Deborah De Luca decide tutto da sé

«È andata bene, dai…». «No. Per me non va mai bene niente». Ma subito dopo averlo detto, subito dopo aver risposto così, Deborah De Luca scoppia a ridere. Un sorriso tanto divertito quanto ironico: perché è vero, lei non riesce a godersi le cose del tutto. E su questo, ci arriveremo a fine di questa intervista. 

Intervista che si è svolta in un luogo non banale: New York, Manhattan, in un hotel all’incrocio tra la Trentanovesima e la 8th Avenue. Non a caso. Perché è proprio a New York, proprio a Manhattan e proprio nel luogo forse più iconico di Manhattan e dell’intero mondo socio-culturale occidentale, ovvero Times Square, che la dj napoletana («Nata all’ombra delle Vele di Scampia», come ama far iniziare le sue bio) ha deciso di presentare il suo nuovo album, “Hard Pop“, ventuno tracce che sono veramente una perfetta rappresentazione dell’universo sonoro, della etica e del piglio della De Luca. Ne parleremo parecchio, in questa conversazione, del disco e ancora di più del suo modus operandi, della sua visione sul come fare le cose e del perché farle. Anche perché questa presentazione newyorkese l’abbiamo vista coi nostri occhi, l’abbiamo vissuta in prima persona viaggiando con alcuni degli ospiti – Matia Bazar, Mondo Marcio – e soprattutto ci siamo finiti dentro, in questo giro turistico/giornalistico, in un modo 100% Deborah De Luca.

Ovvero: con la dj italiana ci si conosce da un po’. E se in teoria chi scrive questo articolo viene tendenzialmente affiliato al versante intellettuale (intellettualoide) e sofisticato della club culture, mentre la De Luca di suo è vista dal versante in questione come la regina svergognata degli dei sempliciotti con la sua techno a presa facile, in realtà c’è una grande stima reciproca da tempi non sospetti tra noialtri due. Stima che prima ha figliato un’intervista uscita su un magazine on line bastione della club culture più integralista («Ah, volevi intervistarmi per farti insultare un po’, dillo, dillo sinceramente…»), intervista peraltro venuta benissimo, e poi occasionali conversazioni via WhatsApp o Messenger. Conversazioni sempre molto schiette e interessanti. Conversazioni che è raro fare con la maggioranza dei suoi colleghi: anche (…e soprattutto?) quelli del versante più “alto” e intellettuale, che sono ormai sempre più trincerati dietro il luogo comune di sé stessi, prigionieri di quello che la club culture è diventata oggi nelle sue declinazioni più sciccoso-globali, e prigionieri dei propri privilegi acquisiti entrando in questo “salotto buono” e denaroso dei circuiti techno e house, un circuito elitario, snob e con regole ben definite. Deborah, di snobismo, ne ha zero. Schietta da far paura. Autentica da far paura. Zero “salotto buono”. Zero filtri. Non si nasconde dietro a manager, sottomanager, agenti, sub-agenti, cerchi magici, risposte di comodo. Lo capisci da come usa i social, e da come usi ancora Facebook (Facebook!), con post tutt’altro che accomodanti, tutt’altro che liofilizzati, tutt’altro che safe. Vuole dire la sua? La dice. E se capita che su Facebook o su Instagram qualcuno le posti commenti negativi e magari pure piuttosto haterosi, beh, contravvenendo ad ogni manuale di comunicazione di un artista di successo lei risponde, risponde in prima persona, risponde per le rime, zero cerimonie, ti manda insomma se necessario a cagare. Se le manchi di rispetto, ti ripaga con la stessa moneta cafona. Anche perché legge. Legge tutto. Controlla. Non si fa sfuggire niente. Mentre ormai la quasi totalità dei suoi colleghi dal successo simile al suo vive in distratte gabbie dorate in cui l’essere a contatto col mondo normale – e magari pure con gli hater, che del suddetto mondo sono parte integrante – è vista come una perdita di tempo e pure proprio di prestigio, di profilo, alla De Luca ancora oggi gliene frega zero del prestigio e del profilo, e del sentirsi superiore rispetto agli altri: le interessa più battagliare, battagliare ad armi pari, rispondere per le rime, far valere le sue cazzo di ragioni. Una persona estremamente autentica e schietta. Quasi spaventosamente autentica e schietta, per gli standard odierni dello show business. 

