Come già sappiamo, quella della moda è una delle industrie più inquinanti al mondo e se andassimo a sommare tutte le sue dinamiche, spesso superficiali e troppo frenetiche, sarebbe molto facile trarne una critica. Tuttavia non è corretto mettere tutti sullo stesso piano, poiché esistono alcune aziende come Patagonia che sì, ne fanno parte, ma al tempo stesso dimostrano la possibilità concreta di operare in modo diverso.
Ci sono molteplici fattori che permettono a Patagonia di essere considerata una delle voci fuori dal coro e di rappresentare un modello da seguire. A primo impatto, nominando il brand pensiamo subito ai suoi pile funzionali e senza tempo ma non tutti forse sanno che si tratta anche di uno dei marchi che da sempre considera prioritario il problema della crisi climatica. Di conseguenza sono molteplici le azioni attuate per ridurre al minimo il suo impatto, sia quelle già attive che quelle in programma: al cliente è per esempio garantita la massima trasparenza sulla provenienza dell’acquisto; le condizioni di lavoro rispondono a una serie di parametri etici in tutti i loro step e inoltre, da tempi non sospetti, viene promossa e applicata una campagna di economia circolare che consente di prolungare al massimo la vita dei prodotti attraverso il riciclo e la riparazione. Potremmo dilungarci ancora per molto su tutte le iniziative a lungo termine su cui Patagonia sta lavorando, come l’obiettivo di diventare carbon neutral entro il 2025, ma è già piuttosto chiaro che stiamo parlando di uno dei brand più sostenibili e rispettabili in assoluto. Per di più, il suo attivismo non si limita solo a questioni ambientali, ma si lega anche a impegni politici come la posizione presa contro Donald Trump e il suo atteggiamento trascurante nei confronti del cambiamento climatico, dichiarata dalle etichette poste su alcuni articoli con su scritto “vote the asshole out” durante le ultime elezioni presidenziali americane.
Sommando tutti questi fattori e aggiungendone altri, come l’ascesa del trend gorpcore, la sensibilità del pubblico alla sostenibilità e la ricerca di design iconici, Patagonia è diventato inevitabilmente un successo internazionale, nonché un vero e proprio statement con un silenzioso ma evidente impatto culturale.
A ulteriore dimostrazione di questo aspetto, ci sono poi i numerosi e pressoché incessanti bootleg, curioso fenomeno che consiste nel trarre ispirazione e imitare parzialmente un dettaglio al fine di creare un prodotto nuovo senza che si possa definire fake. Nel caso di Patagonia, non deve sorprendere che lo status di cult, sia tra gli appassionati di outdoor che di streetwear, venga celebrato con continui omaggi attraverso parodie e citazioni da parte di altri brand.
Prima di analizzare i più significativi rip-off, però, ci sembra giusto soffermarci un istante sull’origine del logo Patagonia, ossia l’elemento su cui tutti i bootleg si basano.
Essendo un appassionato scalatore e ambientalista, il fondatore di Patagonia Yvon Chouinard scelse di ispirarsi a un massiccio montuoso per il logo del suo marchio, eleggendo uno dei suoi luoghi preferiti. Si tratta del Monte Fitz Roy in Patagonia, che venne raffigurato in una versione stilizzata con l’aggiunta di diverse tonalità di blu e arancione sullo sfondo in riferimento ai colori del paesaggio al tramonto. A eseguire il disegno fu Jocelyn Slack che, non avendo mai visitato il posto, si basò precisamente sulle idee trasmesse da Yvon, il quale la guidò con i suoi commenti scrupolosissimi. Dopo vari schizzi, bozze e modifiche, il logo debuttò definitivamente nella primavera del 1976, tre anni dopo la fondazione del brand, con l’utilizzo del font Belwe Bold per il lettering.
Tornando al discorso dei bootleg, va segnalato il caso dei Deadhead, fedeli seguaci dei Grateful Dead che diedero vita a una sorta di “religione senza credo” devota alla loro band preferita con delle regole ben precise e un codice comportamentale simile per molti aspetti al pensiero hippie di fine anni Sessanta. Tra le loro cosiddette “uniformi” erano onnipresenti t-shirt tie dye, shorts in denim e una predilezione generale per i prodotti di Patagonia, specialmente per quanto riguarda le borse. Non a caso vennero create numerose linee di merchandising che parodiavano il logo di Patagonia, tra cui la nota grafica Deadagonia.
