Se è vero che, parafrasando il famoso detto, non bisognerebbe giudicare un disco dalla copertina, quella del primo joint album di Coez e Frah Quintale rivela già parecchi indizi sul suo contenuto. È firmata da Bufer, writer milanese già noto per la sua collaborazione con Propaganda, per cui dirige l’ufficio stile.
«Il writing è da sempre nel nostro background» dice Frah; d’altra parte non ne ha mai fatto mistero fin dai tempi di Nei treni la notte (brano molto caro anche a Coez, che ha voluto rifarlo con lui in From the Rooftop 2). «Volevamo che il concept rendesse l’idea di qualcosa di molto confidenziale e amichevole, come il lavoro che abbiamo fatto in studio, in cui ci siamo aperti completamente con grande fiducia reciproca. Un’immagine di noi due bellocci e griffati non avrebbe reso giustizia allo spirito dell’album, così abbiamo puntato a rappresentare un gesto di vera brotherhood. Quando un fratello ti taglia i capelli, ti affidi completamente a lui, la tua immagine è nelle sue mani. Anche l’ambientazione è molto tranquilla: lo specchio finto-ottocentesco che si vede nel disegno è quello di casa mia».
In effetti Lovebars è un progetto in cui la genuinità prevale su qualunque altra considerazione: in ogni strofa e in ogni scelta di beat si percepisce che i due protagonisti sono legati da un vero rapporto di amicizia, nato ben prima dei rispettivi successi. Coez e Frah si sono conosciuti quasi dieci anni fa, quando il primo era da poco diventato un artista solista e sperimentava ibridi tra rap e melodia con l’album Non erano fiori, mentre il secondo muoveva i suoi primi passi con il precedente duo, i Fratelli Quintale. «Ai tempi ero adottivo di Brescia, la città di Frah» ricorda Coez. «Lavoravo con un ragazzo bresciano, Tommaso Fobetti, co-fondatore di Undamento. Lui aveva appena iniziato a seguire anche i Fratelli Quintale, e spesso ci si trovava tutti insieme in studio o in giro». Oltre ai trascorsi, i due condividono anche una buona fetta di fan base, complice il fatto che stilisticamente hanno parecchio in comune. A livello umano sono molto diversi, ci tengono a specificare, ma musicalmente il loro percorso è simile: «Siamo partiti dal rap per sviluppare qualcosa di nuovo» osserva Coez. «Nel mio caso le influenze arrivano più dal cantautorato italiano, mentre per Frah l’ispirazione è l’R&B e la musica black». Ma il vero amore che entrambi condividono, ovviamente, è quello per l’hip hop, la base di partenza per entrambi, che rivendicano con orgoglio: «tutti e due siamo stati collocati per anni nel calderone dell’indie, e tutti e due ne abbiamo sofferto, perché veniamo da tutt’altro contesto. Siamo fieri di esserci fatti le ossa nel rap», aggiunge Frah.
Lovebars, in effetti, fin dal titolo ha una fortissima componente hip hop nel suo DNA: i brani in cui il rap prevale sulla melodia sono diversi, e l’impressione è che si siano divertiti parecchio a realizzarli. Il legame che hanno con il proprio pubblico è intenso al punto da non scomparire mai, anche in fase creativa. «Ovviamente, quando si tratta di inserire del rap duro e puro nei nostri lavori, ci poniamo il dubbio di come la prenderanno i fan», confessa Coez, «ma alla fine ce lo mettiamo sempre, anche a costo di pigliarci batoste: in ogni disco c’è sempre un pezzo che fa molti meno streaming perché è meno melodico». Episodi più classicamente hip hop, come la traccia Local Heroes, prodotta da Bassi Maestro, in effetti allargano la platea anziché restringerla. «Ne vado mega orgoglioso: è un gran pezzo e rappresenta un momento di stacco. Fa percepire un sacco di cose su di noi e sull’album», aggiunge Frah.
