Disclaimer iniziale: l’autrice di questo articolo NON è una fan di Tony Effe, anzi, si può dire che lo consideri il personaggio più lontano che esista dai suoi gusti personali (sì, anche i giornalisti musicali hanno le loro preferenze, fatevene una ragione). Fatta questa dovuta premessa, però, sul caso del momento c’è parecchio da dire. Per chi avesse vissuto fino ad oggi sotto un sasso, ecco il riassunto delle puntate precedenti. Il Comune di Roma recluta il nostro per il concerto di capodanno al Circo Massimo; una parte della sinistra e alcune associazioni di donne protestano per i suoi testi “violenti e sessisti”, obbiettando che non si possono usare soldi pubblici per promuovere quel tipo di linguaggio; il Comune decide quindi che Tony Effe è divisivo e sarebbe un male per la città se si esibisse, e lo invita a fare “un passo indietro”, ovvero a rinunciare al concerto; a quel punto anche Mahmood e Mara Sattei, gli altri due headliner già annunciati, rinunciano per solidarietà.
E mentre il sindaco e la giunta cercavano di capire chi far cantare al Circo Massimo al posto loro (spoiler: ancora non si sa, si dice addirittura che il concerto possa saltare), sui social partiva una campagna contro la censura e in favore di Tony, a cui hanno aderito numerosi artisti di tutti i generi: Kid Yugi, Lazza, Noemi, Giorgia, Vasco Rossi, Gaia, Emma, Simone Cristicchi… Perfino alcune femministe di primo piano, come l’intellettuale e scrittrice Giulia Blasi, non condividono la scelta del comune. Tutti ribadiscono la stessa cosa, e cioè che l’arte in generale e la musica in particolare non possono essere messe a tacere preventivamente, neppure quando fanno discutere. E lo ribadiamo anche noi: non possiamo far passare il concetto che le parole dei rapper vadano prese alla lettera, anche quando non sono particolarmente edificanti (e quasi sicuramente quelle di Tony Effe non lo sono), altrimenti comincerà una caccia alle streghe che non vedrà mai una fine. Vale lo stesso per quelle dei cantanti, dei comici, dei romanzieri, dei cineasti. Oltretutto questo tipo di manovra di solito ottiene l’effetto opposto, tant’è che Tony è ormai l’eroe social del giorno: con una mossa a sorpresa ieri sera ha annunciato il “suo” concerto di capodanno al Palazzo dello Sport di Roma, a prezzo calmierato, con probabile line-up di ospiti stellari. Se lo scopo del suo allontanamento dal Circo Massimo era quello di non pubblicizzare ulteriormente la sua musica, decisamente non è riuscito.
Non è la prima volta, tra l’altro, che un rapper italiano di primo piano è costretto a rinunciare a un palco importante perché considerato misogino. Era successo anche a Fabri Fibra nel lontano 2013, escluso all’ultimo momento dal concertone del Primo Maggio. L’associazione Donne in Rete contro la Violenza aveva scritto una lettera aperta ai sindacati, che organizzano e finanziano l’evento: “Troviamo ingiusto e diseducativo per i tantissimi giovani che partecipano al concerto invitare un cantante che scrive testi carichi di stereotipi contro la donna, humus da cui si genera la violenza”, recitava la missiva, e l’invito a Fabri era quindi stato ritirato. Tutto piuttosto assurdo e surreale, visto col senno di poi, soprattutto considerando la caratura intellettuale e la profondità di analisi sociale dei suoi testi. È interessante però notare come all’epoca non ci fosse stata una levata di scudi in sua difesa: anzi, Fibra si era trovato costretto a scrivere una lettera aperta a sua volta, per spiegare (come se davvero ci fosse bisogno di farlo) che non è né misogino né tantomeno violento, e che raccontare qualcosa non significa incarnare qualcosa. Ma non era servito.
