Dua Lipa apre la sfilata di Versace per la collezione SS22 della Milano Fashion Week lasciando zero dubbi sulla direzione della maison: il target sono i giovani, la famigerata Gen Z, tanto criticata e considerata incomprensibile, quanto presa di mira dagli uffici marketing delle case di moda di tutto il mondo. Quando però lo swap tra Fendi e Versace — il segreto meno segreto della storia della moda — è svelato, questa rotta si perde improvvisamente. Kim Jones, con l’aiuto di Silvia Venturini Fendi, e Donatella Versace mettono in atto un gioco dei ruoli, dove si scambiano in modo innocuo, e forse precipitoso, le direzioni artistiche delle due maison producendo un ibrido che, di certo ha inondato i social, ma il cui obbiettivo è confuso. La collezione che ha preso il nome di Fendace — e che anche in questo caso rifiuta l’appellativo di collaborazione — con che pubblico vuole comunicare veramente?
Quando Gucci e Balenciaga — due brand che per mesi sono stati in cima alle classifiche delle maison con più hype — hanno avuto il loro momento di fusione, avevamo previsto che quel gesto avrebbe sbrigliato per sempre le collaborazioni tra maison del lusso. Così come l’hacking dello scorso aprile, anche Fendace sembra avere un obiettivo preciso: vendere a un pubblico giovane dei pezzi che trasudano lusso e hype giocando con loghi, esagerazioni e il desiderio di acquistare qualcosa di unico nel suo genere.
E allora dove sta l’anello debole che non ha reso anche Fendace un fenomeno mediatico e che ha fatto sì che già a distanza di un giorno il discorso intorno alla collaborazione fosse spento? Mentre la scelta di Fendi e Versace di partorire una collaborazione sembra di per sé guidata dalla volontà di avvicinarsi a un pubblico giovanile che è spesso attratto da questo tipo di proposte, manca totalmente la volontà di parlare la stessa lingua di questo pubblico. Con i tempi già saturi di collaborazioni di ogni genere e la dimenticanza di mischiare elementi street, riferimenti pop e codici giovani per comunicare con l’audience desiderata, mancano così il bersaglio.
Se la storia ci insegna qualcosa, è che una profonda connessione tra alta moda e giovani è possibile solo grazie a una continua influenza e contaminazione che va dalle strade alle passerelle, e viceversa. Quelli che gli inglesi chiamano i fenomeni del bubble up e trickle down sono il perfetto esempio di questa andatura che ha iniziato a prendere campo ai tempi delle subculture con la maiuscola — tra mods, skinheads, punks, teddy boys e chi più ne ha più ne metta. Per capirci, Vivienne Westwood vedeva i giovani punk londinesi in giro per Kings Road con vestiti strappati, accessori fetish e magliette con messaggi provocatori e in risposta creava collezioni ispirate a loro e per loro, allo stesso modo in cui Fiorucci dava vita a una subcultura di giovani che in poco altro si identificavano tanto quanto nei suoi vestiti.
Questo continuo scambio tra l’alto e il basso ha permesso alle case di moda di avere sempre in mente il loro target giovanile osservandolo, conoscendolo e offrendo loro i vestiti che desideravano o le versioni migliori dei vestiti che già possedevano e amavano. Se in passato la contaminazione strada-moda ha sempre funzionato, cosa fa pensare a Donatella Versace e Kim Jones che oggi la contaminazione moda-moda funzioni per parlare a un pubblico giovane sempre più in fervore che lancia trend su Tiktok di minuto in minuto e che si muove destreggiandosi tra impegno sociale, ricerca di un’identità e di una comunità?
Se negli ultimi anni, a partire dalla collaborazione tra Louis Vuitton e Supreme del 2017, le collaborazioni hanno sempre parlato ai giovani creando una necessità di acquisto mai sperimentata prima e l’illusione di appartenere a qualcosa, oggi ci troviamo sommersi da collaborazioni continue tra brand che mancano in unicità.
E proprio alla stesso modo, mentre Dua Lipa ha aperto la collezione da solista di Versace centrando in pieno l’obiettivo, l’esempio lampante del fallimento dietro alla collaborazione con Fendi sta esattamente qui: perché far indossare a Kate Moss, Naomi Campbell e Kristen McMenamy degli abiti che dovrebbero rappresentare una community giovane, che ha altri miti e che muore dalla voglia di prendere le distanze dall’industria di moda tossica in cui sono nate quelle modelle?