È complesso capire se oggi sia facile o difficile fare design in Italia.
È vero, disponiamo di intere aree industriali e manifatturiere, tra le più sviluppate al mondo, e nella nostra indole sembra che si tramandi una certa propensione all’invenzione e alla cultura del fare, espressa in tutte le sue declinazioni.
Si direbbe un duo invincibile, vero?
La controparte, però, è già riassunta nel verbo “tramandare”: non siamo stati improvvisamente investiti da questo potere creatore, ma lo abbiamo ereditato dal susseguirsi di generazioni che, più o meno durante tutto il corso del Novecento, sono riuscite a dare un vero significato al termine “design”. Nel mondo, infatti, la fama per questa disciplina ci precede e non ci sono dubbi sul fatto che l’Italia abbia dettato legge e fatto scuola in questo settore.
Preziose opportunità e invidiabili mezzi, dunque, si contrappongono al peso che la grandezza della nostra storia ci costringe a portare sulle spalle. E sarebbe facile non risolversi nel trovare una soluzione a tale condizione, abbandonando così l’idea di prendere parte e dare il proprio contributo al panorama del progetto italiano.
NM3 è qui per dimostrarci che ciò si può fare e, per di più, senza dare alcuna risposta. È per questo motivo che abbiamo voluto scambiare quattro chiacchiere con Francesco Zorzi e Nicolò Ornaghi, due architetti poco più che trentenni, ma con alle spalle già una carriera densa di esperienze, nonché – insieme al fotografo Delfino Sisto Legnani – i fondatori di NM3, neonato studio di design con base a Milano e specializzato in arredamento, prodotto e interni. Aprendoci le porte del loro studio, ci hanno raccontato chi sono e cosa fanno e, soprattutto, ci hanno fatto entrare nella loro logica creativa decisamente contorta, istintiva e tagliente, che prevede una buona dose di fallimenti e, sorprendentemente, di vere e proprie copie.
Ciao ragazzi, innanzitutto grazie per averci ospitato qui nel vostro studio. Questo è lo spazio all’interno del quale le vostre idee si concretizzano e, già da una prima e immediata impressione, sembra che parli veramente di voi. Parto quindi con una semplice domanda: come e quando è nato NM3?
Francesco Zorzi: Io e Nicolò ci siamo conosciuti al primo anno di specialistica al Politecnico di Milano e, prima di aprire questo studio, collaboravamo già. Avevamo un altro studio che si chiamava Raumplan: inizialmente era una sorta di blog, ma si è evoluto in un nuovo progetto che si occupava di curatela e exhibition design. Eravamo insieme ai ragazzi di Giga Design Studio, che curano oggi la nostra immagine coordinata, poi ognuno ha preso direzioni diverse, scegliendo l’ambito disciplinare di maggiore interesse e così, verso marzo 2020, noi abbiamo aperto NM3 facendo uscire i nostri primi pezzi.
Nicolò Ornaghi: Anche con il nostro terzo socio Delfino collaboriamo da tanti anni ormai e lui, più nello specifico, oltre a partecipare al processo creativo dello studio, ne cura l’immagine fotografica e realizza, insieme ai suoi collaboratori, gran parte degli scatti.
A comporre l’energia creativa di NM3, dunque, ci sono tre professionisti del mondo della progettazione. Cercando informazioni su di voi non si trovato semplici profili da designer. Vi va di raccontarci un po’ di più in merito al vostro background?
NO: Siamo architetti di formazione e, a differenza dei nostri compagni e colleghi universitari, non abbiamo aperto uno studio per occuparci di architettura in senso canonico, ovvero facendo concorsi e ricevendo commissioni private. Il background è lo stesso, non abbiamo studiato product, ma abbiamo deciso comunque di occuparci di prodotto, oltre che di interni.
FZ: Abbiamo sempre svolto anche attività didattica, insegnando in università nelle vesti di professori o assistenti professori: Politecnico di Milano, ETH di Zurigo, TU Vienna. L’anno scorso avevamo un corso di Interior design alla facoltà di architettura di Genova.
A questo punto la domanda sorge spontanea: quanto cambia l’approccio progettuale passando dalla dimensione architettonica a quella degli oggetti?
FZ: Essendo di formazione architetti, facciamo design da tali. L’approccio, quindi, non cambia, mutano solo i ritmi e la scala dei progetti, insieme al fatto che i risultati si vedono prima. Se per realizzare un edificio ci metti come minimo due anni, nel prodotto una cosa come questa (Francesco indica un prototipo della NM15, una panca / coffee table che è esattamente davanti a noi) in massimo 4 settimane è pronta.
Come faceva Aldo Rossi, trattando gli oggetti da tavolo realizzati con Alessi – ad esempio le celebri caffettiere – proprio al pari di architetture.
FZ: Sì, questa operazione è sempre successa. Le lauree in graphic o product design sono state introdotte poco tempo fa e quindi un tempo erano tutti architetti che decidevano di diventare grafici o designer. Da Sottsass a Magistretti, erano progettisti che hanno lavorato più da designer che da architetti. Era proprio quel detto modernista “dal cucchiaio alla città”.
