O li ami o li odi, non ci sono mezze misure. Volendo è una frase che si potrebbe applicare a tutti i prodotti di Maison Margiela, ma questa volta vi vogliamo parlare di una delle sue creazioni più celebri: i Tabi Boots.
Gli stivaletti Tabi attualmente rappresentano uno dei pezzi più iconici della moda, ma non solo, la loro particolarità sta soprattutto nel fatto che, con la loro estetica ugly-chic, più di ogni altra cosa sottolineino il divario che c’è tra le persone “normali” e la cosiddetta fashion élite. Culto assoluto per insider e trendsetter, ma orribili per il gusto comune. L’elemento condiviso è sicuramente il loro design originale definito da molti “alieno”. In realtà ufo e fantascienza non hanno niente a che fare con essi, poiché le loro origini vantano un tratto più orientato verso l’esotismo. Come per molti altri casi, Martin Margiela non ha inventato nulla, ma ha eretto le fondamenta del proprio brand sulla sua personale interpretazione del riciclo, sia in termini pratici, come l’utilizzo di materiali già usati in precedenza o la tecnica del “distruggere per creare”, ma soprattutto in termini concettuali, andando a prendere forme e oggetti nella loro realtà d’origine e dando loro un nuovo significato.
I Tabi sono molto probabilmente l’esempio più adatto per esprimere questo pensiero. La loro nascita risale infatti al XV secolo, periodo in cui, dopo le importazioni di cotone dalla Cina, nella popolazione nipponica si diffuse l’utilizzo di un particolare paio di calze fatte in modo da separare l’alluce dalle altre dita, per indossare in tutta comodità i sandali tradizionali geta. Ben presto l’invenzione spopolò in tutto il Giappone, diventando una componente rappresentativa all’interno della cultura locale e un vero e proprio simbolo di stato sociale, dal momento in cui definiva il rango della persona in base al colore indossato. La loro evoluzione ha inizio dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando iniziarono a comparire i jika-tabi, ossia una versione più robusta con suola in gomma, simile in tutto e per tutto alle odierne sneakers. Un preciso fatto decreta il loro successo, ovvero l’atleta Shigeki Tanaka, che nel 1951 vince la maratona di Boston indossando proprio un paio di jika-tabi fabbricati da Onitsuka Tiger.
Per arrivare a Margiela passeranno ancora un paio di decenni e una repentina ascesa dello stilista che, dopo aver ottenuto la laurea presso la celebre Royal Academy of Fine Arts di Anversa, si ritroverà a ricoprire il ruolo di assistente nell’atelier di Jean Paul Gaultier, per poi debuttare con la propria maison nel 1988. L’idea di introdurre quel tipo di calzature all’interno del proprio immaginario nacque dopo un viaggio dello stesso Martin in Giappone e soprattutto grazie alla padronanza del settore, visto che il designer ai tempi degli studi iniziò a sperimentare con una linea di scarpe. Si arriva dunque alla sfilata della collezione primavera/estate 1989 di Maison Martin Margiela, ambientata al Café de la Gare di Parigi, popolata da modelle con maschere in garza che delineano un aspetto spersonificato, il quale da lì in poi diventerà la firma del brand. Già dal primo look i Tabi Boots fanno la loro comparsa assieme a dei capolavori d’avanguardia in una versione di pelle bianca verniciata con tacco robusto e gancetto, ma ricoperte da una colata di vernice rossa fresca in modo da lasciare una singolare impronta sul pavimento di cotone bianco, che tra l’altro verrà riutilizzato nella stagione successiva per produrre delle giacche.
Da lì in poi essi avranno un ruolo costante all’interno delle collezioni. Non solo verranno ripresentati nella stagione successiva ricoperti da graffiti, perché a quei tempi lo stilista non possedeva il denaro necessario per sviluppare nuovi modelli, ma negli oltre trent’anni trascorsi dal loro debutto sono stati proposti periodicamente sotto il numero 22 della label, talvolta aggiornandoli a nuove e sempre più variegate versioni: sneakers, décolleté, stivali, mocassini, sabot, ballerine e addirittura t-shirt con stampe a tema, portachiavi o borse. Anche nella direzione creativa di John Galliano, lo shape con le dita del piede separate verrà ripreso in modo molto intenso, inventando nuove forme e applicandovi i più svariati materiali e colori. Vengono inizialmente concepiti per la donna, ma sin da subito si considerano del tutto unisex, fino alla definitiva ufficializzazione della versione maschile nel 2017.
L’apice della fantasia arriverà con la collezione Artisanal della primavera/estate 2020, nella quale, in un contesto di couture sperimentale e decostruttivista, apparirà la prima collaborazione tra Maison Margiela e Reebok. Il frutto della partnership consiste in un’audace rivisitazione della Instapump Fury che, con un struttura high, con o senza tacco, mette in luce il taglio tabi su delle colorazioni ispirate alle versioni OG della silhouette.
Il sodalizio si è rinnovato quest’anno, ed è stato inizialmente svelato da una Instagram story di Kim Kardashian, la quale ha svelato un’inaspettata Classic Leather Tabi caratterizzata dalla celebre tecnica “Bianchetto”. Sembrerebbe che la sneaker, in uscita proprio oggi, sia accompagnata da un pack che comprenderà anche un paio di calze e un nastro adesivo in riferimento alla cultura DIY, ma probabilmente anche alla versione di Tabi più estrema mai pensata da Margiela, ovvero un sandalo che lega suola e tacco al piede con lo scotch.
Nonostante i Tabi Boot non si siano mai potuti definire un vero e proprio trend, sono sempre riusciti a ritagliarsi uno spazio notevole nel guardaroba dei fashionisti, diventando così il must assoluto che da decenni continua ad affascinare per un motivo o per l’altro il pubblico. Il loro aspetto, facilmente descrivibile come sinistro, è a sua volta circondato da quella sorta di allure di sacralità, mistero e curiosità che ruota attorno al mondo iconoclasta di Margiela, ed è forse proprio per questo che solo i veri amanti della moda sanno apprezzarne la sua sana forma di feticismo.