Nel nome della madre

Non avevo mai visto la madre di Guè e non mi ero mai neanche particolarmente preoccupata del ruolo che ha avuto all’interno della carriera e della formazione di Cosimo Fini, che in fin dei conti non ci ha mai parlato della sua influenza o del suo supporto. Eppure, quando ha presenziato come ospite al talk in Triennale in occasione del lancio del numero zero del magazine cartaceo di Outpump, Guè ha voluto proprio lei, sua madre. Lo ha accompagnato, seguito dietro le quinte e poi si è seduta in prima fila davanti al palco, applaudendo quel figlio che soltanto lei oggi vede come tale.

Io che spesso mi trovo ad essere più affascinata dall’artista che dalla musica, mi sono chiesta allora come mai non avessi percepito questa vicinanza in quasi 20 anni di testi pubblicati, e mi sono quindi risposta che quello, probabilmente, è un legame talmente scontato, talmente intrinseco e presente, che non ha avuto neanche bisogno di essere spiegato, sottolineato. Ma non sempre è così.

D’altronde il rap è un genere particolare per parlare di madri. I rapper sono generalmente figure ribelli, arrabbiate, con un innato bisogno di avere qualcosa da dire, ma soprattutto libere da ogni tipo di legame, attaccamento, banalmente senza niente da perdere. In psicologia si dice che quello dell’attaccamento sia un bisogno primario, nei primi anni di vita abbiamo la necessità di avere un rapporto di scambio con un’altra persona, che finisce spesso, inevitabilmente, per essere la madre. Una figura che sia sostanza e non apparenza, che sappia come affrontare il mondo non tanto nella maniera più giusta, bensì in quella più adeguata.

L’attaccamento, nel rap, lo si trova evidente nei confronti del quartiere: colui che ti cresce, che ti mette alla prova, che non ti tradisce. Si tratta di quel racconto che ci permette di trovare un punto di contatto con l’artista, ci fa immedesimare, lo sentiamo familiare; ma il quartiere viene inevitabilmente secondo nella scala delle cose – o persone – che ci insegnano a vivere, prima c’è la figura con cui si è sviluppato quell’attaccamento singolare, unico. Spesso, appunto, la madre. È proprio grazie a quest’ultima che guardiamo il mondo con certi occhi piuttosto che altri, secondo le teorie di Bowlby è infatti in base al tipo di attaccamento instaurato con la figura di riferimento che i figli imparano a relazionarsi con il mondo esterno. E per quanto alle volte possano sembrarci più nobili gli insegnamenti che ci siamo andati a prendere da soli, prima o poi a casa si torna sempre.

In Italia, al rap ci è voluto del tempo prima di rendersi conto che la madre era la figura da portare sul piedistallo, forse perché all’inizio c’era meno aspettativa di fare successo e promettere una villa alla mamma prima del tempo diventava inverosimile e, in alcuni casi, frustrante. Nonostante il mito della madre italiana, sacra e apprensiva, quindi, l’indole era quella di scappare, coscienti del dispiacere ma convinti di essere dalla parte giusta della storia. Gli incompresi, sempre e comunque. 

Di fatto, il secondo decennio del rap italiano lo si può descrivere proprio con le parole di Guè: “in Italia c’è questa cosa dell’onorare il padre e la madre, ma io onoro chi mi pare”. Le uniche volte in cui si parlava della propria madre lo si faceva per sfogo – vedi alla voce Fabri Fibra, il cui rapporto conflittuale con la madre ha accompagnato tutta la sua carriera – o come esempio di cosa non diventare, in quanto i genitori finivano per essere il primo contatto con quel mondo tutto uguale e prescritto da cui l’artista voleva soltanto scappare, per non diventare un another brick in the wall. Un tipo di rapporto che Marracash ha raccontato con una fredda e minuziosa precisione. “Mia madre diceva che più leggevo più ero scemo / taglia i legami, uccidi i tuoi cari e riprendili solo quando da solo te la cavi”.

