Se ciascuno di noi potesse provare per qualche istante l’esperienza di vivere all’interno di una capsula, una navicella o una stazione spaziale come fa normalmente un astronauta, con molta probabilità avrebbe l’impressione di essere stato catapultato nel futuro di svariati anni.
Macchinari e computer più che all’avanguardia, cibo consueto ma trattato con modalità innovative per resistere e non decomporsi prima di essere consumato, materiali costruttivi avveniristici o magari ancora in fase di sperimentazione, ultraleggeri ma super resistenti. È senza dubbio questo uno degli aspetti più affascinanti del mondo della ricerca spaziale, il fatto che si abbia a che fare di volta in volta con una serie di tecnologie ancora non esattamente di utilizzo comune. Un astronauta dovrà mettersi alla prova non solo con l’assenza di gravità ma anche con una miriade di innovazioni che dettano i tempi del progresso in cui viviamo.
Ogni volta che ci vengono comunicati nuovi dettagli e particolari su una missione spaziale ancora in corso scopriamo che c’è qualcosa, qualche aspetto, qualche elemento che non avremmo mai immaginato, nonostante la missione sia in corso di svolgimento proprio mentre stiamo leggendo e apprendendo tali curiosità. Ciò accade da sempre, dalle prime “uscite spaziali”, all’allunaggio di Neil Armstrong con l’Apollo 11 nel 1969, alle ultime missioni degli italiani Nespoli e Cristoforetti, fino al lancio della navicella Crew Dragon della SpaceX rimandato a sabato 30 maggio per condizioni meteo avverse.
Si potrebbe pensare che forse l’unica cosa “comune” in orbita sia l’uomo stesso nei panni dell’astronauta, ma non è così; tra le pochissime altre ci sono anche gli orologi ai polsi dei cosmonauti, orologi che conosciamo più o meno bene e magari abbiamo già visto al polso del nostro vicino, del commerciante all’angolo della strada o di un amico. In poche parole, nulla di più comune che orologi da polso già visti sulla terra.
Ma perché l’orologio di un astronauta non è mai niente di così futuristico nonostante sia immerso in assenza di gravità tra così tanta elettronica avanzata?
Per spiegarlo bastano poche parole fornite da James H. Ragan, ingegnere che per più di trent’anni ha testato le varie attrezzature che poi la NASA avrebbe fornito in dotazione ai propri astronauti. Ragan ha sempre sostenuto che l’elettronica, in termini di affidabilità, è più difficile da testare rispetto alla meccanica e che la meccanica (soprattutto quella dell’orologeria da polso), già ai tempi del primo sbarco sulla luna, aveva raggiunto livelli di affidabilità tali da non dover necessitare adattamenti particolari se non il cambio del cinturino standard con uno più comodo, viste le dimensioni delle tute degli astronauti.
Essere comuni, però, non significa non possedere qualità degne di nota. E questo lo sanno benissimo nello spazio, dove un orologio seppur comune può salvarti la vita. Per maggiori spiegazioni si chieda a chi ha dovuto rientrare sulla terra all’interno di un modulo lunare creato esclusivamente per atterrare sulla luna, con pochissima energia elettrica a disposizione, la strumentazione di bordo fuori uso e azionando un propulsore di riserva per correggere la traiettoria di marcia, tutto ciò solo e soltanto calcolando con la massima precisione i diversi intervalli temporali necessari grazie ad un comune quanto antiquato orologio meccanico, l’Omega Speedmaster. “Houston, we have a problem”. Era il 1970 e la disavventura era quella dell’equipaggio dell’Apollo 13.
Ma questo appena citato non è altro che uno dei tanti esempi di casi accaduti in orbita nei quali l’orologio da polso comune ha aiutato e non poco un astronauta a svolgere a pieno il proprio compito. A tal proposito va detto che dalle foto e dai video che documentano ogni singola missione si nota quasi sempre la presenza di orologi diversi e ulteriori rispetto ai classici assegnati. Con “orologi assegnati” si intendono i classici pezzi forniti dall’agenzia spaziale che ha organizzato e curato la missione, in quanto capaci di essere funzionali anche durante un’attività extra-veicolare, cioè nello “spazio aperto”, perché testati mesi e mesi prima della partenza. Uno su tutti è proprio il celebre Speedmaster di Omega, ormai noto come “Moonwatch” ma anche il Timex Ironman Datalink, capace di sincronizzare dati con applicazioni che giravano su PC con Windows 95, o addirittura il Casio G-SHOCK DW-5600 C.
La ragione di ciò è molto semplice ed intuitiva: gli astronauti, che siano ricercatori assegnati ai programmi spaziali o ex piloti militari divenuti astronauti nel tempo, come tutti noi avevano e hanno spesso uno o più orologi personali. Questi, per capacità di calcolo del tempo, di resistenza o dell’affidabilità dei loro movimenti, sono stati portati al polso come segnatempo integrativi o di riserva e quindi consegnati alla storia come orologi che in effetti hanno viaggiato nello spazio, nonostante privi di qualsiasi tipo di certificazione fornita dall’agenzia spaziale di turno.
Proprio tra questi orologi cosiddetti personali troviamo il vero imbarazzo della scelta, dai carica manuale agli automatici, fino ai quarzi che nonostante le forze magnetiche presenti in orbita sono stati capaci di resistere ed essere utilizzati per le loro più svariate funzioni: contatore durata della missione, data, giorno, fuso orario della base dove ha sede il comando della missione, calcoli cronometrici multipli con diverse memorie, intervalli di tempo, promemoria e sincronizzazione di dati come per il Timex Ironman già menzionato.
