Non solo Bob Dylan: gli smartphone uccidono l’emozione?

Che Bob Dylan non fosse un mostro di simpatia, beh, si sapeva. Poi chiaro: resta uno dei cantautori più importanti del ventesimo secolo. Ci mancherebbe. Le chiacchiere su questo stanno a zero. Ovviamente però è entrato anche lui nella categoria di quelli che portano in giro la propria gloria e lo fanno a caro prezzo, dettando loro le regole, pur essendo anni che non sfornano nulla di artisticamente rilevante. Fino ad oggi questo si traduceva, nel caso di Dylan, in bizze varie e concerti dai biglietti molto, molto costosi (…ma siamo arrivati a una dinamica tale per cui anche il tizio al primo o secondo album può sparare biglietti dai cinquanta euro in su: malcostume diffuso); con quest’ultimo tour però si è alzato il livello. 

Passi infatti il divieto di uso degli smartphone per riprendere l’esibizione e scattare foto, divieto ormai sempre più diffuso (e ora ci arriviamo). Ma il tocco di sarcasmo massimo arriva rendendo obbligatorio il “servizio” – virgolette d’obbligo – offerto dalla società Yondr: ovvero, all’ingresso ti impacchettano il telefono in una custodia e se per caso vuoi usarlo a metà concerto (le urgenze capitano sempre, no?) devi comunque farti lo sbattimento di andare fino ad un punto di assistenza nella sala gestito da Yondr stessa, perché solo lì c’è la possibilità di “liberare” il proprio smartphone. Costo del servizio, che è obbligatorio, non facoltativo: 5 euro. Che vanno aggiunti al già costosissimo biglietto, su cui a sua volta è caricato anche il 15% di fee delle agenzie di prevendita e poi un ulteriore percentuale di “commissioni di servizio”. Morale? Su un biglietto da 130 euro nominali, già un’enormità di per sé, si finisce col pagare in aggiunta un’altra trentina e passa di euro. Ah, bontà loro: il servizio di consegna del biglietto è gratis. Che scialo. Anche perché oggi la “consegna” è giusto spedirti una mail: almeno quella non te la fanno pagare. Grazie. Raccontiamo tutto questo per tre motivi. Punto numero uno, perché sostanzialmente fa ridere (se non ti importa nulla di vedere Dylan); punto numero due, perché fa incazzare (se invece vorresti andare a vederlo); punto numero tre, perché è l’ennesimo tentativo di speculare su una battaglia che, di suo, sarebbe invece giusta. Buttando così tutto in vacca, e/o in fatturato. 

L’artista che richiede al proprio pubblico concentrazione e raccoglimento, impedendo la distrazione dello smartphone, esercita infatti un proprio diritto e una propria lecita richiesta. Anzi, di più: ti fa addirittura un favore. Sì, perché ti mette nelle condizioni di fruire più intensamente, con più attenzione e – conseguentemente – con più soddisfazione l’evento a cui stai partecipando. La battaglia è giusta. Peccato che qua sia sviluppata nel più avido dei modi, ecco: quindi alla fine si parlerà più dei 5 euro che del diktat anti-smartphone dylaniano in sé e delle motivazioni artistiche che si porta dietro. È una storia vecchia, si diceva. Non è certo Dylan il primo ad aver proibito i telefoni ai propri concerti, alla ricerca della piena concentrazione dell’audience: nel jazz e nella classica sono famosi gli artisti (un nome su tutti: Keith Jarrett, uno dei pianisti jazz più grandi di tutti i tempi) che non sopportavano e non sopportano manco i colpi di tosse, figuriamoci i telefonini in mano e le lucine degli schermi a spezzare il buio in sala. Se c’è qualche elemento di disturbo, si alzano e se ne vanno. Non suonano più. Ma se dai contesti “colti” e seriosi bene o male te lo puoi aspettare, il vero salto in avanti è stato fatto molti anni fa dal club techno più famoso al mondo: il berlinese Berghain. Che sì, ha iniziato a proibire i telefoni in sala, da quando questi si sono fatti smartphone e quindi anche macchine fotografiche. Prima lo ha fatto sequestrandoli all’ingresso (li riprendevi all’uscita), poi iniziando a bollinare l’obiettivo della fotocamera. Il Berghain sarà “colto”, nel senso di versante un po’ più intellettuale della techno, ma non è ovviamente né composto né serioso. Non è un teatro. Tant’è che la proibizione sul riprendere e fotografare non nasce solo dalla voglia di spingere i clubber presenti a godersi al 100% l’atmosfera e la musica senza distrazioni, ma anche e soprattutto per impedire che la consapevolezza di poter essere fotografati – e poi rimbalzati nell’etere e nei social network – seghi completamente il senso di libertà e liberazione. Al Berghain, se ti va, puoi anche ballare nudo, o strafatto, o vestito drag sadomaso, o vestito da guardia svizzera, o quello che vuoi tu: basta che tu non sia ostile e molesto nei confronti degli altri. 