NO: Esatto, nel negozio UniFor qui a Milano, per esempio, fecero l’anno scorso una mostra scalando proprio gli oggetti di Rossi ed era interessante perché resistevano completamente al cambio di scala. Quando vedi i modellini di Memphis, invece, come quello della libreria Carlton, sembrano le sorprese degli ovetti Kinder.
Dal momento che abbiamo citato nomi di grandi maestri, colgo l’occasione per collegarmi a un aspetto che ho notato in merito a un vostro prodotto. Il tavolo NMFD sembra richiamare il Quatuor (1974) di Carlo Scarpa, un pezzo voluto per la collezione Metamobile dal leggendario Dino Gavina, e ciò dimostrerebbe l’influenza che la conoscenza storica del design e dell’architettura ha sulla vostra pratica.
NO: Non è che lo richiama, è una copia, peraltro citata. Ci sono una serie di nostri progetti che sono delle vere e proprie copie. La libreria che Shirō Kuramata ha fatto in vetro per Glas Italia, per esempio, noi l’abbiamo rifatta identica, con le stesse dimensioni e spessori, ma in alluminio. Per il Quatour di Scarpa, invece, la storia è un po’ più strana, perché è nato per sbaglio: nel senso che non lo conoscevamo ed è venuto uguale. Dopotutto ha una logica compositiva e strutturale molto semplice se si lavora con tagli e pieghe di irrigidimento.
FZ: È il minimo che puoi fare per renderlo strutturalmente coerente.
Per quanto riguarda l’importanza della conoscenza della storia del progetto per noi è sempre stata centrale, un pò per interesse un pò per necessità lavorative o accademiche. Quell’oggetto, per esempio, riprende le proporzioni di una colonna di Mies van der Rohe (Francesco mi fa notare che alla mia sinistra c’è una colonna con sezione a croce in alluminio, n.d.r.), noi l’abbiamo trasformata in una lampada, ma idealmente richiama una delle sue colonne.
NO: Adesso in realtà guardiamo più ad altre cose. Prima eravamo più legati ai riferimenti di cui stavamo parlando, ma ora traiamo ispirazione da settori e ambienti diversi. Ultimamente stiamo guardando all’estetica aeronautica e aerodinamica, tipo i flap degli aerei o gli alettoni della formula 1.
FZ: Ma anche i tank, con tutte le imbullonature da carro armato. Alla base c’è sempre un riferimento formale, indipendentemente dal fatto che abbia un valore storico e culturale. Ci riferiamo sempre formalmente ed esteticamente a qualcosa di già esistente. In questo senso ritorna il tema della copia. Nel copiare non c’è niente di male: se cambi il materiale, allora lo devi riuscire ad adattare e ciò rende il risultato già qualcosa di differente e, se alteri anche di poco una proporzione, cambia ancora una volta.
A proposito del linguaggio estetico che adottate, NM3 è specializzato nella progettazione di complementi d’arredo sia per interni che per esterni e, che si tratti di librerie, tavoli o sgabelli, il risultato ottenuto è sempre estremamente riconoscibile: materiali grezzi sono riassunti in linee essenziali, in una sintesi formale che, come direbbe A. Loos, non prevede ornamenti. Di reference ce ne avete già parlato, ma da dove deriva la scelta di questi materiali?
NO: Semplicemente dal fatto che, un paio di anni fa, fare le cose in carpenteria metallica costava poco e adesso, invece, purtroppo, costa parecchio.
FZ: E anche il processo progettuale è abbastanza banale e decisamente industriale, nel vero senso della parola. Lavoriamo nelle operazioni e possibilità che le lavorazioni di carpenteria metallica standard (principalmente taglio, piega, filettatura, svasatura) consentono su una lamiera, un foglio di alluminio o di acciaio inox, e da lì cominciamo a disegnare. Non partiamo dalla forma e cerchiamo un modo per realizzarla. Facciamo il contrario: sappiamo cosa si può fare e lavoriamo all’interno di quelle possibilità. Non c’è niente di pazzesco alle spalle dei pezzi, nessuna strabiliante lavorazione. Come vedi sono basici, sono oggetti veramente ridotti al minimo e il loro linguaggio parla di questo. Tendiamo alla sintesi e non facciamo mai overdesign. Infine, cerchiamo di fare ogni cosa il prima possibile: in massimo quattro settimane passiamo dall’idea al prodotto finito.
NO: A volte bastano anche quattro giorni. Le cose preferiamo vederle fatte, realizzate, al massimo le accantoniamo.
Oggi abbiamo la fortuna di fare questa intervista proprio all’interno del vostro studio che non vivete da soli perché, oltre a contenere la montagna di prototipi e pezzi in corso di realizzazione, ospita anche i vostri collaboratori. Qui con voi avete anche non pochi celebri pezzi di design, sempre appartenenti a quei grandi nomi di cui si parlava prima. Questa, per esempio, è una bellissima sedia di Joe Colombo.