Quando Frah e Coez hanno cominciato a traghettare le loro barre nel mondo della melodia, per l’hip hop era un’epoca totalmente diversa: praticamente non esistevano esempi analoghi e di successo, né qui né all’estero. Non era ancora arrivato nessun Anderson .Paak a rendere cool la categoria “rapper che sa anche cantare”, per intenderci. Per una volta, si può dire che grazie a loro l’Italia abbia anticipato un trend. «Siamo sempre un passo avanti, su un altro fuso orario!», scherza Coez. «Ma in un genere come il rap, perché una tendenza sia davvero riconosciuta come valida, deve arrivare dall’America. Prendi l’ultimo album di Lil Yachty, Let’s Start Here: se fosse stato un italiano a fare un disco rap con sonorità psichedeliche anni ‘70, l’avrebbero preso per scemo. Se cerchi di innovare partendo da qui, senza imitare ciò che già esiste oltreoceano, all’inizio ti considerano un coglione e basta. Il fatto che gli USA abbiano già sdoganato un certo sound, invece, fa sì che nessuno abbia niente da ridire». Agli inizi delle loro carriere, in effetti, entrambi hanno fatto fatica a farsi comprendere perfino dalla stampa musicale, una categoria che dovrebbe essere la prima a riconoscere il talento quando lo incontra, e invece nel loro caso ci ha messo anni ad ammettere che si trovava di fronte a qualcosa di notevole. «La musica che amavamo e facevamo è sempre stata bella musica: è stato questo che l’ha fatta emergere, non i trend o le mode» osserva Frah. «Forse il nostro merito è stato quello di sdoganare un certo linguaggio e un certo modo di scrivere canzoni, rendendolo più universale, ma non siamo i soli: tanti altri hanno fatto la stessa cosa nei loro ambiti».
Ai loro esordi nessuno dei due credeva fino in fondo che quelle canzoni avrebbero avuto un impatto del genere, come spiegano bene in Era già scritto, la traccia che apre il disco. «Era già scritto, sì, ma non proprio» ride Frah. «Il pensiero ricorrente era: “figurati se riuscirò mai a campare di musica!”. Nel 2004, quando ho iniziato io a fare rap, non c’era ancora granché, ed è stato un bene: mi ha tolto tutta la brama e la smania di arrivare, restava solo la passione». Ricorda ancora il giorno in cui ha capito di essere disposto a rischiare il tutto per tutto. «È stato un momento un po’ alla Sliding Doors: mi avevano chiesto di trasferirmi a Barcellona per un lavoro, ma mi sono detto: “sai che c’è? I Fratelli Quintale secondo me possono arrivare da qualche parte, è meglio se resto in Italia”. E ho fatto bene». Per Coez il percorso è stato ancora più lungo, racconta, e parte dai Brokenspeakers, il suo primo collettivo. «Ai tempi non credevo che questa sarebbe stata la mia professione. Dopo il primo disco da solista ho cominciato a crederci un pochino di più, anche se ovviamente non sognavo in grande: non pensavo che sarei diventato ricco con le mie canzoni, speravo solo di arrivare a qualche soddisfazione. Io i primi soldi veri li ho visti solo al quarto disco: una gavetta lunghissima, senza senso. Ma sono contento di non aver dovuto pensare alla carriera fin dagli esordi, è stato meglio così».
