Matteo Zuretti è una figura tremendamente interessante. Dopo anni nella Stella Azzurra Roma e come agente nel mondo della pallacanestro, è diventato il responsabile Chief International Relations and Marketing per la NBPA, l’associazione giocatori della NBA. In sintesi, il loro sindacato. Uno dei progetti più interessanti tra i tanti portati avanti dalla NBPA c’è sicuramente One Court, la International Business Academy organizzata insieme a SDA Bocconi in cui le lezioni uniscono il business management e, tra le altre cose, il mondo del fashion. Questa iniziativa, come tante della NBPA, si concentra sul migliorare l’immagine e la cultura dei giocatori, renderli più completi come persone in vista di ciò che potranno fare durante e dopo la carriera come atleti. Non ci sono altre leghe che si focalizzano così tanto sul migliorare i giocatori fuori dal campo. Perché questa scelta? È solo un bel concetto, un buon proposito, un segno di benevolenza o qualcosa che effettivamente migliora il business di tutta la lega sportiva nella sua totalità? Ne abbiamo parlato proprio con Matteo Zuretti.
Perché l’associazione giocatori dovrebbe organizzare una business school estiva? E soprattutto perché i giocatori dovrebbero prenderne parte?
Uno degli obiettivi di NBPA è “proteggere e supportare i giocatori”, svilupparli fuori dal campo. Per anni si è pensato al player development come a qualcosa da portare avanti solo dopo il ritiro del giocatore ma questo è sbagliato perché gli atleti di livello NBA hanno accesso alle più grandi risorse possibili proprio mentre sono in attività. Da qui nasce la domanda: come possiamo dare loro degli strumenti per sfruttare tutto questo accesso? Noi cerchiamo di dare loro insegnamenti e per essere efficaci, specie considerando quante distrazioni hanno attorno, bisogno partire dalle loro passioni. Il fashion è una di queste.
Questo legame immagino abbia fatto accendere anche la lampadina di One Court e della Business School.
Assolutamente. È un modo per avere la loro attenzione e piantare in loro un seme di conoscenza e migliorarli dal punto di vista del business senza per forza mettere un grafico davanti ai loro occhi. Anche quando abbiamo come docenti speciali i fondatori di un brand di abbigliamento, come ad esempio Giordano e Giuliano Calza di GCDS, ti parlano di imprenditoria e di finanza attraverso il filtro della moda, un filtro che è a loro caro.
La connessione tra moda e NBA è più forte che in qualsiasi altro settore sportivo.
L’NBA è stata la prima a esplorare questo mondo. Anzi, i giocatori NBA. In primis lo hanno fatto per esprimere il proprio io, ma anche per competere ulteriormente tra di loro. Questo sta permettendo loro di posizionarsi anche come asset dei brand fashion, non solo sotto un ottica di endorsement, anche perché sappiamo che i brand di lusso sono piuttosto chiusi da questo punto di vista, ma quotidianamente grazie alla propria influenza, individuale e collettiva. Per noi è importante perché abbiamo la forza di poter dire “i giocatori NBA sono stati i primi” e hanno poi influenzato il panorama NFL, calcistico, ecc.
Come hai detto, i brand di lusso non hanno bisogno di fare pubblicità e posizionamenti. Infatti molti giocatori NBA usano i tunnel fits per comunicare non solo un bel vestito, ma spesso anche un proprio progetto, un marchio indipendente o ancora un messaggio che sia anche sociale e politico.
Assolutamente, perché sono messaggi universali che parlano tutte le lingue. Un esempio importante che ho vissuto anche io di riflesso è relativo al periodo della Bubble di Orlando, quando eravamo chiusi a Disneyland per il Covid. Ci furono gli omicidi di George Floyd e Breonna Taylor e stavamo cercando il modo corretto per veicolare certi messaggi che i ragazzi ci tenevano a esternare con una prospettiva collettiva. Non a caso, abbiamo realizzato una partnership con Honor the Gift, il marchio di Russell Westbrook, creando una capsule che includesse anche i nomi delle vittime degli ultimi mesi. Abbiamo poi distribuito i capi ai giocatori che li hanno indossati pubblicamente. Un messaggio forte, certo, ma era quello che andava fatto in quel momento. La moda ci ha aiutato a rendere quel messaggio più facile da comprendere.
Anche avere degli atleti così predisposti a prendere posizione politica in maniera vocale non è una banalità.
No, infatti. Recentemente tre giocatori del nostro board, Jaylen Brown, Michael Brogdon e Grant Williams, hanno recentemente effettuato una visita alla Casa Bianca per parlare a una commissione bipartisan della loro prospettiva sulla giustizia sociale. Sono ragazzi seri, estremamente coinvolti e preparati.
Considerando la forza, l’influenza e la vocalità degli atleti NBA, quali sono le principali complessità di gestire la Players’ Association della Players’ League per antonomasia?