Con la nuova scena, però, tutto è cambiato. La vera differenza tra allora e la contemporaneità la si trova nell’approccio: prima era necessario scappare per trovare la propria strada, la madre era colei che aveva il compito di colmare un vuoto, sistemare una situazione, mettere in guardia, “E yo mamma, dovevi dirmi che ‘sta vita è un dramma” rappava Coez in “Da Vicino” nel 2012. Una prospettiva che con Sfera Ebbasta e Ghali si è totalmente ribaltata: la responsabilità ha cambiato il proprio ruolo, passando dalla madre al figlio. E sarà un caso che solo nel 2017 lo stesso Coez abbia deciso di pubblicare la dedica alla madre, “E yo mamma”, scritta nel 2013?

La nuova scuola non chiede niente perché le madri hanno dato già tutto; vuole piuttosto dare indietro, ed è qui che a critiche e mancanze si sostituiscono dediche e promesse. Nel 2016 Ghali mette sua madre sulla copertina di uno dei singoli che non a caso otterrà il maggior successo, “Ninna Nanna”, dopo aver già intitolato in tempi non sospetti un brano alla donna che lo ha cresciuto da sola, “Mamma”. Parallelamente Sfera iniziava la sua carriera ringraziando la madre già in “Emergenza Mixtape Vol. 1” – “Baciare mamma e ringraziarla per i sacrifici / Vivere una vita diversa, lontana da questa” – e da allora non ne avrebbe più fatto a meno: nel suo primo disco la nomina in 6 tracce su 15. Una piccola parte del perché di tanto affetto l’ho appresa durante l’evento di lancio del suo disco “Italiano”: in mezzo a una folla dispersa di persone che aspettavano il momento saliente, lei ballava lenta e sciolta ad occhi chiusi sulle note dei brani del figlio, sola di fronte alla console, come se fosse quasi abituale. Sul suo viso, che non mostrava alcun accenno di fastidio o turbamento da quanto accadeva intorno, si leggeva la soddisfazione di una madre che ha avuto la fortuna di percorrere il viaggio per mano al figlio dall’inizio alla fine.

La madre diventa quindi motivo di vanto, il raggiungimento di un traguardo: se le compri casa significa che ce l’hai fatta; ma è anche ciò che non cambia mai, che in un periodo in cui la fama colpisce celere permette di rimanere con i piedi per terra, è quella che – di solito – va oltre gli sbagli e che nel momento in cui tutti giudicano, ascolta e comprende. La dinamica ora non è più quella di scappare dalle mura di casa, la famiglia che dubita dei successi con il rap ce la siamo lasciata alle spalle, le madri hanno capito che se i figli tentano questa strada non è perché sono sconclusionati, ma perché vogliono qualcosa di più e sanno che esistono strade alternative al lavoro ordinario. Una dinamica, questa, che in America era già stata capita da anni, ma le motivazioni alla base erano totalmente diverse. Se in Italia oggi si appoggiano i figli per evitare loro una vita da impiegato sottopagato, in America venti anni prima le madri volevano solo tenere lontani i propri figli dagli affari della droga. 

“Shawn era solito stare in cucina a battere il tempo sul tavolo e rappare fino alle prime luci dell’alba. Poi gli ho comprato un boombox. Le sue sorelle e fratelli dissero che li avrebbe fatti impazzire, ma quello era il mio modo per tenerlo vicino a me e fuori dai guai”, recita la madre di Jay-Z in “December 4th”, 2003.

Se c’è qualcosa che unisce rapper come Sfera Ebbasta e Ghali ad artisti come Jay-Z e Kanye West è proprio l’appoggio da parte di una madre – amica, sorella – che li ha cresciuti da sola: “Mama loved me, pop left me” è una storia comune a una buona fetta di rapper, italiani e non. 

Su Gloria Carter e Donda West, rispettive madri di Jay-Z e Kanye West, si potrebbe aprire un capitolo infinito. Entrambe sono state accanto ai figli sempre e comunque, dando loro i mezzi – non solo pratici – per arrivare dove sono adesso. In cambio hanno ricevuto un’infinita quantità di dediche all’interno dei brani, banalmente perché “non hai mai messo nessun uomo sopra di me”, rappa Kanye in “Hey Mama”. E insieme a loro Kendrick Lamar, “Mia mamma ha creduto in me, mi ha lasciato usare il suo furgone per andare in studio / Anche se sapeva che il suo serbatoio era vuoto, ecco per chi lo faccio”, quello stesso furgone messo in copertina dell’edizione deluxe di “Good Kid, M.A.A.D City”. E poi Nas, Biggie e Tupac.