E così potremmo aver modo di scoprire che nello spazio, seppur non nello spazio “aperto”, nella maggior parte dei casi è andato un Bulova Lunar Pilot al polso dell’astronauta Dave Scott che durante l’EVA (extra-vehicular activity) della missione Apollo 15 aveva riscontrato dei problemi con il vetro del suo Omega Speedmaster assegnato, preferendo così affidarsi allo stesso Bulova di proprietà.
Oppure il Glycine Airman (molto utilizzato dai piloti dell’aviazione militare americana in Vietnam e non solo) dell’ex pilota combattente della U.S. Navy Charles Conrad, che nelle vesti di astronauta durante le missioni Gemini 5 del 1965 e Apollo 12 del 1969 lo affiancò allo Speedmaster per via della sua imbattibile leggibilità, pur essendo in grado di segnare contemporaneamente due fusi orari differenti grazie ad un quadrante di 24 ore diviso in due metà, AM e PM. O anche con il Breitling Navitimer di Scott Carpenter durante il primo volo orbitale attorno alla terra di un astronauta americano nel lontano maggio del 1962. Tutti questi sono orologi meccanici a carica manuale.
Menzione d’onore va fatta al primo orologio da polso meccanico a carica manuale a “passeggiare” nello spazio: ebbene, non è uno Speedmaster, bensì un cronografo della Strela Sekonda. Nato nel 1959, si trovava al polso del cosmonauta russo Alexei Leonov già durante gli allenamenti che lo porteranno, proprio con il suo Strela, alla missione Voskhod 2 del 1965.
Troviamo anche degli automatici, più difficili da vedere nello spazio per ragioni legate all’assenza di gravità sul sistema di carica del movimento. La storia è stata fatta principalmente dal Seiko 6139-6009T detto “Pogue”, dal nome del colonnello William Pogue che lo indossò quasi per casualità durante la missione Skylab 4 per un totale di 84 giorni a cavallo tra il 1973 e il 1974. Il caso volle che, prima dell’inizio del periodo di addestramento per la missione, la NASA dovette subire un notevole ritardo nella consegna degli Speedmaster da assegnare ai propri astronauti, tra cui vi era Pogue che, durante l’addestramento, ebbe modo di testare personalmente il suo cronografo 6139. Quest’ultimo era dotato di funzione “stop watch” e doppia ghiera – interna ed esterna – capace di tenere il conto di intervalli di tempo, misurare il tempo rimanente ad un evento e fare conti alla rovescia: tutto estremamente utile quanto fondamentale per azionare correttamente i propulsori durante il viaggio. Lo Speedmaster fu consegnato in tempo a tutto l’equipaggio, ma per sicurezza il colonnello Pogue decise di portare con sé nella tasca della tuta il suo personale cronografo Seiko. Non si sa mai.
Successivamente anche due astronauti tedeschi, Furrer e Flade, portarono con sé un segnatempo automatico e con discreti risultati: lo storico Sinn 140 che incassava un movimento automatico rustico, prodotto con materiali poveri ma fortissimi, al punto da resistere alle accelerazioni di un razzo spaziale ed essere utilizzato in totale assenza di gravità. La riprova di ciò è che lo stesso movimento era incassato da un altro automatico passato dallo spazio durante la missione Sojuz TM14 / MIR, il Tutima 5100 BWL 2.
Con il progresso tecnologico però anche gli orologi “spaziali” di proprietà degli astronauti subirono un upgrade. Dagli anni ‘80 si passa agli orologi al quarzo con schermo a cristalli liquidi che, pur restando orologi ampiamente definibili come “comuni”, hanno portato nelle stazioni spaziali funzionalità che un orologio meccanico da solo non avrebbe mai potuto avere. Vedremo quindi fotografie dallo spazio in cui sono ritratti astronauti di ogni nazionalità con i Seiko della serie A829-6019 e 6029, i francesi con lo Yema Spationaute (estremamente raro e ricercato dai collezionisti) e il nostro Paolo Nespoli che a bordo della navicella Sojuz MS-05 e della Stazione Spaziale internazionale (ISS) nel 2017 indossava un Tissot T-Touch.
A proposito di tecnologia, orologi e attualità, abbiamo già visto cosa c’è al polso dell’astronauta Bob Behnken che mercoledì scorso non ha potuto dare il via alla nuova avventura di Elon Musk per ragioni di sicurezza, visti i forti temporali nella zona della piattaforma di lancio 39A di Cape Canaveral. Ovviamente parliamo di un pezzo più volte citato in questo articolo, ma in una versione particolare: un Omega Speedmaster Skywalker X-33 interamente realizzato in titanio grado 2 – evoluzione dello Speedmaster Professional X-33 del 1998 – alimentato da un preciso movimento al quarzo che permette di avere diverse funzioni utili tanto ad un astronauta quanto ad un comune abitante terrestre: tre diversi fusi orari, altrettanti allarmi, countdown, cronografo, calendario perpetuo e un contatore del tempo trascorso dall’inizio della missione. Forse quest’ultima funzione risulta meno utile sulla Terra.
Non ci resta che attendere la partenza, curiosi di individuare nelle prossime foto della missione la presenza di qualche nuovo orologio “comune” che nel frattempo ci orbita sulle teste a centinaia di chilometri di distanza.