Ma appunto. Veniamo a noi. Al perché siamo a New York, qui con lei. Tipo un mesetto fa, parlando del più e del meno via messaggi di WhatsApp, a un certo punto lei se ne viene fuori con: «…e poi tanto tra un mese sono a New York». «Ma dai. E a fare cosa?». «A presentare il disco nuovo. A Times Square». «A Times Square? Cioè, proprio in piazza? Caspita, questa è notevole. Se esistessero dei voli low cost, la faccenda è talmente bizzarra che quasi quasi verrei a vedere». «Allora facciamo che vieni. Ti invito io». «No. Rifiuto». «Rifiuti?». «Non voglio regali. È già troppo pieno di giornalisti che pensano solo a scroccare viaggi dagli artisti e dai loro management, per poi essere tenuti sotto controllo come barboncini. Avrebbe senso solo se ti offrissi una copertura editoriale di peso; allora sì sarebbe una spesa in comunicazione sensata da parte tua il pagarmi il viaggio, e tra noi di conseguenza sarebbe un rapporto alla pari. O così, o buon divertimento a New York. E poi, in caso, mi racconti». 

Il fatto che leggiate questo articolo, copertina digitale di Outpump, vi fa capire come sia stata trovata la quadra, alla fine. Però ecco: non è nato tutto da grandi accordi di marketing pianificati con mesi di anticipo, da studiatissime strategie promozionali. Del resto se il rapporto con la De Luca è buono, è proprio perché – torniamo al punto – è subito stato chiaro a entrambi, già dal primo contatto di persona, che la chiave del confronto sia professionale che amichevole e personale sarebbe stata la schiettezza. In tempi di giornalismo troppo spesso (s)venduto agli uffici stampa e ai dipartimenti marketing, e in tempi in cui gli artisti si adoperano – in prima persona, o tramite i loro management – per condizionare integralmente l’output dei media e si offendono quando questo non accade, Deborah De Luca è un personaggio meraviglioso. Perfettamente controcorrente. Con lei puoi avere un rapporto “vecchio stile”. Forse è anche per questo che, in modo molto demodé, reputa ancora importanti le testate giornalistiche, l’informazione attorno alla musica, invece di pensare che bastino i propri account social a tratteggiare il brand profile (e lo spessore reale) di sé stessi. «Bene, allora vieni. Ma non è che poi scrivi che il disco ti fa schifo? O che New York è una merda? Vabbé, oh. Fallo. Se poi vuoi farlo, fallo. Chi se ne frega. Sono contenta che vedi anche tu ‘sta cosa di Times Square, anche se poi ti sembra una cagata. E comunque: peggio per te, se pensi che sia una cagata».

Questo è accaduto prima di trovarsi tutti assieme a New York. Tutto il resto della conversazione che leggete da ora in poi, è avvenuto invece dopo Times Square, dopo questa presentazione live mandata successivamente in streaming on line da Beatport. Riannodiamo i fili, partiamo dall’inizio: perché siamo qua. «In origine io volevo presentare “Hard Pop” in sei, sette città importanti, tipo Madrid, Berlino, Parigi… Mi sono però resa conto che in questo modo avrei comunque escluso una parte del mondo. ‘Voglio una vetrina globale’, mi sono detta. Ce l’ho: New York! Devo farla lì, la presentazione! Devo farla lì, e devo farla nel centro del centro di New York, a Times Square». Peraltro, New York non è mai stata una città particolarmente votata alla techno e alla cassa in quattro. Anzi. «Non doveva essere una capitale della techno in senso specifico, volevo un luogo, una città che parlasse a tutti, che fosse rilevante per tutti, per qualsiasi contesto geografico e musicale. Ovviamente subito dopo aver pensato ‘sta cosa di New York e di Times Square mi sono data della pazza. ‘Non me lo faranno fare mai’, mi sono subito detta. L’ultima a presentare il disco lì è stata Shakira. ‘Ti pare che facciano fare lo stesso a me, subito dopo di lei? Ma figuriamoci…’». E invece. «…e invece, eccoci qua. Il mio manager è riuscito a fare un lavoro di persuasione incredibile. Boh. Li avrà ipnotizzati, che ne so? Sta di fatto che alla fine hanno accettato. Ma è stato uno stress. Un gigantesco stress, arrivare a organizzare tutto quanto. Davvero. Per me, per chi ha lavorato a stretto contatto con me. Ci scherzo ora, col mio manager: ‘Da quanto ti ho stressato, ora dovrò pagarti il botox per rimetterti in sesto’. Lui ride. Ma poi il botox lo vuole davvero, mi sa».