Nel 2013 nessuno dei suoi colleghi nel cast del concertone aveva pensato di rinunciare alla propria esibizione per solidarietà a Fabri, anche se qualcuno si era espresso in sua difesa: su tutti, Elio e le Storie Tese (“Siamo contrari a ogni tipo di censura e quindi anche a quella preventiva imposta a Fabri Fibra, al quale manifestiamo solidarietà artistica”, avevano scritto su Facebook, il social che allora andava per la maggiore). Anche diverse altre personalità si erano espresse in sua difesa: un gruppo variegato che comprendeva Jovanotti, Vincenzo Mollica, Pierluigi Diaco, Luca Bizzarri e perfino dj Aniceto. Ma da parte della scena rap – che non era molto affollata, ma già esisteva eccome anche nel mainstream – non c’era stata una grande mobilitazione. Quello che aveva preso la posizione più netta era stato Marracash, in un’intervista a Repubblica: “Sono deciso a boicottare il concertone del Primo Maggio. Non lo vedrò in tv perché la decisione di cancellare l’esibizione di Fabri Fibra è uno smacco nei confronti di tutto l’hip hop, anche se colpisce lui e del tutto ingiustamente” aveva dichiarato. A vederla in quest’ottica è un’ottima notizia il fatto che quest’anno, di fronte a una situazione analoga (con protagonista Tony Effe, ma diciamoci la verità: poteva capitare quasi a chiunque) in molti abbiano reagito compatti per prendere una posizione. Perché è evidente che una parte del sistema culturale italiano – soprattutto quella più legata alla politica, come dimostrano le parole del Sottosegretario alla Cultura Mazzi con delega alla musica – non ha ancora capito cos’è il rap e cosa rappresenta. Se non restiamo uniti nel ribadire l’ovvio, non lo capiranno mai.
Il punto, però, è che bisognerebbe rimanere compatti anche su questioni ben più importanti e scomode, perché la solidarietà contro la censura (preventiva o ex post) dovrebbe valere per tutto e tutti. Pochi, ad esempio, si sono scomodati a mostrare solidarietà a Ghali quando la Rai si dissociò ufficialmente dalle sue dichiarazioni pro-Gaza sul palco di Sanremo 2024, o quando sempre a Sanremo Dargen D’Amico fu bloccato mentre cercava di parlare di immigrazione, che poi era il tema della canzone che portava in gara. Non a caso, molti commentatori stanno accorrendo sul profilo di Ghali a sottolineare proprio questo; dall’altro ieri, infatti, l’artista ha cancellato tutti i post dal suo profilo Instagram lasciando solo il fotogramma della diretta di Sanremo in cui stava per pronunciare la celebre frase “Stop al genocidio”. Un gesto non casuale, visto che proprio giovedì si presentavano i titoli delle canzoni del prossimo Sanremo.
L’hip hop nasce per dare a tutti modo di esprimersi: anche chi non si riconosce nel concetto espresso dovrebbe lottare per garantire che possa arrivare a tutti. Riusciremo a farlo davvero o ciascuno guarderà solo al suo orticello? Chissà. Sarà interessante vedere cosa succederà sul palco dell’Ariston a febbraio 2025, in un Festival in cui i rapper ormai imperversano e in cui sicuramente ci sarà più di una barra o di una manifestazione di dissenso che scateneranno le ire dei benpensanti: ce le aspettiamo da Willie Peyote, ma anche da Gué, da Fedez o da Emis Killa, ad esempio. Non c’è nulla di più hip hop che salire su un palco istituzionale e dar voce a temi o stilemi controversi, smascherando l’ipocrisia generale, e speriamo di farci trovare preparati a reagire al fiume di polemiche che potrebbero scaturirne. Perché la difesa a priori di Tony Effe, che ci/vi piaccia o no la musica che fa, dovrebbe essere un punto di partenza per rafforzare un concetto. Oggi è capitato a lui, ieri a Fabri Fibra, domani il bersaglio della pubblica indignazione potrebbe essere qualcun altro. Con buona pace delle donne che continuano a subire violenza (o dei civili di Gaza che continuano a morire, o dei barconi in mezzo al mare che continuano ad affondare) mentre i nostri politici sono troppo impegnati a occuparsi della forma per legiferare sulla sostanza.