È una bellissima sensazione. Se infatti tu avessi la consapevolezza che, mentre ti liberi delle inibizioni, corri il rischio di venire filmato o fotografato e poi questi filmetti o foto finiscono nelle mani del web, dei tuoi amici o di un fantomatico “BerlinoBellaDaDio”, i casi sono due: o sei proprio un esibizionista estremo, o ti limiti. A Berlino il concetto di libera espressione di sé è qualcosa che si prende(va) molto sul serio, è qualcosa a cui si tiene parecchio, è considerato un valore e addirittura un segno di civiltà (proprio perché si accompagna sempre al non ledere fisicamente o economicamente gli altri). Sarebbe bello accadesse anche nel resto del mondo. E un po’ succede. Ma come sappiamo, sarà sempre e comunque difficile vederlo accadere nella moralistissima Italia: e infatti restiamo convinti che se le riprese dentro il Berghain non fossero proibite, i primi a inondare la rete di gente che balla nuda in pista sarebbero gli italiani, con commenti all’insegna del conservatorismo più rabbioso o del moralismo da “signora mia”. Ci sono però motivi ancora più importanti del non far vedere tette al vento o membri penduli in giro per il web senza il consenso delle interessate o degli interessati, per fare una campagna seria contro la presenza degli smartphone nelle mani delle persone che stanno a un concerto o a una serata in un club. Ed è, come già accennato più sopra, l’intensità dell’esperienza. Sì. 

Qual è il punto? Si è sviluppato questo curioso equivoco per cui si crede che fotografare o filmare un attimo importante, intenso o emozionante aumenti ulteriormente l’importanza, l’intensità e l’emozione, “tramandandola” così all’eternità e/o alla possibilità di farlo vedere agli amici. Beh: falso. Senza girarci tanto attorno: falso. Il problema non è voler immortalare con una foto o con un video fatti al volo un momento di un concerto o di un evento dove si è stati: è una testimonianza, è un souvenir visivo, è un piccolo appunto da mettere nel proprio diario personale. Ci sta, è bello, è spontaneo ed istintivo farlo; e ci sta anche volerlo fare con l’idea poi della condivisione. Proibirlo è un po’ da stronzi, in un mondo ideale. Ma appunto – in un mondo ideale. Cosa succede, in questo mondo ideale? Succede che si prende il telefono solo per un attimo, si scatta, si filma qualche secondo; e poi ci si concentra sulla musica, sul momento, sul carisma e la delivery di chi sta sul palco. Nel mondo non-troppo-ideale in cui invece viviamo, ci sentiamo un po’ tutti creator. Già. Tutti dei cazzo di creator. Tutti convinti che sia giusto stare decine di secondi, anzi, minuti e minuti col telefono per aria a riprendere: questo perché le nostre riprese sono belle, o sono importanti. Perché possono insomma “fare la differenza”. Arricchire l’evento. Per noi stessi, per gli altri. 