Però dai, alla fine è andata bene, le diciamo – e così si torna all’esatto momento di conversazione con cui abbiamo aperto questo lungo reportage/intervista. «Per me non va mai bene niente. È strano, sai: io sono contenta di qualsiasi cosa, anche della conquista più piccola e insignificante, ma se mi chiedi se le cose sono andate bene ti trovo ogni volta mille cose piccole e grandi che potevano essere fatte meglio, che non sono state sviluppate nel modo giusto, che non sono andate come pensavo e speravo. Sono sinceramente contenta e profondamente insoddisfatta allo stesso tempo sempre, su qualsiasi cosa». Mettiamola così: è andata bene, questa presentazione di “Hard Pop”, non sarà stato tutto perfetto ma… «…ma poteva essere un disastro, lo so. Tipo: se pioveva? Se pioveva, sai che facevo: mi buttavo dall’Empire State Building, mi suicidavo. A pensarci bene, a fare così avrei fatto parlare molto di più di me e del mio disco…», e giù una risata secca, perché se da un lato questa frase è uno scherzoso paradosso dall’altro siamo entrambi consci di quanto sia in realtà assolutamente fattualmente veritiera. 

Ma parliamo di “Hard Pop”. Terzo album della De Luca. Un album bizzarro, a suo modo. Techno/trance abbasta bruta e pop italiano. «Questo album è nato perché oggi non mi piace praticamente nulla di quello che sento in giro, di quello che vedo nelle classifiche di Beatport. La techno oggi è diventata tutta hard, spintissima, portata all’estremo. Tutto questo non mi emoziona più. In qualche caso ancora sì, a dire il vero, ma è abbastanza raro. Io continuo ad essere una che ama la melodia, non solo il picchiare duro. Allora sai cosa ho fatto? Mi sono rimboccata le maniche, e ho iniziato a produrre musica come mai prima. Col risultato che nei miei dj set, nell’ultimo periodo, quasi l’80% del materiale suonato è mio. Continuavo a sfornare brani, e a un certo punto mi sono fermata a riascoltarli un po’ tutti insieme e ho iniziato a dirmi ‘Ah, questo è bello, questo funziona, questo pure mi piace, anche questo è buono…’. E sai cosa? La maggior parte erano pezzi che avevano elementi profondamente pop. Quando mi danno della ‘dj pop’ pensano di offendermi, ma non hanno capito niente: io amo il pop. Lo amo da quando, da piccola, mio padre mi faceva ascoltare i suoi vinili. Prendi il mio remix in chiave techno di “Heart Of Glass” di Blondie, che peraltro non è nemmeno nel disco: quello è un brano che mi aveva fatto scoprire mio padre quando avevo cinque anni! Vale per i pezzi del passato, vale per i pezzi di oggi. “100 messaggi” di Lazza ha spaccato, è andata ovunque, e soprattutto è un pezzo che mi piace da morire? Bene: ho scritto subito a Lazza, ‘Ehi, mandami le parti del pezzo, che ci faccio il remix’. Subito».

