“Cosa vuoi fare da grande?” È la prima domanda che ti fanno all’asilo, all’esame di terza media e poi alla maturità.
Se oggi chiedi a un giovane della Gen Z: “Qual è il tuo lavoro dei sogni?”, potresti ricevere come risposta un: “Nei miei sogni non c’è il lavoro”. Un’affermazione provocatoria, che riflette una disillusione generazionale verso l’idea di carriera e successo trasmessa dai loro predecessori. Dopo anni di crisi economiche, salari stagnanti e aspettative irrealistiche, sempre più giovani si rendono conto che il sogno del “lavora sodo e avrai successo” non funziona più come una volta. La promessa di stabilità in cambio di dedizione si è sgretolata, lasciando spazio a un nuovo interrogativo: e se il lavoro non fosse il centro di tutto?
Non è pigrizia né mancanza di ambizione, ma una nuova consapevolezza; come diceva Diane in BoJack Horseman: “You know, it’s funny; when you look at someone through rose-colored glasses, all the red flags just look like flags.” Per anni ci siamo raccontati che il sacrificio sul lavoro fosse una virtù. Ora stiamo iniziando a vedere quelle red flags per quello che sono.
Eppure, non è un caso che la reazione a questo trend sia spesso di incredulità. “I giovani non vogliono fare carriera! Non vogliono diventare manager!”. O, ancora peggio, l’accusa più diffusa nei titoli di giornale: “Non hanno voglia di lavorare”, come se fosse impensabile che qualcuno possa voler vivere senza il costante bisogno di scalare gerarchie o inseguire promozioni. In realtà, il fenomeno racconta una storia diversa: quella di una generazione che vuole lavorare, ma senza farne il centro della propria vita.
Da dove nasce questa presa di posizione? Le cause sono diverse. Abbiamo visto i nostri genitori sacrificare tempo e salute per un modello di carriera che oggi non garantisce più sicurezza né soddisfazione.
I parametri tradizionali di realizzazione personale non rispecchiano più la realtà attuale, le bambine vogliono diventare rapper, non veterinarie.
@kforkiyaah These are truly my babies 🥹 My first set of students, from Kindergarten to 1st grade 🥹🥹🥹 #foryou #fyp #teachersoftiktok #teacherlife #1stgradeteacher #ilovemystudentsrealbad ♬ My Love Mine All Mine – Mitski
In cima alla lista c’è il bisogno di riappropriarsi del proprio tempo: sempre più persone vogliono vivere senza sentirsi in colpa per non dedicare ogni ora della giornata al lavoro. Come osservato in un articolo della Harvard Business Review, il lavoro è spesso visto non solo come una necessità economica, ma come un mezzo per dimostrare il proprio valore. Questo fenomeno è radicato nella cultura del sovraccarico, dove l’idea di produttività costante è celebrata come segno di successo.
“Quanto spesso sentiamo glorificare il lavoratore instancabile, quello che si ferma in ufficio fino a tarda sera, che sacrifica weekend e vacanze?”, Per troppo tempo, la dedizione assoluta al lavoro è stata vista come una virtù. Oggi, invece, si fa strada un’idea diversa.
please stop asking me about my dream job I never dreamed about working https://t.co/QIfXDtiWDP pic.twitter.com/QOKldx8Hsw
— ღ (@stfnigg) January 1, 2025
Ma cosa succede quando il rifiuto del lavoro incontra la necessità di mantenersi? A un certo punto, arriva il reality check e la domanda sorge spontanea, come faccio a mettere insieme il pranzo con la cena? Molti giovani cercano soluzioni per bilanciare il bisogno economico con il desiderio di non fare del lavoro il centro della loro vita: c’è chi sceglie il part-time, chi opta per il freelancing, chi esplora la creator economy (Forbes) o semplicemente chi cerca di creare un maggiore equilibrio tra tempo libero e impiego.
Altri, invece, mettono in discussione l’intero sistema lavorativo e rifiutano l’idea che la produttività sia l’unico metro di valore, cercando modi per sottrarsi alla logica del capitalismo. “Wake up, Samurai. We have a city to burn.” incalza Johnny Silverhand in Cyberpunk 2077, lanciando un messaggio chiaro: il lavoro imposto non è sinonimo di realizzazione, e stiamo cercando alternative fuori dalla logica dello sfruttamento.
In questo scenario, l’idea stessa del lavoro come esperienza totalizzante viene messa in discussione. Se potessimo separare la nostra identità dalla nostra professione, come accade in Severance, saremmo più felici? La serie esplora il concetto di dissociazione tra vita lavorativa e personale in modo inquietante, immaginando un mondo in cui i dipendenti non ricordano nulla del proprio lavoro una volta usciti dall’ufficio. Ma la vera domanda è: dobbiamo davvero arrivare a un’estremizzazione del genere per riconoscere che il lavoro non dovrebbe definirci completamente?

Dalle dimissioni di massa al rifiuto del lavoro salariato, emergono nuove forme di resistenza che puntano a scardinare il modello tradizionale, non bruciando il sistema, ma costruendo alternative valide per non doverne far parte.
Forse non abbiamo ancora tutte le risposte, ma una cosa è certa: smettere di vedere la carriera come l’unico metro di realizzazione personale non è un fallimento ma una scelta. In fondo, questa generazione sta mettendo in discussione la stessa etica del lavoro che ha dominato per secoli. Un approccio che ricorda il pensiero di Max Weber sul legame tra capitalismo e morale protestante: lavorare non è solo un dovere, ma un valore. E se fosse un valore da rivedere?