Grateful for the music of #Jerry Garcia. He would have been 70 today. #deadagonia
— Patagonia (@patagonia) August 2, 2012
A dimostrare la presenza di una grande quantità di merch vintage creato dai Deadhead guardando al brand californiano e sottolineando l’intersezione tra musica e merchandising c’è Austin Williams, che con la sua etichetta Petrified Good rielabora rari pezzi di Patagonia trasformandoli in celebrazioni D.I.Y. per i suoi gruppi musicali prediletti, tra cui proprio i Grateful Dead.
Alcuni anni più tardi, l’attenzione si è spostata sulla scena streetwear, la quale ha fatto della contaminazione, dell’irriverenza e della custom culture i suoi cavalli di battaglia. Ancora una volta, il brand che ha anticipato i tempi è Supreme, che nel 1998, a pochissimi anni dalla sua fondazione, creò una delle parodie più iconiche di Patagonia sostituendo il Monte Fitz Roy con lo skyline di New York su pullover in Polartec, felpe, berretti, t-shirt e sample vari. In molti all’epoca hanno pensato si trattasse di una collaborazione ufficiale tra i due, ma non è così. Da allora i fan continuano a desiderare questo sodalizio, anche se probabilmente non avverrà mai e non solo perché l’azienda di Yvon Chouinard rifiuta il metodo delle collaborazioni ma anche per l’ovvia concorrenza con The North Face, marchio con il quale la label newyorkese possiede uno stretto legame.
Quel design divenne talmente celebre che ironicamente venne ulteriormente bootlegato a sua volta, prima da Aaron’s World, che copiò la grafica scrivendo però con chiarezza “This is not Supreme”, e poi da Chinatown Market, che nella capsule collection Patagucci, composta da longsleeve e tappeti, riprese l’idea di sostituire le montagne con i grattacieli.
A diffondere il fenomeno in Giappone ci pensò invece NIGO che, fedele all’estetica Americana, rielaborò i tratti distintivi del brand statunitense in chiave nipponica. La prima volta fu con A Bathing Ape, anzi, più precisamente con URSUS BAPE, la sub-label da lui creata insieme a Tetsu Nishiyama di WTAPS; mentre la seconda è avvenuta quest’anno con HUMAN MADE e la collezione “OUTDOOR“.
Sempre nel Sol Levante, a far parlare di sé per un controverso bootleg di Patagonia c’è stato anche READYMADE. Il brand di Yuta Hosokawa è solito riciclare e rielaborare materiali vintage in qualcosa di totalmente nuovo, prodotto in modo artigianale in un atelier che solitamente fabbrica merce per l’impero giapponese. L’abbiamo già visto con i rip-off di Champion, The North Face e Disney, dunque non stupisce se ora ha deciso di ampliare la propria offerta con un capo che prende di mira l’azienda con sede a Ventura. Dalla collezione autunno/inverno 2021 è nata infatti la TEDDY JACKET, una palese citazione al celebre modello Retro-X che è stato dotato di un fleece a pelo lungo proveniente da un mix di poliestere riciclato, tessuti eco-consapevoli e cotone vintage riutilizzato. La tasca, per esempio, è stata ricavata da un vecchio pezzo dell’esercito e il taglio vanta un fit più oversize rispetto alla silhouette classica. Sebbene vada apprezzata l’attenzione per la sostenibilità durante il processo produttivo, non possiamo invece dire altrettanto del prezzo, poiché si aggira intorno ai €1.000 a discapito dei €200 dell’item originale.
In tutto questo non mancano riferimenti ironici come quelli dedicati al naturalista e divulgatore scientifico David Attenborough e persino autoironici come nel caso di Pataloha, una collezione bootleg ufficiale creata proprio da Patagonia modificando il proprio nome ispirandosi allo stile hawaiano.
Nella sua semplicità, Patagonia è riuscita a essere una grande fonte di ispirazione. La speranza è che questa non resti limitata soltanto all’estetica, ma in futuro sia presa come esempio anche la sua filosofia aziendale.