Qua interrompiamo Deborah. Non ci torna una cosa: scrivi a Lazza, ok, ma che succede? Scrivi direttamente a lui, in persona? E lui ti risponde? Ti risponde pure? «Ma certo. Lui mi risponde subito». Una pausa. Ci guardiamo. «So dove vuoi arrivare, so cosa vuoi farmi dire…». Altra pausa. «Quando io parlo con gente tipo Lazza, tipo Geolier, tipo Emma, che sono i nomi del momento, che sono artisti che fanno milioni di streaming, da loro ricevo solo supporto ed entusiasmo. Emma, se le mando un remix techno di una roba sua, impazzisce, impazzisce sempre, si esalta. Geolier, uguale. Lazza, pure. E mi rispondono subito, mi rispondono direttamente loro. Se invece scrivo e ho a che fare con gente che ancora non si è costruita una solida strada nel campo della musica, che sono appena emersi uscendo da un buco in terra dopo aver scavato un bel po’ pur di poter essere visibili almeno un minimo, lì improvvisamente mi ritrovo a dover parlare con avvocati, manager… Ma ci rendiamo conto? Cioè, io scrivo a Geolier e Lazza, chiedendo il permesso di far uscire dei remix techno di loro cose, e loro mi rispondono subito entusiasti ‘Vai, vai, fallo, fantastico’; lo faccio con gente che conta un milionesimo di loro, e allora invece è ‘Eh, aspetta, ti faccio parlare col mio editore, col mio manager, col mio avvocato, vediamo, capiamo…’. Siamo scherzando? Sul serio? Ma in fondo è così non solo nel mondo del pop, lo è anche in quello più specifico della techno: incontri nello stesso festival il dj più importante del mondo, e lui si fa in quattro per venire a salutarti, gentilissimo; incontri magari uno che è una caccola, come rilevanza, popolarità, e lui fa finta di non vederti, che tu non esista. Anche se magari arriviamo pure dallo stesso Paese».

Tutto questo discorso ci porta a constatare che: in fondo, sono sempre gli artisti a decidere, a dettare le regole del gioco. Sono loro che decidono se e quando fare le cose, se e quando mettere di mezzo mille ostacoli e figure professionali per evitare magari di farle. «L’artista ha sempre la prima parola, l’ultima, e pure quella di mezzo. Questa è la verità». Che come principio ci sta. Ma Deborah De Luca è un caso particolare, in tal senso. Mai incontrato un artista del suo livello che continua così ossessivamente a controllare tutto ciò che gira attorno a sé, ogni singola cosa. Per dire, per questo servizio che stiamo mettendo su, copertina digitale per Outpump, di solito per le foto tocca parlare col management, con lo stylist, con tutta una serie insomma di figure professionali che lavorano per il protagonista di alto livello oggetto della copertina… Qui, no. Qui le foto le sta mandando lei, agli orari più improbabili. Direttamente lei, al sottoscritto. Ormai manco gli artisti al primo demo, alla rima release fanno così. «Gestisco tutto io. Sì. Anche per la mia etichetta, sai? La Sola_mente. Faccio tutto io. Seguo tutto io. La grafica. La stampa. Perfino i centrini dei vinili li decido io e li disegno direttamente io. L’unica cosa che non faccio è la masterizzazione. Per il resto, faccio tutto io. Tutto. E pure quando c’è uno shooting fotografico che mi riguarda: organizzo io, decido io. Controllo tutto: questo perché non voglio che alla fine mi facciano venire fuori come una Barbie, una con la pelle tutta piallata. Vai a vedere le foto della presentazione di Times Square: zero ritocco, si vedono pure i pori della pelle. Giusto così. Non mi interessa. Non voglio le foto tutte rifatte e trattate che si vedono in giro…». Sta di fatto che invece di affidarti almeno un po’ a un Photo Editor, mo’ ti metti pure a controllare una per una le foto tue, Deborah . «Ho il problema del controllo, lo so. Voglio che tutto sia esattamente come lo desidero, esattamente come ce l’ho in testa. Fino a poco tempo fa facevo addirittura direttamente io il booking per me stessa, fino a quando proprio non ce l’ho fatta più e mi sono affidata a un’agenzia, ma continuo a tenere sempre molto sotto controllo il loro lavoro attorno a me. Dici che è complicato, dici che è lavorare più del necessario fare così, nella posizione in cui sono? Boh. Io so solo che per questo lavoro ho sacrificato tanto, ho sacrificato anche molto della mia vita privata. Quindi voglio almeno che tutto sia come io ritengo giusto che sia. Mi pare il minimo».