Per uno strano scherzo del destino, Lovebars è uno dei numerosi joint album che usciranno quest’anno in Italia: tra dischi già annunciati e in via di pubblicazione, ce ne sono almeno una mezza dozzina in cantiere. «Lo abbiamo scoperto anche noi mentre eravamo già al lavoro: magari saltava fuori qualcuno che ci diceva “oh, ma sai che anche tizio e caio stanno facendo un joint album? E anche quegli altri due!”» racconta Frah. «Credo dipenda dall’evoluzione della situazione italiana, a livello di scena e di business: siamo arrivati a un punto in cui ha senso rallentare e prendersi il proprio tempo per lavorare con gli amici, confrontarsi, togliersi qualche sfizio. Non è una cosa forzata, è una specie di giro di boa, un bilancio». Coez è assolutamente d’accordo: «Per carità, fare musica è sempre figo e ringrazio tutti i giorni per il lavoro che faccio, ma arriva sempre il momento in cui un po’ ti annoi. Prima di Lovebars ero al lavoro su un album solista, ma oggi, riascoltando a posteriori le cose che avevo già registrato, capisco che ho fatto la cosa giusta a cambiare direzione. Entrare in studio con un’altra persona mette in circolo delle energie che magari da solo non riusciresti a tirare fuori. Lavorare con Frah è stato davvero un grande stimolo». L’immagine simbolo di questo periodo trascorso a fare musica insieme è cristallizzata in una mattina di aprile: «eravamo a Roma e avevamo un beat di Golden Years, ma non avevamo voglia di chiuderci in un bunker, così abbiamo preso una cassa bluetooth e siamo andati a Villa PamphilI, che era deserta, perché erano tutti a scuola o al lavoro: era una bellissima giornata di primavera, di quelle che non fa né troppo caldo né troppo freddo e te ne stai in maglietta sotto il sole. Ci siamo piazzati sul prato, noi due soli, e ci siamo messi a scrivere. Lovebars è uscita così. È stato un momento magico, che ci porteremo dentro per sempre. Anche per quello abbiamo deciso di sceglierla come title track».
All’album seguirà un tour nei palazzetti già fitto di date: per Coez è un gradito ritorno (è stato tra i primi rapper italiani a riempire il Palalottomatica nell’ormai lontano 2018), per Frah una prima volta. Oltre a prepararsi con il più classico dei Ramadan pre-tour («Non beviamo e non fumiamo!», parole di Frah), sono già al lavoro sull’allestimento dello show. «Sicuramente non entreremo in competizione con produzioni più faraoniche: non ci interessano lanciafiamme o i palcoscenici sospesi a mezz’aria» spiega Coez. «La cosa più difficile sarà fare la scaletta, perché entrambi abbiamo parecchi pezzi solisti che la gente si aspetta di sentire, e ci sono due teste da mettere d’accordo…» ride. Negli ultimi mesi si è molto parlato di come dovrebbe essere un vero live rap, o di come non dovrebbe essere. Il playback è ammissibile? Band o DJ? Scenografie da mille e una notte o set-up minimale? Vince l’hype o il farsi il culo sul palco?. «Sulla questione del playback nei live mi viene un po’ da dire che è come la storia di Wanna Marchi: se c’è un pubblico che abbocca, è normale che la gente lo usi» ironizza Frah. «In generale c’è una forte componente psicologica: certi personaggi li vai a vedere perché è un evento irripetibile e non perché siano fortissimi dal vivo» aggiunge Coez. «Anche perché spesso la loro musica non si presta bene a un contesto live. C’è anche una certa onestà nel non volere a tutti i costi rielaborare un sound che non funzionerebbe se suonato con una band. Certo, da lì a scegliere di non cantare o rappare proprio ce ne passa… Diciamo che in generale noi preferiamo improntare i nostri concerti sul suono e non sull’immagine».
E a proposito di eventi irripetibili, la domanda non può che sorgere spontanea: Lovebars è un episodio a sé o possiamo sperare che il sodalizio tra Coez e Frah Quintale diventi come quello di Method Man e Redman, che ciclicamente si ritrovano a lavorare insieme? «Ce l’hanno già chiesto, non ci abbiamo ancora pensato» dice Coez. «Ma c’è tempo. Fino a qualche mese fa io e Frah non avevamo mai fatto un pezzo inedito insieme prima d’ora, come solisti: il primo è stato proprio Alta marea. Ormai siamo una coppia consolidata, prima o poi sicuramente qualcos’altro uscirà. Magari non un disco intero, ma mai dire mai».