René Redzepi, chef e co-proprietario del Noma di Copenhagen, ha detto che il suo rinomato ristorante chiuderà a breve: «quello che dicono René Redzepi, Daniel Humm o Alain Ducasse sono riflessioni che si basano sulle loro esperienze. Ovvio che rimane fondamentale non andare in perdita e, in un posto come Osteria Francescana in cui 100 persone lavorano per 30 ospiti, non è banale. Noi nei primi 6 mesi del 2024 abbiamo avuto una crescita del 20%, quindi ci stiamo muovendo bene». Da queste parole torniamo al primo punto dell’intervista, il legame tra imprenditore e chef dalla mentalità consapevole: «noi non abbiamo sprechi alimentari non solo per motivi etici, ma perché averne vuol dire essere gestiti da pessimi imprenditori. Devi sapere che io lavoro spesso con Google e condivido con loro tutte le ricette dei nostri Refettori. Le loro ricerche hanno stimato che l’85% dello spreco alimentare di un Paese non proviene dai ristoranti, ma dalle nostre case, per questo Food for Soul è un progetto per me culturale, non benefico. La bellezza non fa la rivoluzione, come dice Albert Camus (Albert, ndr), ma noi combattiamo lo spreco alimentare e l’isolamento sociale attraverso la bellezza. Per questo l’alta cucina non morirà mai».

Combinare alta cucina e una mentalità consapevole non è sempre facile, specie quando si devono realizzare menu molto ampi perché vanno comunque compresi gli obiettivi: quello di uno chef è trasmettere sostenibilità o raggiungere l’eccellenza in cucina? «Le tre stelle Michelin sono l’obiettivo per tutti. Quando senti qualcuno dire “eh no, a me non importa” è perché sa che non le avrà mai. Io le ho cercate! Poi ho trovato, stavolta senza cercarla, la mia personale quarta stella, la stella verde, che per me è un premio incredibile perché rappresenta quello che stiamo cercando di fare per gli altri. Sai cosa sarebbe pazzesco? Se la stella rossa, quella tradizionale dell’ordinamento Michelin, fosse accessibile solo dopo aver raggiunto la stella verde, che diventa quindi una porta di ingresso obbligatoria per l’alta cucina. Sarebbe una rivoluzione!»; e come dargli torto. Ma innovare spesso vuol dire andare contro la tradizione e l’Italia è uno dei Paesi più tradizionalisti al mondo, specie quando al centro del discorso c’è il cibo. «Io non vivo il contemporaneo, ma il futuro, che è qualcosa di difficilissimo perché non si è mai capiti mentre lo si fa, ma solo dopo. Serve coraggio. Io voglio innovare, è vero, ma al G7 abbiamo servito pane, pomodoro e i tortellini del Tortellante, ovvero i tortellini creati da ragazzi con sindrome genetica e da nonne, le due categorie più marginalizzate al mondo che vengono rimesse assieme per tenere vive le tradizioni. Quindi io sono il più tra- dizionalista dei tradizionalisti». Proprio il Tortellante è un altro progetto no profit supportato da varie realtà comuni allo chef modenese quali MINI, un laboratorio terapeutico il cui scopo è stato spiegato perfettamente da Bottura nelle righe precedenti e nel cui comitato direttivo troviamo la moglie Lara Troly Gilmore.

