Nulla è per caso – Intervista a Luka Dončić

Parlando di pallacanestro con appassionati e amici, si finisce sempre per discutere quali siano i palazzetti più belli in cui si è vista una partita. Ciò può accadere per vari motivi, come ad esempio il tifo, l’atmosfera o l’infrastruttura. Quando si va alla O2 Arena di Londra sembra di stare in un campo NBA: tutto è moderno, scintillante, splendido e visivamente impressionante, ma il pubblico è distaccato. L’Est Europa è il contrario: i palazzetti non sono niente di che, ma l’ambiente è talmente caldo da essere quasi pericoloso. La Francia è la perfetta via di mezzo. Parigi è ormai diventata la New York europea quando si parla di basket: la città è una metropoli dal fascino irresistibile, le infrastrutture sono ottime e la gente è innamorata persa della pallacanestro. Non solo dello sport, ma di tutta la cultura che lo circonda come la moda, la musica e la “ball is life mentality” che gli innamorati della palla a spicchi conoscono. A Parigi però non tocca solo i fan del gioco, ma è chiara a tutti. Per questo motivo Jordan l’ha scelta come palcoscenico per presentare le nuove linee nel contesto del QUAI 54, la più grande competizione internazionale di basket da strada. È proprio in questo contesto che Luka Dončić ha presenziato, in quanto ospite d’onore.

In un caldo weekend di luglio ho avuto la possibilità di vedere Luka diverse volte e non è stato facile capirne il modo di vivere, la personalità. La prima volta l’ho incontrato da Airness, gruppo di negozi italiano che festeggiava la prima apertura internazionale, proprio nel cuore di Parigi. La stella di Dallas in questo caso si è presentata con estrema semplicità, coperto dai prodotti marchiati col proprio logo, segno di una signature line appena nata proprio assieme a Jordan. «Tu te lo saresti immaginato di avere una scarpa a tuo nome prodotta da Jordan? Perché io no, nemmeno ci pensavo». È proprio da questo “nemmeno ci pensavo” che inizio a ragionare su che tipologia di persona sia Dončić. Essendo un atleta di quel livello, la sua vita ha ben poco di lasciato al caso (LeBron James e la sua comunicazione ce lo hanno insegnato bene), ma nel suo modo di fare, di esprimersi e di comportarsi c’è molta naturalezza, una spontaneità che si mischia a un’iniziale tensione nel contatto verso terze persone, che va rapidamente a lasciare spazio a un particolare humour secco appena prende un po’ di confidenza.

Come è possibile che il giocatore più talentuoso di questa generazione, un cestista che ha gli occhi puntati addosso da quando ha 14 anni, non abbia realmente pensato al suo ruolo come uomo immagine di un brand? «Te lo giuro, per me è qualcosa di strepitoso, ma non era certo nei piani. È un sogno, è una responsabilità, è un’opportunità, ma per me rimane inaspettata». Eppure lui e Zion Williamson, praticamente il suo equivalente americano a livello di hype giovanile nonché suo compagno di signature line a Jordan Brand, hanno il marchio di “nuovi LeBron James”, “nuovi Jordan” da quando erano pressoché bambini. Oltretutto i primi con questo ruolo nell’era dei social media che tanto possono influenzare la mente di un ragazzo. «Ovviamente la pressione su di me è sempre stata parecchia, non posso negarlo, ma non l’ho mai sentita più di tanto. Il basket non è solo la mia passione più grande, ma anche il mio passatempo preferito, il mio modo per distrarmi. Ho sempre pensato quindi che se mi fossi concentrato solo sul gioco, avrei affrontato al meglio le situazioni che mi si sarebbe poste davanti». Questa visione, se vogliamo semplice ma efficace, mi è stata confermata anche da un’altra voce, proprio quella di Zion Williamson, anche lui insieme a Luka a Parigi e vittima recente di ondate di meme sulla sua mole e sulla mancanza di partite giocate per infortunio. «Sembra incredibile ma né io né Luka abbiamo vissuto le aspettative su di noi con alcuna pressione. Entrambi siamo talmente innamorati del gioco che ci basta quello per non pensare ad altro. Ne ho parlato proprio con Luka in questi giorni ed entrambi siamo di questo avviso. La sua situazione poi era ancora più unica dal momento che, mentre io ero al primo o secondo anno di liceo, lui era già un professionista: giocava con gli adulti, viaggiava e affrontava le dinamiche che io ho iniziato a capire solo diversi anni dopo. È incredibile vedere in che posizione siamo ora entrambi».