…lo diciamo per la terza volta: tutto questo è falso, è una grande bugia che ci siamo costruiti attorno. Per quanto riguarda l’”arricchire noi stessi”, siate onesti: quante volte vi siete messi a riguardare i filmati tremolanti e con l’audio sgranato di un concerto o di una serata al club? Quante volte avete speso le ore a rimirare quelle decine e decine di foto tragicamente mosse e fuori fuoco, sì “vere”, ma così diverse da quelle fatte professionalmente dai fotografi ufficiali sotto il palco? Ve lo diciamo noi, e diteci se sbagliamo: una, due volte. Non di più. Vi sarebbero bastate una o due foto, vi sarebbero bastati pochi secondi di filmato. La soddisfazione che vi resta quando avete raccolto un gruzzolo consistente di materiale audio-video non è quella di fruire ancora di un bel momento di musica e di immagine visuale, che appaghi ancora i sensi a distanza di tempo, ma solo ed unicamente l’essere stati il più possibile “collezionisti” bulimici di un’emozione (in realtà: della sua ombra, di un suo simulacro virtuale ed approssimativo); o, peggio ancora, collezionisti di un frammento di un evento in cui faceva figo esserci e voilà, la foto o il filmato sono le prove che sì, voi c’eravate, prove da esibire sui social. 

Né più né meno del meccanismo che sta dietro al farsi un selfie con una persona famosa: non ti emoziona l’aver incontrato una persona interessante e averci scambiato quattro chiacchiere; no, ti emoziona semmai il fatto di poter sfoggiare qualcuno o qualcosa di famoso nel tuo safari videofotografico esistenziale, a riprova che hai sfiorato l’aura della fama, della celebrità. Lì per lì, anche bello. Ma alla lunga, sinceramente: quante soddisfazioni ti dà? Quanto sono profonde, queste soddisfazioni? Soprattutto: quanto ti cambiano la vita, quanto ti rendono una persona migliore – più felice, più evoluta, più sensibile all’arte ed alla bellezza?

Foto via Vivo Concerti

C’è infine un ultimo fattore da considerare, in questa ricognizione su quanto questo attaccamento allo smartphone nelle sale da concerto o nei club sia dannoso. Brutto citarsi, ma addirittura nove anni fa (ci sono le prove) scrivevamo: “E questi concerti con così tanti smartphone alzati e illuminati rischiano di innescare un processo rovinoso per tutto il sistema musica. Una spettacolarizzazione “soft”, leggera e superficiale: dove chi è presente pretende poco (gli basta filmare cinque minuti, non serve altro!), e di conseguenza chi è sul palco si sentirà autorizzato a dare sempre di meno”. A distanza di nove anni, ci sono sempre più rapper della nuova generazione che fanno fatica dal vivo ad andare a tempo, a tenere le rime dal vivo, a modulare bene la voce; ci sono sempre più cantanti che si fanno sostenere la voce da parti pre-registrate, e live che in generale assomigliano sempre di più ad un grande playback, o ad un pianobar dove si schiaccia un tasto e parte la base pre-registrata; ci sono sempre più esibizioni monche, in cui basta cantare una strofa e un ritornello e poi si tronca il brano, perché alla gente basta così. Si sta tentando di ovviare a tutto ciò – per chi può – con la spettacolarizzazione delle luci e dell’apparato scenico: ed è anche e soprattutto questo a far decollare il prezzo del biglietti. Insomma: il nostro “voler vedere il mondo dalla ripresa di uno smartphone” ci ha reso mentalmente e come sensi molto più pigri, e ha obbligato a una spettacolarizzazione “posticcia” della musica, che a sua volta ha generato un’esplosione di costi, e questa esplosione di costi ricade su di noi. Capito? Ci stiamo un po’ fregando da soli. Perché a furia di impugnare il telefono e di usarlo come “mediazione” di tutto, ci siamo dimenticati della grammatica emotiva con cui la musica sa rapirci, e portarci in un posto migliore.

È un buon affare? Ci stiamo guadagnando? Ci fa sentire meglio? No, non ci sta simpatico Bob Dylan. E i suoi 5 euro anti-smartphone di questo tour sono una ruberia legalizzata. Ma con questo furto-con-destrezza fatto (anche) per avidità ha avuto il merito, involontario?, di sollevare una questione molto importante: quanto abbiamo bisogno dei telefonini per essere davvero felici ad un concerto o sul dancefloor?