In realtà non c’è nulla di problematico. È un traguardo che i ragazzi hanno conquistato col tempo. Tutto parte dal sistema economico della NBA che è molto particolare perché si basa sulla condivisione dei ricavi. C’è una partnership tra i proprietari, la NBA e i 450 giocatori. Questi ultimi hanno conquistato un certo stato grazie alla consapevolezza del proprio valore: sanno che non esistono altri 450 giocatori di basket come loro. Per questo si sono organizzati in una associazione per migliorare la propria posizione però sempre tenendo il focus sul bene del business. Non a caso questi giocatori sono i lavoratori sindacalizzati più pagati al mondo. Però la loro carriera finisce mediamente poco dopo i 30 anni, per questo li aiutiamo a reinventarsi.
Diversi giocatori NBA hanno continuato gli studi dopo il ritiro, ma negli ultimi anni mi sembra che siano più fieri nel farlo vedere, è più palese agli occhi di tutti. Mi sbaglio?
C’è grande orgoglio!
Pensiamo a quanta pubblicità positiva da questo punto di vista ha fatto in primis Ray Allen, e ora anche figure come quella di J.R. Smith.
Esatto! Ma se ci fai caso, Bronny, il figlio di LeBron James, si è appena diplomato, e su cosa verteva tutto lo storytelling di James stesso nel condividere questa notizia alla sua fanbase? Nel dire “Bronny è il primo membro della mia famiglia ad andare all’università”. Il tetto di vetro che impedisce a certe comunità di progredire nella scala sociale esiste davvero, e l’educazione ricoprirà sempre un ruolo fondamentale. Questo progetto portato avanti con la business school numero 6 al mondo serve anche a questo: a creare delle visioni che prima alcuni atleti provenienti da determinate comunità non riuscivano a vedere.
Alcuni degli atleti passati in questi anni dal progetto One Court portano avanti ulteriormente gli studi? Restano i contatto con Bocconi e con i docenti?
Certo! Non a caso ieri sera ero con Patty Mills il quale mi ha detto di voler tornare a studiare, di volersi organizzare per ritornare sui banchi universitari.
Perché in NBA questi comportamenti sono così comuni e altrove no?
Perché si è investito e si continua a investire nel loro sviluppo personale. In primis la NBA direttamente, e ancora più la NBPA negli anni passati, hanno capito il valore di avere degli atleti che non pensano solo al campo ma di creare delle persone migliori. Non solo per una questione di immagine ma perché, come detto, il sistema di condivisione dei ricavi ti porta a volere un business partner che capisca davvero come funzionano certe cose, perché solo così sarà motivato a comportarsi e pensare in un modo che migliori gli affari di tutte le figure coinvolte. Il fatto che i giocatori NBA si espandano oltre il campo è percepito come un valore per la federazione sportiva e per il business.
Qual è quindi il futuro del tuo lavoro in NBPA, già così avanzato rispetto a quello di altre federazioni sportive?
Il nostro è un percorso evolutivo: i giocatori cambiano, abbiamo nuove generazioni e nuove esigenze. Il linguaggio che dobbiamo usare e gli stimoli che dobbiamo usare sono differenti. Non so se c’è qualcosa che non abbiamo ancora fatto, so che dobbiamo trovare sempre qualcosa di nuovo da proporre a ragazzi che sono sempre in evoluzione.
Ragazzi che sono sempre più globali.
Precisamente! Non solo gli ultimi MVP, che sono comunque delle eccezioni, sono tutti giocatori internazionali, è un discorso più ampio. L’impatto dei giocatori internazionali è cambiato, non sono più dei comprimari. Ormai è possibile trovare un giocatore internazionale di prima fascia in ogni squadra. Non danno solo un grande contributo sul campo, ma anche nella vita della squadra, perché hanno un approccio diverso, allo sport e alla vita. Questa diversità è un valore che tutti riconoscono e anche a livello di business, aiuta.
Aggiungiamo al tutto questo il fatto che il giocatore più discusso del momento, Victor Wembanyama, sia francese. Forse il prospetto più atteso degli ultimi 20 anni.
Parliamo di un ragazzo speciale, unico. Gli lasciamo il tempo di fare le sue esperienze, magari avere anche le sue difficoltà perché stiamo dando per scontato che tutto sia rose e fiori. Personalmente non vedo l’ora di lavorare con lui: l’ho conosciuto a Parigi in occasione dell’ultimo Global Game di febbraio e prima del Draft è passato nei nostri uffici di New York ad allenarsi. Di certo c’è che potrà contare su tanto supporto da parte di mentori internazionali che ben conoscono l’ecosistema degli Spurs e gli daranno una mano ad ambientarsi.
A questo punto la domanda sorge spontanea: lo shock culturale esiste ancora per un giocatore internazionale che arriva in NBA al giorno d’oggi?
lo shock culturale c’è sempre, ma è cambiato il livello di accettazione: i primi europei (i vari Petrovic, Sabonis, Marciulonis, ecc.) dovettero lottare per essere accettati. Oggi non si parte di più dalla domanda “chi è questo?” ma più che altro da “sarà lui il prossimo?” e questa dinamica mi entusiasma.