Passi il tuo tempo libero tra un social e l’altro come fosse un qualsiasi giorno dell’anno, ma siamo a giugno: non vedrai altro che un’infinità di bandiere arcobaleno e messaggi di solidarietà verso la comunità LGBTQIA+. Mostrare loro vicinanza e sostegno non è assolutamente sbagliato, anzi. Tuttavia, quando questo accade solo durante il mese del Pride è inevitabile pensare che brand provenienti da ogni settore stiano mettendo in mostra il loro tanto studiato rainbow washing.
Il Pride Month cade nel mese di giugno per un significato ben preciso: la commemorazione dei Moti di Stonewall avvenuti tra il 27 e il 28 giugno 1969 a Greenwich Village, New York. Per ricordare quando la polizia ha fatto irruzione allo Stonewall Inn – uno dei bar gay più famosi della città, punto di riferimento per tutta la comunità – arrestando tutti coloro che sono stati trovati privi di documenti o vestiti con abiti del sesso opposto, oltre ad alcuni dipendenti del bar. Da qui l’inizio delle rivolte e la rabbia, sempre più forte, per il trattamento a cui erano stati sottoposti.
Questo portò, il mese successivo, alla nascita del Gay Liberation Front fondato da Craig Rodwell e Brenda Howardnell e un anno dopo a prendere vita è fu il primo Gay Pride della storia, una marcia partita proprio dal Greenwich Village a cui presero parte 10 mila persone.
Come sappiamo, la moda molto spesso si è resa portavoce e sostenitrice di cause sociali e durante il mese del Pride si conferma l’occasione di mostrare il proprio contributo verso la comunità LGBTQIA+. Dalla creazione di capsule collection alle donazioni ad associazioni filantropiche, ognuno cerca di sposare la causa in modo personale e rappresentativo.
Ralph Lauren, ad esempio, ha continuato il suo impegno di oltre 30 anni nei confronti della comunità LGBTQIA+ con la sua recente campagna che va ad esplorare la complessa e intersezionale storia del Pride: dall’evoluzione alle figure più importanti, tramite contenuti social realizzati con l’aiuto di studiosi ed esperti. Ad oggi il marchio sta collaborando ancora una volta con la Stonewall Community Foundation, fornendo una donazione per sostenere la comunità queer.
Diesel, invece, si è unito alla Tom of Finland Foundation per dare vita a un progetto che comprende una mostra d’arte tra Venezia e Parigi chiamata “AllTogether”, a cura della Tom of Finland Foundation e di The Community. L’obiettivo è quello di mettere in luce l’immaginario e gli ideali della comunità nel mondo, tramite storie di artisti che hanno affrontato le loro battaglie personali, a sostegno di chi sta subendo qualsiasi tipo di discriminazione. Per dare maggiore visibilità a questa tradizione, il brand ha presentato anche una capsule collection con le opere di alcuni degli stessi artisti della mostra.
Calvin Klein ha donato 400mila dollari alle ONG che si battono per la parità e la difesa delle persone LGBTQIA+. La campagna “This is Love” ritrae amici, fidanzati e tutti coloro che condividono il loro significato di famiglia. Tra i volti scelti vediamo anche tre dipendenti di The Trevor Project, la più grande organizzazione al mondo di prevenzione dei suicidi e di intervento in caso di crisi per i giovani della comunità, di cui il marchio è sostenitore e sponsor finanziario.
Ma a sostegno della causa arriva un contributo anche dal mondo del fast fashion: dall’infinita proposta arcobaleno di Shein a Boohoo che spiega che “Il Pride non è solo una festa”. Il marchio H&M con la campagna “My chosen family” sottolinea l’importanza del concetto di famiglie non biologiche, che svolgono un ruolo essenziale per molte persone nella comunità LGBTQIA+. Come parte della campagna, H&M donerà 100.000 dollari alla Free & Equal delle Nazioni Unite, che sostiene la parità dei diritti e il trattamento equo della comunità LGBTQIA+ in tutto il mondo.
Il Pride, dunque, come enuncia il termine stesso, rappresenta l’orgoglio della comunità LGBTQIA+, insieme alla rabbia e alla consapevolezza che sono state necessarie per apportare un cambiamento – che come sappiamo, non è ancora arrivato al suo obiettivo di totale accettazione nella comunità. Oggi, passati più di cinquanta anni dai Moti di Stonewall, vediamo l’arrivo di giugno e con esso la trasformazione di ogni immagine del profilo su Instagram, utilizzando loghi pro-causa e mostrandosi alleato della comunità adottando una strategia pubblicitaria che sembrerebbe apparentemente vincente.
L’aiuto e il sostegno concreto, infatti, vanno a differenziarsi dall’appoggio momentaneo che prende vita in concomitanza del Pride Month. Molti sono i brand e le società che da anni aiutano concretamente la comunità LGBTQIA+, sostenendone valori e iniziative durante tutto l’anno, ma c’è anche chi sceglie strategie di marketing per strumentalizzare le suddette tematiche con l’intento di apparire gay-friendly e, di conseguenza, ottenere consenso dal pubblico. Parliamo di rainbow washing.
Il termine nasce dall’unione dell’espressione inglese white washing, che letteralmente significa “imbiancare”, “coprire”, e della parola rainbow, “arcobaleno”, che fa riferimento alla comunità LGBTQIA+. L’obiettivo? Mostrarsi sostenitori con il minimo sforzo.
Del resto, altro non è stato fatto per esprimere vicinanza alla popolazione ucraina durante la guerra – che, nota bene, non è finita – ma giustamente adesso la bandiera giallo-blu ha fatto spazio a quella arcobaleno.
Ciò non vuol dire che sia sbagliato mostrare la propria vicinanza verso un tema sociale così importante, ma in questo caso il contributo dovrebbe essere maggiore rispetto a un apporto minimo sui social in cui l’apice è rappresentato dalla pubblicazione di una frase di solidarietà. Ogni brand e, come loro anche noi cittadini che tanto non siamo diversi, dovremmo fornire un contributo tangibile alla comunità e, magari, una volta finito giugno, non ignorare quello che si è appena fatto.
Nella mente di alcune persone, infatti, il Pride ad oggi sembra più incentrato su accordi lavorativi e sponsorizzazioni, quando invece bisognerebbe puntare sull’amplificazione delle voci queer, aumentando la consapevolezza che ruota attorno al tema.
I marchi dovrebbero prestare attenzione a ciò che i consumatori vogliono effettivamente, poiché soprattutto le generazioni più giovani non solo vogliono trasparenza nella strategia comunicativa, ma chiedono azioni chiare e definite che siano di supporto e sostengano realmente la causa, rendendo concrete quelle che sono delle semplici dichiarazioni.
Del resto, se c’è qualcosa che le aziende hanno imparato nel corso degli ultimi anni fatti di boicottaggi e cancel culture, è che la reputazione di un brand e dei suoi prodotti si fonda sulla capacità di costruire e comunicare dei valori condivisi con il proprio pubblico.