Michael Jordan si ritirò tre volte dal basket giocato, ma se nelle prime due occasioni lo aveva fatto indossando – e vincendo – la maglia dei Chicago Bulls, la terza avvenne con quella di un team diverso.
Il secondo ritorno in NBA di Michael Jordan, datato 2001, fu sicuramente meno entusiasmante rispetto al primo, vuoi perché gli Washington Wizards fossero una squadra alquanto mediocre, vuoi perché le ultime silhouette di Air Jordan indossate in quel periodo non suscitarono la stessa passione rispetto alle prime 14. Non abbiamo sbagliato a contare, abbiamo volontariamente escluso la XV.
A Washington, MJ ci arriva come socio e soprattutto come President of Basketball Operations, ruolo in cui, ad essere onesti, farà tanti errori: vedi la cessione di un giovane Rip Hamilton ai Pistons – con cui vincerà un titolo da protagonista e sarà 3 volte All-Star – in cambio del più esperto e in parabola discendente Jerry Stackhouse, o la scellerata decisione di buttare la first pick del Draft 2001 per selezionare Kwame Brown. I più garantisti diranno che il Draft era abbastanza avaro di talento e che con il senno di poi è tutto più facile, ma se scegli un liceale che porta in dote solo tante aspettative al posto dei già pronti Pau Gasol o Shane Battier (senza citare Tony Parker o Zach Randolph, più complicati da azzeccare) è difficile trovare attenuanti.
Nel 2001 decide così di tornare in campo, convinto di poter essere la ciliegina sulla torta di un roster a suo dire competitivo, rendendolo addirittura un credibile competitor per il titolo. Come dargli torto, visto che parliamo sì di un quasi quarantenne, ma del quarantenne più forte di tutti. Lui è pur sempre Michael Jordan, His Airness. Le cose, però, non andranno bene, anche a causa di alcuni infortuni, e gli Wizards non riusciranno nemmeno a qualificarsi ai Playoff nei due anni successivi.
Le statistiche personali però furono ottime, considerando l’età del giocatore. Jordan fu il leader della squadra per punti e recuperi in entrambe le annate, dimostrando di essere ancora un giocatore capace di fare la differenza. Divenne anche il primo 40enne a segnare 43 punti in una singola partita. Inoltre, rese gli Wizards il secondo team più seguito della NBA e riuscì a fare sold out in tutte le partite giocate in casa.
Il ritorno in campo, però, per molti voleva dire un’altra cosa: nuove Air Jordan in arrivo. E così fu. Anche se pure in questo ambito, come già detto a inizio articolo, l’esito non fu quello sperato.
Le tre silhouette lanciate in questo periodo, cioè le Air Jordan XVI, XVII e XVIII, infatti non sono mai entrate nel cuore degli appassionati e tuttora faticano a far breccia nei fan.
Partiamo dalle prime, le Air Jordan XVI, primo modello della saga dalle II a non essere disegnata da Tinker Hatfield. Il mitico designer di Nike infatti lasciò le redini della progettazione a Wilson Smith III, il quale prese in prestito elementi di vari modelli precedenti e li combinò, cercando poi di dare alla silhouette un aspetto futuristico. Dando uno sguardo attento alle XVI, possiamo notare l’altezza mid-top delle III, l’outsole in gomma chiara delle V, VI e XI e la punta lucida in vernice delle XI. Il tutto coperto da un nuovissimo copri lacci rimovibile, che doveva essere un richiamo agli abiti eleganti.
A livello tecnologico non portò grandi innovazioni, ma aveva comunque alcuni punti di forza su cui far leva, ad esempio il mesh traspirante nella parte mediale e la tecnologia Zoom Air sul tallone, per dare maggiore protezione durante gli impatti e aumentare la reattività.
Venne lanciata nel 2001 nel giorno del compleanno di MJ, il 17 febbraio, ma non venne presentata da lui e soprattutto venne indossata per lo più da altri giocatori come Ray Allen, Darius Miles e Mike Bibby, venendo utilizzata da Michael per un breve periodo. His Airness le portò solamente durante la pre-season della stagione che lo vedrà fare il suo secondo ritorno nella NBA, mentre aspettava di ricevere un nuovissimo modello studiato ad hoc per lui: le Air Jordan XVII.
Per questa ragione, si tratta di una silhouette che in molti accostano di più all’allora guardia dei Millwaukee Bucks, Ray Allen.
Per il secondo ritorno ufficiale di Michael Jordan, il designer Wilson Smith III, crea, quindi, le Air Jordan XVII, una silhouette la cui estetica proviene da due elementi chiave: le Aston Martin e la musica Jazz. Il designer si ispirò ai dettagli premium degli interni dell’auto britannica e al “morbido flow” di un assolo Jazz. Pare inoltre che un’altra passione di MJ, cioè il golf, abbia ispirato il design dell’outsole.
