Ho 25 anni. La durata della mia vita, fino ad ora, corrisponde esattamente agli anni trascorsi da Peter Yee all’interno di Oakley, una delle aziende di abbigliamento e accessori sportivi più famose al mondo. Oakley è come un vaso da scoperchiare; non può e non deve essere associata solo a quel logo ellittico che si può trovare sulla montatura degli occhiali che indossa vostro padre per giocare i tornei estivi di beach volley con i suoi amici 50enni, né tantomeno alle spropositate maschere da sci indossate dai vostri amici in settimana bianca a Courmayeur, c’è molto altro. L’azienda fondata a Foothill Ranch da James “Jim” Jannard ha delle persone davvero interessanti al suo interno; questa è l’idea che mi sono fatto chiacchierando con Mr. Yee. I design di Oakley, diciamolo chiaramente, sono incredibilmente dirompenti, e mai mi sarei aspettato di scoprire che il primo trained industrial engineer della storia del brand sia stato proprio Peter. Appena lo intravedo da lontano, nei pressi della scalinata della fermata Cairoli della metropolitana di Milano, associo il suo look a quello delle centinaia di impiegati che lavorano da PwC e Generali che spesso mi capita di incontrare nel mio tragitto verso l’ufficio in un normalissimo casual friday: una lunga giacca blu, un denim più o meno skinny e degli stivaletti scamosciati modello chelsea. Sul suo polso, però, spicca un pezzo d’archivio incredibile. Il Time Bomb II, un orologio disegnato proprio da lui nel 2008 caratterizzato da un cinturino in titanio molto flessibile, la cui struttura ricorda il guscio di un armadillo.
«Oakley attualmente detiene circa 600 brevetti per occhiali e materiali – più di 100 portano la mia firma. Ovviamente non tutti sono stati concepiti per essere un oggetto funzionale con l’obiettivo di migliorare le performance degli atleti, alcuni sono più un esercizio di stile, dei design innovativi che, al tempo, non si erano mai visti prima. Io sono sempre stato un designer del settore eyewear, ma ogni tanto mi veniva proposto dell’altro, esattamente come nel caso del Time Bomb II uscito nel 2008 in occasione del decimo anniversario del Time Bomb I, lì ho voluto divertirmi creando un cinturino capace di adattarsi alla circonferenza del polso di ognuno».
Prima Peter Yee era conosciuto esclusivamente dai collezionisti del mondo Oakley che abitano i blog più disparati del web, ma da quando ha aperto il suo profilo Instagram personale sono molte le pagine che hanno iniziato a condividere i suoi strepitosi tesori, anche se probabilmente ancora in pochissimi sono a conoscenza di quello che Peter ci sta per raccontare, mentre sorseggia un caffè americano e il suo Time Bomb II sporge nuovamente nella zona del polso.
«La dicitura trained industrial engineer indica una persona non qualificata come ingegnere, ma allo stesso tempo in grado di capire l’ingegneria. Ciò significa che io ho assecondato il lavoro degli ingegneri, ho lavorato moltissimo tempo al loro fianco, ma erano loro che dovevano capire come far funzionare le cose, io invece, essendo un designer, avevo il compito di migliorarle più dal punto di vista estetico».
Il ruolo di designer è quello che Peter Yee ha iniziato a ricoprire subito dopo aver terminato i suoi studi all’istituto ArtCenter College of Design di Pasadena. Ma perché scegliere proprio Oakley?
«Quando ho fatto il mio primo colloquio con Jim sono entrato in un’azienda che mi ha fatto capire subito che poteva essere il punto di partenza adatto a me. All’epoca ero uno studente squattrinato che si interfacciava per la prima volta con il mondo del lavoro e, nonostante le mie insicurezze e lo scetticismo iniziale, da Oakley c’era tutto quello che volevo. Belle ragazze che ti accoglievano all’ingresso della sede, persone solari, impiegati intenti a lanciarsi aeroplanini di carta nelle aree di lavoro, insomma, cazzeggiare era ammesso. In più non c’era un dress code, quindi potevo recarmi in ufficio con indosso un paio di pantaloncini corti e una t-shirt. Non nego di aver pensato, almeno per un istante, prima di parlare con Jim, che Oakley non fosse all’altezza dei risultati eccelsi che avevo ottenuto al college e della mia fame di carriera: pensavo, “posso trascorrere il resto della mia vita a disegnare occhiali? Merito di essere all’interno di una grande azienda di consulenza, devo essere il numero uno in tutto, perché per me essere il numero due significa essere il primo dei perdenti”; ma è bastato poco, Jim mi telefonò, la mia fidanzata dell’epoca mi passò il cellulare e in un attimo accettai la proposta. La mia decisione fu così repentina anche grazie alla bontà e all’attenzione ai minimi dettagli che trasmetteva Jim: conosceva il nome di ogni dipendente all’interno della sua azienda, ogni loro storia. Fu importantissimo affinché io scegliessi di entrare in quella grande famiglia».