Piano piano, il discorso si sposta sulle dinamiche del mondo techno odierno. Sulle sue dinamiche non solo musicali, ma anche e soprattutto umane. «Non sono una grande festaiola, oggi. Mi faccio le mie date, ma non è che sto ore e ore ai festival a parlare con la gente, con gli addetti ai lavori. Ma non perché me la tiri, eh; è che molto banalmente c’ho sonno! Io e Laura, la mia tour manager, dormiamo prima di una data e appena finito il set torniamo a dormire subito dopo, a meno che non ci siano degli aerei da prendere. Oggi va così. Quando avevo vent’anni era diverso, stavo molto più in giro, ero molto più contenta di parlare con le persone. Comunque sia chiaro che le mie amicizie, nell’ambiente, le ho. Con Nina (Kraviz, ndr) ad esempio siamo molto amiche. Ma non solo con lei. Ecco, fammi dire una cosa…». Vai. «C’è questa cosa per cui le donne  sarebbero sempre un po’ in competizione tra loro». Ok. È vero? «È vero solo perché di questa competizione sono gli uomini a parlarne, sono loro ad averla inventata e a continuare a parlarne in giro, altrimenti nel mondo reale non esiste assolutamente, tra noi colleghe non esiste assolutamente. Se Amelie (Lens, ndr) o Charlotte (De Witte, ndr) fanno una serata di successo, io sono contentissima: sono contentissima per loro, e sono contentissima perché magari dopo aver chiamato loro a quella serata chiameranno pure me. Capisci? C’è spazio per tutti, e tutte. Questa teorica competitività fra donne è una cosa che si sono inventata gli uomini».

C’è un’altra dinamica maschile, in atto. Ed è tutta la discussione attorno alle donne che fanno successo in campo techno che sarebbero solo delle stronze paraculate che sfruttano bassamente il loro aspetto fisico: solo per questo funzionano, mica perché abbiano delle consistenti qualità artistiche. Parlare di questo, per la De Luca, è un invito a nozze: «La verità è che gli uomini hanno paura delle donne. Soprattutto quando sono esteticamente non spiacevoli. Sai perché? Perché sanno che questa arma dell’estetica loro non la possono usare. È per questo, capisci? A noi donne non interessa se un dj è bello o bella. Agli uomini, invece, sì. Quando l’uomo vede che abbiamo successo e siamo pure non brutte, è terrorizzato: sa di avere delle armi in meno rispetto a noi. E allora inizia a dire che siamo ovviamente delle prostitute: che ci prostituiamo cioè artisticamente, professionalmente e magari pure fisicamente, ‘Eh, quella è lì solo perché…’. C’è questa regola assurda per cui è impossibile che una donna bella sia anche brava. Non vale solo per le dj, eh: pensa ad esempio alle tenniste, ma giusto per fare un esempio fra tanti. La verità è che in qualsiasi campo se sei bella, o comunque accettabile, allora per qualche motivo pare che tu non possa essere anche brava. Quindici anni fa, quando parlando di me dicevano ‘Questa suona tanto in giro solo perché è figa’ mi incazzavo, oggi invece ci rido sopra. Anzi, sai cosa? Oggi, se me lo dicono, lo prendo come un grandissimo complimento. Cioè, lo stai dicendo a me? Dall’alto dei miei 44 anni? Mi danno tutti questi soldi e mi fanno fare tutte queste date solo perché sono bella? Ah sì? E allora come mai se prendi una che ha vent’anni meno di me ed è molto più bella, tanto lei deve giusto fare finta di suonare, no?, la serata non funziona altrettanto bene e non ti fa guadagnare, anche se in cachet hai speso un ventesimo della cifra? Anche questa cosa del ‘Fare finta di suonare’: un tempo mi incazzavo pure per quello, oggi dico ‘Cazzo, che genio che sono: non so suonare, non so fare nulla, eppure giro il mondo venendo pure pagata per farlo: pensa se sapessi addirittura fare qualcosa cosa potrei ottenere!’».