La scarpa, a differenza della precedente, venne studiata appositamente per MJ e presentava una serie di caratteristiche tecniche decisamente valide per il campo: un mid-foot strap rimovibile, unità Zoom Air, un sistema rapido di allacciatura nascosto, blocca lacci, tomaia in pelle e un supporto in fibra di carbonio.
Tutti dettagli che la resero un’ottima opzione per il basket giocato.
Per questo motivo non venne utilizzata solo da Jordan, anche Ray Allen e Mike Bibby le indossarono in stagione, in varianti cromatiche dedicate. Perfino Kobe Bryant, in un periodo in cui non aveva alcun contratto di sponsorizzazione in essere le utilizzò per alcune partite.
Il modello venne commercializzato l’anno successivo con un particolare box, una valigetta in metallo al cui interno c’era anche un cd contenente alcuni video e promo. Il prezzo retail della scarpa lievitò a 200 dollari, il più alto mai visto fino ad allora per un paio di AJ, cosa che sconvolse gran parte di acquirenti e fan. A risentirne furono le vendite iniziali, con molti che preferirono attendere i saldi per acquistarle.
La silhouette, inoltre, venne successivamente proposta in una variante mai vista prima per un paio di Jordan, la cosiddetta Mule, una specie di zoccolo, che non ebbe, però, il ben che minimo successo.
L’ultimo modello indossata da Michael durante il suo periodo a Washington fu, infine, la Air Jordan XVIII, rilasciata nel 2003. Questa volta il design fu opera di Tate Kuerbis, che nel frattempo aveva preso le redini del design del brand Jordan, il quale prese ispirazione dalla Formula 1 e in particolar modo dalle calzature utilizzate dai piloti.
La cosa è visibile in particolar modo sull’outsole in gomma, che si rifà all’estetica dalle gomme delle auto sportive, ma anche dalla placca in carbonio – tipicamente utilizzato per la scocca delle Formula 1 – presente nella midsole.
La tomaia vanta un look particolarmente pulito e aerodinamico, come la carrozzeria di una macchina da corsa, grazie a una struttura in pelle composta da un pezzo quasi unico, il quale presenta un sistema di allacciatura rapida coperto da copri lacci. Ad altezza caviglia il designer ha poi posizionato due aperture per la traspirazione, che ricordano i finestrini di un’automobile, mentre a livello tecnologico la grande novità riguardava l’ammortizzazione. La scarpa era infatti imbottita con’unità Zoom Air full-length impilata sopra un altro cuscinetto Zoom, che la rese la Air Jordan più ammortizzata di sempre.
Fu il modello con il quale Michael Jordan concluse definitivamente la sua carriera da giocatore il 16 aprile 2003 contro i Philadelphia 76ers. Nonostante ciò, fu probabilmente il modello della saga indossato da MJ che ebbe meno successo tra i fan insieme alle XVI.
Se analizziamo le Air Jordan XVI, XVII e XVIII non possiamo non notare che si tratta di silhouette estremamente tecnologiche e valide per il gioco del basket. Il fatto che non abbiano avuto successo come gran parte dei modelli precedenti può probabilmente essere imputabile al confronto automatico che veniva fatto tra esse. Innanzitutto per un fattore di prezzo, visto che, soprattutto le XVII e le XVIII, uscirono sul mercato a una cifra decisamente più alta, ma anche perché scarpe come le I, le III, le VI, le XI o le XII furono silhouette eccessivamente iconiche, legate poi a momenti memorabili sul campo e fuori.
Gli Wizards di Jordan invece, lo abbiamo detto, non raggiunsero nemmeno i Playoff, togliendo un po’ di quella magia che aleggiava intorno a lui e di questo risentirono anche le scarpe da gioco da lui utilizzate.
In molti, infatti, imputano a His Airness l’incapacità di raggiungere risultati soddisfacenti per due anni consecutivi, ma se analizziamo le prestazioni in campo in entrambe le annate di MJ vediamo come statisticamente (21-4-6 di media nei due anni) siano state più che buone considerando la sua età.
Chi probabilmente mancò fu in realtà il cast di supporto, che infatti Michael criticò più volte durante le interviste. Soprattutto nella stagione 2001/02 il roster era davvero di basso livello e l’errore di MJ fu quello di affermare pubblicamente di poter competere per il titolo.
Se analizziamo le partite vediamo come in realtà il giocatore fosse ancora in grado di dominare e fare la differenza. Alcune sue giocate e prestazioni compiute alla soglia dei 40 anni restano tuttora clamorose, ma forse i risultati della squadra ci hanno dato la percezione di un Michael Jordan più umano e forse questo ci ha reso meno lucidi e obiettivi nell’analizzare le sue ultime due annate.