In questi giorni Luka ha incontrato tantissime persone e ho potuto osservarlo in situazioni diverse: il campo, insieme ai colleghi, insieme agli amici e in contesti più rilassati e refrigerati come quello che ci ospita per questa intervista. In una città come Parigi, non solo si incontrano tante persone, ma anche tanti stili differenti, specialmente quando si parla di moda. È proprio questo l’argomento su cui ci concentriamo. «Penso che la moda, la volontà di mostrare il proprio stile, sia qualcosa di molto utile per creare delle connessioni in uno spogliatoio tra persone che inizialmente non sanno trovare punti in comune. In NBA soprattutto. I giocatori arrivano da ogni parte del mondo e la moda sta diventando una passione comune. Ogni anno l’interesse cresce, e ormai tutti vogliono vestirsi al meglio per ogni partita, ci tengono a lasciare un segno col proprio outfit. E siamo in NBA, quindi parliamo di tante partite, ergo anche outfit all’anno». La moda può dare ma può anche togliere, specie quando si è giovani: spesso si arriva in un nuovo ambiente, una nuova città, e i ragazzini sono i primi a schernire l’ultimo arrivato che magari è solito vestirsi in maniera differente. Si sa, le diversità spaventano e confondono. Luka si è trasferito molte volte, arrivando dalla Slovenia alla grande e frenetica Madrid quando aveva 11 anni, eppure mi ha spiegato che la transazione non è stata difficile. «I cambiamenti da Slovenia a Spagna e poi agli USA sono stati molto diversi. All’inizio, arrivare a Madrid è stato uno shock culturale, ma quando sei così giovane ti abitui subito perché la tua formazione umana è agli inizi. Anche per quanto riguarda la moda. Chiaramente quella spagnola era molto diversa da quella slovena, ma non ricordo nemmeno se gli altri ragazzini mi prendevano in giro o meno perché ero piccolo e dello stile non mi importava. In America lo shock culturale è stato minore dato che ero già abituato al cambiamento, ma le differenze legate alla moda le ho vissuto maggiormente. Ero ormai più grande e, come dicevamo, l’aspetto fashion è molto discusso in NBA, quindi è stato subito argomento di discussione con i compagni. Poi vabbè, inutile dire che sono chiaramente il meglio vestito nello spogliatoio di Dallas. D’altronde guarda qui: la miglior scarpa da basket in circolazione» dice indicando il suo paio di Jordan Luka 1 totalmente rosse che indossa al momento. Eccolo qui lo humour secco e quell’accenno di spocchia che ogni tanto viene fuori. «Sai invece chi è quello che si veste peggio tra i Mavericks? Dorian Finney-Smith. Il perché? Lui lo sa».

Mentre parliamo, Dončić si guarda spesso le scarpe, le famose Jordan Luka 1 che hanno dato il via alla sua signature line. Per realizzare questa scarpa, il brand ha iniziato a lavorare quando Luka aveva completato l’anno da rookie, dando il via a un processo lungo ma che ha entusiasmato molto lo sloveno. «Sono sempre stato coinvolto e mi ha divertito, d’altronde non molti giocatori nella storia della NBA possono dire di avere una scarpa a proprio nome. Si tratta di una grande responsabilità ma è una bella responsabilità da avere». D’altronde parliamo di una prima signature shoe, ovvero una prima scarpa creata appositamente sui bisogni e le abitudini del giocatore. Il lato tecnico di una LeBron o di una KD, seppur sempre alla ricerca di innovazioni, è di più facile gestione, dato che ormai le tendenze dei giocatori sono ben note agli uffici di Nike. Proprio Martin Lotti, vicepresidente di Jordan nel settore design, ci ha spiegato come siano partiti proprio dai movimenti di Dončić per creare la sua scarpa. «Abbiamo studiato i dati e abbiamo capito che il 96% dei possessi di Luka parte da una situazione di palleggio, il quale si protrae per oltre 6 secondi nel 51% dei casi. L’efficacia del suo tiro cresce enormemente quando riesce a creare più di 30 centimetri di separazione dall’avversario, e proprio da qui nasce la Luka 1. Abbiamo realizzato decine e decine di disegni preparatori e alla fine siamo arrivati a questa versione definitiva che offre tantissimo in termini di performance e design». La versione esposta al pubblico selezionato che in questo momento cammina nella House of Innavation è una Luka 1 interamente bianca, con dettagli azzurri. Kelsey Amy, Senior Color Designer di Jordan e vecchia conoscenza del pubblico di Outpump, mi spiega come la colorway non sia casuale. «Il bianco e l’azzurro fanno riferimento al Real Madrid, ovvero al passato di Luka, nonché il suo tifo attuale per quanto riguarda ogni sport, dal basket al calcio. Dončić è una figura molto sfaccettata, con tante storie interessanti che non sempre è solito raccontare in pubblico. Con lui abbiamo lavorato per raccontarle nelle colorazioni della sua prima signature line che, non a caso, avrà solo colorway legate a uno storytelling, dalla prima uscita all’ultima. Parliamo di una scarpa dai materiali molto particolari – si tratta del modello più sostenibile della storia di Jordan – e per questo abbiamo lavorato a lungo per adattare colori e variazioni di materiali a questa nuova sneaker».

Parlare del passato e delle storie personali non è facile, specialmente per chi, come Dončić, è molto giovane, coperto di attenzioni, ricco di responsabilità e soprattutto cresciuto con un modo di fare riservato. Nell’arco di questi giorni l’abbiamo visto in tutte le versioni: amichevole, timido, pensieroso, sereno, spaccone e molto altro. Lo spettro emotivo di un ragazzo con un tale peso sulle spalle da così tanto tempo è particolarmente variegato e difficilmente trova uno stato di serena armonia, quasi di spensieratezza. Paradossalmente, nella conversazione con il sottoscritto, Dončić è parso avvicinarsi a quella condizione solo quando, come accennato in precedenza, abbiamo iniziato a parlare di scarpe. «La mia scarpa preferita di sempre è la Air Jordan 1 Low nella colorazione totalmente bianca. È sempre stata la scarpa che più mi ha rappresentato e credo sempre lo sarà». Eccolo quindi l’elemento comune più netto, almeno stilisticamente parlando, tra Slovenia, Madrid e Dallas. «Un giorno mi piacerebbe giocare con quella silhouette e creare la mia Jordan 1 Low. La base sarà bianca? Probabile. Potrebbe essere un bel ponte tra qualcosa di esistente che già amo e qualcosa di mio». Allora forse non è vero che “nemmeno ci pensava” all’essere un testimonial chiave di un brand come Jordan. Forse aveva pensato a tutto, perché non si diventa Luka Dončić per caso.

Foto di
Mohamed Sahid Il-Ham