Una persona come Massimo Bottura ha il fuoco dentro, sempre.
Eppure, non riesco a non chiedermi cosa ci sia dopo tutti questi traguardi. A cos’altro si può ambire? Nonostante tutta la buona predisposizione, si riesce ancora a essere motivati «Sempre. Siamo pieni di idee e di iniziative. Ad esempio, le Nazioni Unite mi hanno chiesto di diventare uno dei loro 16 portavoce. Poi abbiamo davanti i 30 anni di Francescana e vorremmo festeggiarli in così tanti modi che non so nemmeno da dove cominciare. Di una cosa sono certo: voglio aprire il primo Refettorio in Africa, a Nairobi, perché sono anche 30 anni del matrimonio con Lara e 10 anni di Food for Soul. Sai, le cose che si potrebbero fare o non fare sono davvero tante: capita che rifiuti un milione di dollari per aprire un ristorante a New York, perché lì ci voglio solo il Refettorio. Capita che rifiuti un altro milione per aprire un ristorante a Hong Kong, perché lì non ci voglio andare. L’importante è fare ciò che ritieni giusto, che ti rende felice». Quello che rende felice Massimo Bottura è Modena, perché nonostante sia la persona più internazionale nel mondo della cucina, è lì che ha fatto nascere tutti i suoi ecosistemi, anche i più recenti. «Amo la provincia, amo la nebbia, amo i caldi umidi. È strano, sai? Quando sono qui voglio viaggiare e quando sono altrove ho voglia di tornare a Modena. Ho voglia di prendere la mia Ducati, isolarmi dentro al mio casco e arrivare sugli Appennini piegando da una parte e dall’altra. Quasi dondolando col mio V4. Sono sempre alla ricerca di qualcosa, ma quello che io amo è stare qui, in Francescana, a Casa Maria Luigia. Questo è il centro della creatività che parte e si sparge nel mondo».

Col passare degli anni, con l’accrescere delle esperienze, tutti iniziamo a considerare il tempo in maniera diversa e le priorità cambiano. Può essere per via della conoscenza di una persona speciale, per la nascita di figli o la scomparsa di qualcuno, o semplicemente un cambio di prospettive, di scelte di vita. «Hai toccato il punto fondamentale: l’unica cosa che mi manca è il tempo. Sai, ogni giorno ricevo un messaggio alle 6 del mattino da Tokyo, da Antonio, poi arriva Jun da Seoul, Alessio da Singapore e via così fino a Mattia da Los Angeles. Il tempo è sempre poco ma è stata l’unica cosa che ho avuto durante il lockdown. Non voglio essere frainteso dicendo che la pandemia è stata un bene, io ho perso un fratello, per cui peso bene le parole, ma ho usato ogni secondo per pensare, iniziare progetti nuovi, chiuderne di altri. Pensa, mi è servito per vincere un Webby Award: è successo pure quello». I suoi video Kitchen Quarantine in cui cucinava con la famiglia sono stati fondamentali per comunicare i valori della Francescana alle nuove generazioni. «Mi chiamava Mark Zuckerberg dicendo “grazie per quello che stai facendo con i social media”, ma non era nulla di speciale, stavamo solo raccontando quello che fa ogni famiglia in un momento del genere. Il tempo oggi lo uso in molti modi: con la mia famiglia, con la mia squadra, organizzando progetti, facendo interviste come questa. So che è la cosa più preziosa che ho, quindi lo condivido solo con le persone con cui voglio davvero condividerlo. Ogni mattina mi alzo al mattino sapendo che dovrò usarlo al massimo. Il 2020 mi ha insegnato questo».

La chiacchierata con Massimo Bottura si conclude, così come gli scatti fotografici che l’accompagneranno. Dopo il lavoro, lo staff di Casa Maria Luigia ci tiene a farci pranzare con loro. Mangiamo piatti semplici ma buonissimi: una cacio e pepe, un po’ di filetto di manzo e un’insalata fresca. Ci sediamo al tavolo, prendendo il cibo dalle pentole mentre in sottofondo suonano pezzi rap scelti da alcuni giovani membri dello staff che già sono tornati in cucina in vista del servizio serale. Non è il tipico pasto che si trova a Casa Maria Luigia, ma questo lo rende ancora più speciale, oltre che essere una perfetta rappresentazione del concetto di famiglia estesa di cui ha spesso parlato Massimo Bottura in queste pagine. Una famiglia che ascolta tanto Bob Dylan quanto Sfera Ebbasta e che, forse anche per questo, rappresenta al meglio la contemporaneità.

Foto:
Shahram Saadat
Loock:
Gucci
Stylist:
Riccardo Linarello
MUA:
Beatrice Torchio