“Sei sempre stata una regina nera, mamma, finalmente capisco / per una donna non è facile provare a crescere un uomo / Ti sei sempre impegnata, una povera madre single che dipendeva dalle sovvenzioni dello Stato, dimmi come hai fatto / Non c’è modo in cui posso ripagarti, ma il piano è mostrarti che ho capito: ti apprezzo”, recita Tupac in “Dear Mama”, ed era proprio lui nel 1995 a proporre un tassello fondamentale da inserire nel castello di motivazioni che tengono gli artisti legati alle madri: lo stupore e il rispetto verso la donna che cresce l’uomo, concetto ripreso anche da una delle tante “letter 2 my momma” che si trovano su Spotify, in questo caso quella di 21 Savage, che dice “È un lavoro duro, ma le donne crescono anche gli uomini / Ma’, non mi hai mai abbandonato e ti ringrazio”.

Fa sorridere pensare che 21 abbia smesso di comprare collane e gioielli perché sua madre gli ha detto che non è così che si spendono i soldi; o che Jay-Z abbia chiesto pubblicamente scusa a Nas dopo aver pubblicato “Supa Ugly”, brano in cui lo dissava, perché sua madre lo aveva chiamato al telefono e gli aveva detto che ci era andato giù troppo pesante.

Se la scena internazionale è passata dalle più grandi lettere d’amore – “Dear Mama”, “Hey Mama”, “Blueprint (Momma Loves Me)” – a una nuova generazione che al massimo fa qualche accenno, in Italia si è vista negli ultimi anni una totale esplosione d’amore e riconoscenza nei confronti della propria madre, adagiatasi poi in una progressiva normalizzazione che tocca ora gli artisti più giovani. Rasty Kilo ha chiamato il suo ultimo disco con il nome di sua madre, “Cinzia”, Lazza e Geolier hanno fatto salire la propria madre sul palco durante il loro concerto e Madame ha sempre messo davanti agli occhi del mondo l’intero ventaglio di sentimenti che una figlia tipicamente prova per colei che l’ha cresciuta. Iniziare il proprio brano all’interno di un producer album come quello di Night Skinny con “Ciao mamma Nadia” è sinonimo di una posizione chiara e precisa che si vuole prendere: canto nel disco di uno dei producer più forti della scena, al fianco delle migliori penne d’Italia, e inizio il pezzo salutando mia madre.

Torna il vanto, torna l’attaccamento. La madre è ora complice, è la prova del dolore vissuto insieme, colei che custodisce gli anni di vita più difficili – “Ricordi quando stavamo quattro in un bilocale?”, domanda Paky.

La verità è che spesso, gli artisti, vedono persone andarsene, arrendersi, loro stessi vogliono essere la dimostrazione che nella vita si può ottenere ciò che si vuole e arriva così il momento in cui riconoscono che la propria madre è come loro. È l’unica che è rimasta, l’unica che non si è arresa e l’unica che è riuscita a fare ciò che ogni madre vuole: vedere i sogni del figlio realizzarsi. Ed è così che, non sempre, ma spesso, la madre diventa una base sicura – “Tutto cambia, nulla resta uguale / Tranne l’amore di tua madre”, rappa Sfera – ed è quando questo accade che diventa difficile lasciarla andare per seguire la propria strada. Un po’ come Novecento nell’omonimo libro di Baricco: vogliono tutti scendere dalla nave, lasciare la base per esplorare il mondo e poi tornare, ma c’è chi torna e chi rimane. Nel rap, molti scelgono di rimanere. E se è vero che, come dice Jay-Z, nove volte su dieci gli artisti mentono quando raccontano la propria storia, sono sicura che quell’unica volta su dieci sarà il momento in cui parleranno della propria madre. Smile.

Illustrazioni
Yobi Scribes