Dopo questo lungo racconto, la mia attenzione si è spostata su altro: non volevo più sapere se durante il suo periodo da studente in un istituto americano fosse stato tutti i giorni a contatto con quelli che lui definisce overachiever – un termine che tradotto in italiano ha un significato polivalente che oscilla tra “secchione” e “persona ambiziosa” -, ma ero intenzionato a capire cosa si prova ad essere consapevoli di ricoprire un ruolo unico all’interno di un’azienda celebre senza però essere reputati famosi.
«Beh, è un discorso molto lungo. Per buona parte della mia esperienza da Oakley non ho mai pensato che la fama potesse interessarmi. Lì c’è proprio un mindset diverso, nessun creativo è interessato a essere reputato come una superstar, (a differenza di quanto accade nel mondo della moda). Infatti, quando rilasciavamo interviste a giornali e magazine non parlavamo mai in prima persona, bensì usavamo sempre il pronome “noi”. Noi, un’azienda che lavorava ai propri design in maniera corale. Questo modo di fare a me andava benissimo, perché i miei parenti sono tutti imprenditori, la gente conosce i loro nomi e, in quanto proprietari, le loro responsabilità sono diverse. Io invece desideravo una vita normalissima da dipendente: svolgere le consuete ore di lavoro, ricevere uno stipendio soddisfacente, tornare a casa per trascorrere del tempo con le persone a me care e praticare i miei hobby. Poi, nel 2018, quando ho lasciato Foothill Ranch, qualcosa in me è scattato. Cerco di spiegarmi. Ero, e sono, molto fiero dei miei design, ma sentivo di meritare un minimo di riconoscibilità. Allora ad agosto 2021 ho aperto il mio account Instagram, dove mi diverto e condivido con moltissime persone la dietrologia degli oggetti che ho creato nel corso della mia carriera. È divertente!».
I prodotti firmati Oakley sono una vera e propria estensione del corpo; accessori ergonomici in grado di aiutare chi li indossa, non di ostacolarli. Partendo da questo pensiero, quando ho riflettuto su un oggetto comune come un occhiale, mi sono reso conto come Oakley abbia influenzato anche la filmografia, quantomeno negli Stati Uniti. In “Spy Kids” e in “Spy Kids 2”, gli Spy Glasses – indossati dal personaggio fittizio Juni Cortez – consentono di visualizzare mappe, ricordare informazioni riguardanti i nemici da sconfiggere e molto altro: hanno una vera e propria utilità, che Oakley ha spesso espresso a suo gusto e piacimento in un altro ambito, quello dello sport. Tutti conosciamo il modello Over The Top, no? Ho chiesto a Peter di raccontarmi tutto a riguardo.
«Innanzitutto, ti lascio una curiosità riguardante la storia di quel modello. Sono accreditato come designer nonostante Jim Jannard avesse già un accordo con Jeff Julian, un creativo molto talentuoso che lavorava all’epoca per Oakley. Jim si confrontò con me e mi riferì di aver cambiato idea: venni selezionato per lavorare al design degli Over The Top, e fui io stesso a comunicare questo cambio di rotta a Jeff, ma passiamo al sodo. L’ispirazione principale che si cela dietro il design degli OTT è la struttura del Time Bomb I, non so se la individuerete nell’immediato, ma la reference di partenza è quella. Quell’occhiale è molto importante per me, perché volevo… come si dice… ecco! Volevo flexare il fatto di aver portato a termine un design pazzo che mai nessuno si era immaginato prima, volevo dimostrare di essere coraggioso, ma come sempre, nel nome di Oakley».
Il modello Over The Top, indossato da Ato Boldon nella gara dei 100 metri piani alle Olimpiadi di Sydney del 2000, è uno dei design più bizzarri di sempre. Una montatura ad arco che avvolge perfettamente il cranio, proprio come se fosse un guanto. Ma mi sono sempre chiesto, chi mai indosserebbe un accessorio del genere ai Giochi Olimpici? Mi spiego, se io fossi un atleta lo farei, ma sono sempre stato pronto a pensare che gli atleti disposti a farlo siano in minoranza rispetto a chi rifiuterebbe categoricamente di indossare un paio di Over The Top.
«Hai mai indossato un Over The Top?».
Rispondo scuotendo la testa.
«Quando verrai in California te li farò provare! Sono un qualcosa di incredibile, puoi crederci. Gli atleti che li hanno indossati sono andati fuori di testa appena li hanno provati, pensavano di essere dei supereroi in quel momento! Quando li indossavano qualcosa di magico scaturiva in loro, era come se i corridori sapessero di essere più veloci con gli Over The Top. È un quid in più, per un campione, sapere che ciò che sta per indossare contribuisce a migliorare la sua performance».