Dal sarcasmo, il discorso si sposta a toni più accorati, parlando proprio di cosa la De Luca abbia ottenuto ad oggi. «Ogni volta che entro in un locale, ogni volta che mi viene bonificata una fattura, ogni singola volta io continuo a meravigliarmi per tutto quello che sta succedendo. Non riesco ancora ad abituarmi alle cose. Oggi sto così, sto bene, dieci anni fa non potevo manco permettermi un affitto. Oggi riesco a permettermi una casa, bella, esattamente come l’ho sempre sognata, niente di che, ma in riva al mare, vista tramonto: ci credi che ogni volta che sono in giro a fare la spesa e mi rendo conto all’improvviso che sta per arrivare l’ora in cui cala il sole, io corro a casa a duecento all’ora per non perdermi il tramonto e farne un video, perché mi sembra incredibile che posso goderlo da una prospettiva così bella?».

Ma in tutti questi anni, ti è capitato mai di odiarlo, in certi momenti, il tuo lavoro? Qui la dj napoletana fa una lunga pausa. Molto lunga. «Un anno e mezzo fa è morta Penelope, il mio cane che amavo più di me stessa, dopo due mesi di malattia». Altra lunga pausa. «Lì ho davvero odiato il mio lavoro. Perché in quei due mesi in cui la malattia se la stava portando via, io ho dovuto fare ben due tour negli Stati Uniti e passavo tutto il tempo a pregare – non Dio, perché Dio non esiste, se Dio esistesse non avrebbe fatto venire un tumore né a lei allora né poi a me – che non le succedesse niente mentre ero via, che al mio ritorno lei fosse ancora viva. Ecco, in quella fase ho odiato il mio lavoro, sì. Ma al tempo stesso mi sono aggrappata ad esso. Dopo che Penelope è morta, sono andata in terapia e ci sono ancora: pensa, quello che non sono riusciti a fare i miei ex è riuscito a farlo il mio cane…», e qui un sorriso, un sorriso ironico e pure un po’ sarcastico. Per poi però riprendere: «Penelope è morta accanto a me. La sera stessa, avevo una data a Beirut. È stata una data bellissima, quattro ore, mi ha salvato. Ma appena finito di suonare, ho pianto senza freni. Un fiume di lacrime».

Si parlava di terapia. L’argomento, riemerge più in là, quando si parla di rapporti umani, situazioni personali. “La mia psicologa dice che non ha mai visto nessuno darsi così tante colpe e così tante responsabilità come me. Ad esempio nelle relazioni. Penso sempre che in realtà è colpa mia, che sono io che non ho colto dei segnali, che era responsabilità mia farlo… Anche perché, sai cosa? Io di mio sarei terribilmente abitudinaria. Non vorrei cambiare mai. E probabilmente nemmeno voglio cambiare me stessa, anche se so che su alcune cose potrei e probabilmente dovrei farlo. Ma il cambiamento mi terrorizza. Una volta un mio vicino di casa, che fa il parrucchiere, mi ha sistemato i capelli e nel farlo ha schiarito un po’ sul davanti un piccolo ciuffettino, ma parliamo tipo di uno o due centimetri di capelli: bene, la cosa mi ha fatto andare via di testa! Ma tipo che ho pianto. Per due centimetri di capelli. Ho pianto. Che scema». Hai pianto ma, conoscendoti, subito dopo avrai pensato di ucciderlo, il parrucchiere. «Ovvio!».

