La sensazione di sentirsi intrappolati in una quotidianità grigia e sempre uguale è una delle grandi angosce contemporanee. Sempre di più le persone (soprattutto i giovani) sono insoddisfatte, tristi e infelici della loro vita, come se la realtà non fosse abbastanza, come se le cose non cambiassero mai, e la ripetizione dei gesti non fosse altro che un obbligo privo di qualsiasi significato.
Il nuovo film di Wim Wenders, “Perfect Days“, si inserisce in questa narrazione per ribaltarla e mostrare quanto la vita di ciascuno possa essere speciale. A metà tra cinema di finzione e documentario, “Perfect Days”, racconta storia di Hirayama, un uomo di circa sessant’anni, uno come tanti, senza dubbio non ricco, ma neanche povero, che lavora alla pulizia dei bagni pubblici di Tokyo – il famoso Tokyo Toilet Project – seguendolo durante le sue giornate, così apparentemente simili tra di loro ma anche così profondamente diverse l’una dall’altra.
Grazie a questo approccio che mescola elementi del cinema di finzione insieme ad altri più propri del cinema documentaristico, il film di Wenders spalanca gli occhi sull’unicità della vita del protagonista, che diventa sempre più particolare, senza fare nulla di speciale per esserlo.
La pellicola è infatti toccante per la semplicità con la quale disegna il suo personaggio principale e la Tokyo che lo circonda, una metropoli immensa, sterminata, che, come tutte le grandi città, rende insignificanti le individualità. Proprio per sfuggire a questa logica annichilente, lo sguardo di Wenders si posa su una di esse, ribaltando la prospettiva per la quale il singolo scompare nella moltitudine, e anzi questa megalopoli così ricca di vita fa da sfondo alla storia di un uomo semplice che non avrebbe nulla di particolare da raccontare, tranne sé stesso.
“Perfect Days” è un film che decide di sottrarsi alla logica dell’alternarsi di tensione e distensione, e invece opta per una narrazione apparentemente piatta. E per valorizzare al massimo questa decisione, l’autore concentra il suo occhio su pochi gesti compiuti da Hirayama, enfatizzati con grande attenzione e cura: l’ascolto delle cassette rock anni 60/70 in macchina, la minuziosa pulizia dei bagni a cui dedica grande attenzione, il pranzo consumato nello stesso parco tutti i giorni scattando sempre una foto agli alberi, i tragitti in bicicletta verso i bagni dove va a lavarsi e il ristorante dove tutte le sere mangia, fino all’acquisto settimanale del libro che leggerà nei giorni successivi.
In questo mondo così semplice e ordinato, si inseriscono note di colore che sono i personaggi comprimari, come il suo giovane aiutante (disperato per non riuscire a conquistare una ragazza), la nipote fuggita da casa che ospita per un paio di giorni, la sorella con la quale sembra avere dei trascorsi (che vengono solo suggeriti), o la proprietaria di un ristorante dove cena nei giorni liberi per la quale potrebbe avere dei sentimenti.
Il personaggio di Hirayama (interpretato da Kōji Yakusho) diventa presto un quadro appena accennato: parla poco e tradisce le emozioni solo attraverso la mimica facciale, ma grazie all’interpretazione minimale dell’attore risulta profondamente umano. E anche per questo lo spettatore riesce a empatizzare con grande facilità. I suoi cambiamenti espressivi tradiscono emozioni comuni: noia, frustrazione, felicità, gioia, rabbia repressa e tanto altro – compressi benissimo in una splendida sequenza finale. Hirayama potrebbe essere uno di noi.
“Perfect Days” di Wim Wenders è un film che colpisce nel segno per la capacità di ritagliare un ruolo speciale a qualcuno che non lo avrebbe, per come mostra al cinema la bellezza di ciò che ci circonda, per la delicatezza con la quale valorizza la quotidianità e in generale la vita. In un mondo in cui il desiderio di essere speciali e protagonisti sembra essere diventato un obbligo, Wim Wenders rende speciale chi è ai margini: chi parla poco, chi fa un lavoro non prestigioso, chi non ha una vita Instagram friendly, e per questo risulta più attuale che mai.