Di artisti che scrivono, e scrivono bene, con riferimenti culturali e aulici, sofisticati, ce ne sono. Così come ci sono artisti che sono capaci di raccontare la strada con un linguaggio diretto, sfacciato e scontroso. Yugi, però, riesce a unire le due cose come nessuno ha mai fatto.
All’interno del disco, della durata di 41 minuti per 14 brani, non c’è un attimo di respiro: Yugi passa continuamente dal tirar fuori riferimenti su cui necessiti di soffermarti, al prenderti a pugni con una barra su quanto sia vivo il giro di droga, oppure di quanto la sua vita sia a volte dolorosa. E lo fa nel giro di secondi.
Il risultato è l’estraniazione, almeno per un attimo. Ascoltare il disco è una montagna russa tra le forti emozioni di Kid Yugi, quelle stesse emozioni che riesce a farci provare: il maligno che lui sente dentro lo sentiamo anche noi nell’anima. E allo stesso tempo riesce a farci sentire fragili, con il puro e umano bisogno di avere qualcuno accanto, di volerci rifugiare nell’amore per ripulirci dal male. La sua voce sembra spaccare le casse, lo schermo, le cuffie.
All’età di soli 23 anni, Yugi incarna nella sua persona tutta una serie di aspetti propri della figura del rapper, ma se di solito siamo abituati a vederli separati, perché ogni artista ha le sue peculiarità e il suo mondo – artistico e non – di provenienza, in Kid Yugi facciamo fatica a scinderle per collocare la sua musica in precisi ambienti.
Yugi è colui che riesce a unire l’ascoltatore del rap estremamente crudo a colui che invece preferisce artisti dal registro elevato, che si staccano dalla strada. È difficile definire le origini di tutto questo, ma probabilmente è solo figlio di una nuova società, di ragazzi che vivono in contesti “di mezzo”, che se un giorno toccano il fondo non significa che il giorno dopo non possano aprirsi un libro di Hegel.