NO: Questa sedia di Joe Colombo viene da una nostra mostra sui fallimenti dei grandi maestri, una di quelle che abbiamo realizzato ai tempi di Raumplan, e si intitolava proprio “Failures”. L’avevamo organizzata nel 2017 in collaborazione con alcuni musei aziendali tra cui l’archivio Alessi. Oggi il tema del fallimento è abbastanza di moda, 5 anni fa non lo era. La sedia di Colombo era un fallimento perché, quando venne progettata, la tecnologia di piegatura non era pronta per lavorare questo tipo di spessori in plastica e quindi la fecero in legno laccato, così da simulare la plastica. Poi, solo pochi anni fa, è stata rieditata nel modo in cui l’avrebbe veramente voluta Colombo.
Per quanto riguarda voi, invece, avete dei fallimenti?
FZ: parecchi! Quello lì, che sembra uno slittino, è un fallimento di cui ci vergogniamo molto. Anche questa lampada (la stessa citata prima, n.d.r.) è bella, però pesa troppo e se ti cade addosso è un problema.
Da quello che dite sembra che il processo progettuale lo viviate benissimo, ma come lo affrontate, invece, il fallimento dal punto di vista creativo?
FZ: Male, deprimendoci parecchio! Pensa che una volta, per una mail finita in spam, abbiamo perso un lavoro importante in un grosso Department Store di Londra: non eravamo contenti. Ma anche quando da un esecutivo esce un foro spostato di un millimetro e mezzo e una vite non combacia… Facendo tanti progetti capita, ma le cose sono meglio fatte che perfette, anche perché si sistemano, le aggiusti. L’importante è fare e fare velocemente: è buona la prima.
Prima avevate accennato a una certa affinità che nutrite nei confronti del settore moda, da dove deriva?
FZ: Per quanto mi riguarda, mi è sempre piaciuto quel mondo, sin dagli anni del liceo. Poi, oltre alla passione personale, c’è anche una motivazione più pratica: spesso ci troviamo a collaborare con brand. Solitamente hanno budget buoni e, rispetto a quello che dicevamo prima, si lavora veloci, con ritmi sostenuti che non sono quelli che normalmente caratterizzano il mondo dell’architettura e del design di prodotto. Inoltre, sono molto disponibili a cose abbastanza particolari, quindi è stimolante lavorare con loro.
Dal loro punto di vista, poi, immagino che quando scelgono di contattarvi, cerchino proprio il vostro stile.
FZ: Esatto. La gente che ti cerca si è già fatta un’idea su di te e vuole proprio quell’estetica lì. Questo è un vantaggio.
Come è successo per la vostra collaborazione con l’Inter.
FZ: Avevamo fatto alcuni mobili per un locale che si chiama Turbo, qui a Milano e per l’agenzia adiacente che si chiama Acapulco. Con loro abbiamo portato i nostri pezzi nelle lounge dell’Inter. In realtà, abbiamo molte cose che stanno andando avanti con diversi brand. A breve, per esempio, uscirà sull’e-commerce di Ssense una collezione di cinque pezzi che abbiamo realizzato in collaborazione con il brand danese Heliot Emil.
Avete collaborato anche con Sunnei.
FZ: Per Sunnei abbiamo realizzato, per prima cosa, un tavolo scultoreo e degli sgabelli per il cortile del loro headquarter qui a Milano. E poi abbiamo progettato l’installazione fuori dallo store di Via Vincenzo Vela in occasione del Salone del Mobile dell’anno scorso. Nello stesso periodo abbiamo lavorato per Off-White, sempre per un’installazione al di fuori del negozio di Via Bigli.
Insomma, le realtà con cui lavorate non sembrano lasciate al caso, dopotutto contribuiscono a definire per accostamento l’immagine dello studio. Anche scegliere le collaborazioni, quindi, diventa un progetto?
FZ: Sì, anche se ci capita spesso di collaborare soprattutto con amici.
NO: Al momento stiamo lavorando con Domenico Romeo, ma anche con Domenico Formichetti, su progetti diversi che intersecano passioni comuni.
FZ: Con Romeo ci sarà un progetto di collaborazione a lungo termine che è ancora in cantiere. Per il primo drop, lui disegnerà per noi delle divise da usare qui in studio, sulla falsa riga di quelle che ha disegnato per il suo studio. Poi, più avanti, svilupperemo la collaborazione con oggetti scultorei, pezzi di design e installazioni. Domenico Romeo è un carissimo amico, siamo in stretta connessione, abbiamo idee molto affini.
NO: Con Formichetti, invece, l’idea è diversa perché sta realizzando delle livree da applicare su due dei nostri modelli. Saranno delle stampe camo firmate Formy, tutto rifinito a mano da lui, alle quali seguirà poi un nostro pezzo customizzato: un mobile dischi in tiratura super limitata. In aggiunta, uscirà anche del merch con hoodie e t-shirt. Con lui il rapporto è stato immediato, ci siamo conosciuti tramite Romeo e ci siamo subito stati simpatici.