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Negli ultimi giorni si è diffusa la notizia che Fiorucci sta per intraprendere un percorso di rebranding dopo l’addio del direttore creativo Daniel W. Fletcher comunicato a giugno. A dirigere il marchio saranno l’amministratore delegato Alessandro Pisani e la stilista Francesca Murri, la quale vanta delle esperienze presso maison del calibro di Armani, Givenchy, Gucci e Versace. A rendere tutto ancor più interessante è il fatto che il debutto di questo nuovo corso voluto dall’imprenditrice Dona Bertarelli avverrà in occasione della Milano Fashion Week prevista per settembre.
Ed è proprio sulla città di Milano che il brand vuole puntare, valorizzando il legame con il luogo dove tutto è cominciato.
È infatti nel capoluogo lombardo che Elio Fiorucci inizia a muovere i primi passi lavorando come commesso nel piccolo negozio di pantofole gestito dal padre, rendendosi conto ben presto di avere la capacità innata di intuire il gusto dei clienti. Fu però un viaggio a Londra che fece scatenare la vera e propria rivoluzione, con la scoperta dell’effervescente Swinging London, di Carnaby Street, di King’s Road e di Biba. Fiorucci decise così di portare nella sua patria quel senso di libertà e trasgressione che si respirava all’epoca in Inghilterra, manifestando al tempo stesso la sua sensibilità per la moda e dando inizio a una nuova era del costume.
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Il 31 maggio del 1967 apre dunque il suo primo negozio in Galleria Passarella, nella zona di San Babila. Lo spazio venne progettato dalla scultrice Amalia Del Ponte con l’aiuto di Achille Castiglioni come “un grande mercato delle idee dove vige la regola del caos ordinato”. Non esiste una definizione migliore, poiché non era affatto come le altre boutique meneghine. All’interno era possibile trovare di tutto: capi d’abbigliamento nuovi e vintage, pezzi di design, souvenir esotici, profumi, piante, libri e vinili. Non si andava lì soltanto per comprare, ma per vivere il luogo incontrando gente cool, ascoltare musica, mangiare hamburger su piatti di porcellana e assistere a mostre d’arte. Un giorno era possibile trovare Adriano Celentano intento a improvvisare un live, un altro c’era Lina Wertmüller che girava le scene di un film e quello dopo ancora Keith Haring che dipingeva gli arredi da cima a fondo. Lo store di Fiorucci era una meta turistica, una culla per la controcultura, un ritrovo per i giovani che desideravano ribellarsi al perbenismo borghese.
Al centro di una Milano rigida, fra boutique di lusso, noi siamo arrivati con le minigonne, i colori, le luci, la musica alta. È stato uno shock per la città, ma al tempo stesso la mia fortuna.
Elio Fiorucci
All’apertura milanese seguirà nel 1976 quella di New York, il cui progetto venne affidato a Ettore Sottsass e Andrea Branzi. Il concept è lo stesso: laddove si legge l’insegna “FIORUCCI” vi si raduna un’intera scena culturale, in questo caso quella di intellettuali e artisti d’avanguardia come Jean-Michel Basquiat, Grace Jones, Truman Capote, Madonna, Marc Jacobs ed Andy Warhol, il quale scelse il punto vendita addirittura per organizzare una festa in cui promuovere la sua rivista Interview. Leggendaria fu poi la performance artistica di Colette, che dormì per sette giorni nella vetrina di quell’eclettico bazar, così come memorabile fu il legame con la mitica discoteca Studio 54. Tanto in Italia quanto all’estero Elio Fiorucci era diventato un’icona, un volto in grado di plasmare lo zeitgeist degli anni Settanta e Ottanta rappresentando tutto ciò che si può definire stravagante, anticonvenzionale e pop.
L’anima di Fiorucci era sì racchiusa in quei negozi capaci di “offrire un’esperienza“, ma non solo. Fondamentale fu infatti la produzione del marchio, che all’interno del suo catalogo proponeva abiti ispirati all’ossessione del suo fondatore per lo street style delle grandi metropoli. Le sue collezioni erano sensuali, divertenti, ironiche, provocatorie e libere da ogni pregiudizio. Stampe militari, motivi animalier e tinte rosa shocking diventano un cult per il jet-set, accanto a t-shirt con Topolino e Minnie, impermeabili trasparenti e quel logo raffigurante due paffuti angioletti in stile vittoriano che venne ideato dal grande Italo Lupi richiamando vagamente i cherubini della “Madonna Sistina” di Raffaello Sanzio. Indimenticabili furono poi le scandalose campagne pubblicitarie curate da Oliviero Toscani e ovviamente i jeans stretch da donna in lycra e denim che esaltavano le forme.
Di Elio Fiorucci si può dire senza ombra di dubbio che era un talentuosissimo creativo, ma non un altrettanto abile imprenditore che teneva rigidamente conto dell’aspetto finanziario della sua azienda. Per questo la vertiginosa espansione avvenuta in tre continenti nel giro di pochi anni causò una difficoltà economica che portò alla vendita del brand alla società Edwin International, seguita da molteplici passaggi di proprietà. L’ultimo di questi però, siglato l’anno scorso, promette particolarmente bene e si spera che riesca una volta per tutte a far rinnamorare le persone di Fiorucci, riaffermando i suoi valori visionari e la sua voglia di rompere gli schemi.