C’era una volta, una nobile famiglia catalana, gli avvocati appartenenti ai più grandi studi legali della Spagna, un’amicizia di lunga data, una dea greca e persino un segretario di Stato. I protagonisti e le componenti di questa storia potrebbero far pensare al prologo di una serie di Netflix, ma in realtà sono fatti e attori principali di una querelle giudiziaria durata quasi due decenni in cui Nike ha ottenuto il diritto di poter usare il suo nome in tutto il territorio spagnolo.
Ma facciamo un passo indietro, ripartendo dall’inizio. Siamo in Spagna, anno 1979. La democrazia si era appena affermata nel Paese che risultava ancora restio ai cambiamenti e relativamente chiuso commercialmente rispetto al resto del panorama mondiale. Leader nazionale delle vendite di calzature sportive era Paredes, marchio autoctono, il primo a progettare e produrre sneakers in Spagna e che fino agli anni ’80 detenne il monopolio del settore.
Nike era allora una giovane azienda che aveva appena iniziato la sua conquista globale. Per potersi inserire e permettersi di affrontare il mercato spagnolo la società americana decise di allearsi con la Comercial Iberica de Exclusivas Deportivas SA (“Cidesport”), una società controllata dalla famiglia Bertrand, storica dinastia della borghesia catalana legata all’industria dell’abbigliamento fin dal XIX secolo.
In realtà Nike non aveva alternative: un’altra società con sede in Sabadell, località che si trova vicino a Barcellona (più importante distretto tessile della Spagna) appartenente alla famiglia Rossell aveva già registrato il marchio Niké, in onore della dea greca, nel 1932, circa quarant’anni prima della fondazione della Nike di Phil Knight. La registrazione includeva però solo il suo utilizzo per articoli tessili. Il numero del marchio era l’88.222 e consisteva in una tipologia mista composta dalla scritta NIKE insieme a una rappresentazione della Vittoria alata di Samotracia, quella conservata al museo Louvre di Parigi. Il marchio però sembrerebbe fosse rimasto inutilizzato per anni e fu solo nel 1981 che la società Cidesport ne ottenne l’utilizzo temporaneo tramite acquisizione surrettizia.
La situazione era questa: Cidesport, attraverso terze parti, produceva e commerciava abbigliamento recanti il logo Nike rilasciato su licenza. Ciò non era valido però per le calzature che, al contrario, dovevano essere importate dagli Stati Uniti. Le sneakers venivano dunque vendute in Spagna con una doppia etichetta: quella che descriveva la produzione, Nike, e quella che dettagliava la distribuzione, Cidesport. Un particolare che rende queste release dei cimeli: preziose agli occhi dei collezionisti. Dall’altro lato c’era Nike, autorizzata a vendere abbigliamento esclusivamente mediante il simbolo dello Swoosh con il vincolo che vietava di inserire al contempo la dicitura Nike. Per diversi anni, Nike fornì calzature a Cidesport nell’ambito di questo accordo di distribuzione.
Alla fine dei primi cinque anni pattuiti, le due società, in virtù di un business che in quel momento funzionava, decisero di rinnovare il contratto. Nel 1989, sei mesi dopo la scadenza successiva e con un fatturato che raggiungeva i cinque miliardi di pesetas, Nike promise di riconfermare l’intesa.
In occasione dei giochi olimpici di Barcellona però, a soli due mesi dalla firma per il rinnovo dell’accordo, il gruppo si tirò improvvisamente indietro, decidendo di interrompere il rapporto con il partner spagnolo. Quando Nike decise questa separazione, aveva già stabilito la sua filiale in Spagna. Si trattava di una consociata interamente controllata, l’American Nike SA (che continua ad operare oggi), per la cui costituzione ha firmato César Galcerán, cugino dei fratelli Bertrand. Nike decise così di sostituire Cidesport. Tuttavia quando furono iniziati i preparativi per condurre la propria attività attraverso la compagnia americana, Cidesport minacciò di avviare una causa nei tribunali spagnoli se la controparte si fosse rifiutata di continuare a fornire calzature e ad estendere l’accordo di distribuzione.
Nike iniziò la battaglia per registrare il proprio nome, dando origine a un casus belli che durò 18 anni e coprì tutte le giurisdizioni. Ai lati del ring, gli studi legali più prestigiosi del Paese: Gómez-Acebo&Pombo, in rappresentanza di Nike, e Garrigues per Cidesport. Al centro la Corte costituzionale spagnola. All’inizio il caso rimase pendente per oltre tre anni, un’attesa insolitamente lunga, in parte dovuta alla grave malattia e alla successiva morte del giudice assegnato alla causa.
Nella controversia intervenne anche l’ambasciatore americano che nel 1992 cercò di convincere le due parti a raggiungere un accordo. Il motivo sembrerebbe fosse stato più che diplomatico: la madre dell’ambasciatore, infatti, era amica della Signora Bertrand fin dal lontano 1920, quando si conobbero per la prima volta in un viaggio di affari. Ne nacque un prosieguo di sentenze, giudizi e citazioni protratti sino al 2005, anno in cui la Corte Suprema, nella sua sezione civile, si pronunciò a favore di Nike, che da quel momento in poi avrebbe potuto usare il suo nome e il suo logo su tutti i tipi di articoli.
Tre anni dopo, e posteriormente a una nuova tornata di ricorsi, Nike e Cidesport siglarono finalmente la pace con un accordo stragiudiziale che non prevedeva alcun tipo di risarcimento economico per nessuno dei contendenti. L’impatto del processo fu tale che è stato persino analizzato come un caso alla Harvard Law School.
La disputa fu talmente risonante che sembra che nel merito della lite sia addirittura intervenuto il segretario di stato degli Stati Uniti, Madeleine Albright, che nel 2000, approfittando di una visita in territorio spagnolo, colse l’occasione per chiedere al governo del Partito Popolare di risolvere “la questione Nike”. Una battaglia avvincente, ricca di colpi di scena, ma con un lieto fine, che ci porta obbligatoriamente a concludere questo racconto utilizzando la magica formula contenente gli aggettivi più ottimistici del vocabolario: e vissero per sempre, felici e contenti.