C’è un’altra cosa che fa andare via di testa la De Luca, oltre ai cambiamenti di capelli non richiesti. Ed è molto, molto, molto più seria. «Fammi lanciare un appello». Prego, vai pure, non farti remore Deborah. «Il mondo del clubbing e della techno è diventato una gara a chi chiede più soldi. Ma sai cosa? La verità, e lo dimostrano i numeri, è che l’80% delle richieste di cachet sono ingiustificate, eccessive, fuori scala e fuori dal buon senso. È diventato figo chiedere il doppio degli altri, e il doppio di quello che chiedevi l’anno prima. Perché? È davvero così figo, farlo? Quanto è figo, allora, se a fine serata il promoter invece di guadagnarci c’ha perso dei soldi? Quello non ti interessa, vero? E invece dovrebbe. Oggi molti si stupiscono perché per la quantità di gente che di solito mi viene a vedere il mio cachet è piuttosto basso, almeno rispetto alle cifre che girano sul mercato. La verità è che io sono contentissima così. Sono contentissima di quello che già ricevo, mi sembra già tantissimo. Te lo dicevo prima, no? Ad ogni serata, ad ogni bonifico che mi arriva, io ancora oggi resto meravigliata. Quando suono io il promoter fa tanti soldi? Bene, sono contenta per lui! E sono contenta anche per me, perché probabilmente mi richiamerà, o chiamerà altre persone per fare altre serate riuscite bene che faranno stare bene le persone: io di mio non posso che essere soddisfatta, perché ehi, diciamolo!, i soldi che mi danno saranno magari meno di altri miei colleghi di pari grado, ok, ma sono comunque tanti, sono bei soldi, non nascondiamocelo, a Napoli si direbbe ‘Una rapina senza pistola’. Che bisogno c’è di fare questa continua corsa al rialzo così popolare fra i miei colleghi, come non fosse abbastanza quello che riceviamo? Qual è la reale motivazione per farlo? Non sarebbe forse il caso di darsi una calmata? Perché qui si sta dimenticando che se a fine serata l’organizzatore non guadagna, qui crolla tutto. Però è vero che c’è una cosa che mi dà molto fastidio, e che ogni tanto mi dà la tentazione di mettermi pure io a fare le gare a farmi strapagare: tipo quando vado in un locale del Sud Italia, senza star qui a fare nomi, e mi dicono ‘Che serata, grande, è il record assoluto ogni epoca, c’erano quasi 7000 persone qui dentro, pazzesco. E meno male, eh, perché con tutti i soldi che ho guadagnato stasera riesco a coprire un po’ i buchi della serata precedente…’. Ecco: sentire questo mi dà fastidio».

Alla fin fine, oggi, Deborah, sei contenta? Sei contenta che questa cosa di New York su “Hard Pop” sia andata a buona fine, senza particolari intoppi? La risposta è preceduta da un’altra lunga pausa. «No, non riesco a godermi tutto questo. Perché tutta questa cosa mi ha troppo stressata. Ma sono sorpresa ogni singolo giorno per tutto quello che mi accade. Anche quando è saltato fuori il discorso della mia malattia, del tumore che ho dovuto curare: è stata incredibile l’ondata di affetto e di attenzione che mi ha circondato, e anche da chi mai me lo sarei aspettato, tipo da quotidiani come Corriere, Repubblica, per cui ero convinta di essere assolutamente irrilevante. Io sono una che ancora adesso, se vedo che qualcuno mi fissa, pensa che lo stia facendo solo perché ho dimenticato magari la cerniera dei pantaloni aperta. Magari non mi godo le cose, ma mi sorprendo sempre per tutto quello che mi accade. Quando mi hanno detto che Times Square aveva accettato, e che sarei stata l’unica italiana ad esibirmi lì oltre ai Måneskin, io sono rimasta per un bel po’ incredula, continuavo a chiedermi come fosse possibile, anche se io per prima mi ero immaginato di fare quella cosa lì, e l’ho fortemente voluta. Pure quando ho scoperto di essere ammalata, di dovermi curare: non ho iniziato a sentirmi incazzata con la vita, con il destino. No. Perché penso che già ora il destino e la vita mi abbiano dato tantissimo, forse troppo, a partire dal fatto del nascere in un Paese bellissimo come l’Italia. Che mi capitassero delle prove brutte da superare, era probabilmente inevitabile. Perché di fortuna ne sto già avendo abbastanza». 

Fotografo:
Thom Rever
Location:
Hbtoo Napoli