Abbiamo parlato di orologi, film e sport: manca ancora qualcosa. Ah, sì. La moda. Stiamo vivendo un momento storico in cui la fashion industry è quotidianamente influenzata da accessori creati nel passato, spesso e volentieri appartenenti alla categoria sportswear. Su Twitter, innumerevoli account condividono alla velocità della luce immagini di prodotti d’archivio, come lo spammatissimo Nike Triax, un orologio sportivo dotato di cinturino gommato che fino a qualche tempo fa sarebbe stato considerato figo solo dagli appassionati del marchio, lo zoccolo duro, una delle tante dimostrazioni di come scavare nel passato stia passando dall’essere un feticcio appartenente a nicchie ristrette a un ingrediente fondamentale anche per i grandi marchi, come Balenciaga. Di recente ho indossato il mio paio personale di Oakley Eye Jacket Redux e una ragazza mi ha chiesto se fossero di Balenciaga. Sì, perché uno degli oggetti più desiderati sul mercato nell’ultimo periodo è proprio il modello Oval Swift firmato da Balenciaga, che, anche nel colore, ricorda palesemente l’Eye Jacket, un modello di certo non nato di recente. Gli chiedo quale fosse la sua posizione a riguardo.
«Ne ho due. Inizio da quella politically correct o da quella sincera? (ride, ndr) La prima è quella in cui vedo in queste “ispirazioni” un aspetto positivo, è un modo per omaggiare un oggetto storico, vediamola così. L’altra mia opinione ovviamente è opposta. Non capisco perché le persone non comprino la versione originale, quella disegnata da me! Ovviamente sono di parte, anche perché quello dell’Eye Jacket è un design tutto mio, l’ho immaginato quando avevo appena 26 anni, nel 1994. Si tratta del primo modello full frame di Oakley, ed è molto più di un semplice occhiale. L’arrivo dell’Eye Jacket segna un evento spartiacque nella storia di Oakley, è una testimonianza del mio passaggio nell’azienda, perché prima che ci fossi io le montature degli occhiali non avevano mai avuto linee curve, bensì solamente dritte. Il fatto è che le linee dritte erano lontanissime da quello che volevo evocare con questo modello: aerodinamicità, infatti mi sono ispirato alle auto da corsa, agli aeroplani e ai treni ad alta velocità».
All’inizio dell’intervista Peter ci aveva raccontato come da Oakley si respirasse aria di libertà, la stessa da cui lui ha attinto per permettere all’azienda di raggiungere risultati grandiosi. Avevo già letto delle info a riguardo, ma volevo che mi raccontasse in prima persona dell’ACR e del suo funzionamento, uno strumento pensato per far nascere le idee.
«L’ACR (Advanced Concept Review) è stato un mezzo di cui mi sono servito per stravolgere alcune dinamiche lavorative all’interno dell’azienda. Negli ultimi tempi mi ero accorto che l’apporto creativo che dava il mio team era in fase calante, quindi bisognava correre ai ripari. Finalmente riuscii a capire che la chiave per resettare la creatività del team fosse quella di fornire loro un ambiente favorevole, allora feci così: all’interno del reparto di design c’era una stanza, l’ho liberata da tutto quello che c’era al suo interno e l’ho fatta diventare uno spazio in cui avevano accesso solo ed esclusivamente i designer. L’entrata era vietata a chiunque ricoprisse un altro ruolo. Era un luogo magico in cui non era consentito l’utilizzo della parola “no”. Tutto era ammesso, come ad esempio discutere di idee apparentemente irraggiungibili, perché quello che volevo ottenere dal think tank che frequentava quella grande stanza erano design pazzi da realizzare nei prossimi cinque, dieci o quindici anni. Non volevo concept di occhiali da realizzare nell’immediato con linee classiche e noiose, avevamo tutti il compito di spingerci oltre. L’ACR diede i suoi frutti, è da quel gruppo di creativi che nacque il modello Jawbreaker».
Peter Yee ha lasciato un’impronta dalle dimensioni mastodontiche nel mondo del design, degli accessori, e ovviamente di Oakley, grazie a un approccio lavorativo fuori dal comune che ancora oggi mette in gioco.
«Ho bisogno di entrare in simbiosi con la persona o con la realtà per o con cui devo lavorare. Soprattutto ora che ho la mia piccola società di consulenza, PYD, sento che non posso non sviluppare un rapporto ancora più viscerale in quello che faccio: deve essere per forza così! Riesco a dare il meglio di me stesso soltanto se mi rendo conto di riuscire concretamente ad aiutare le persone, ed è quello che faccio ora, migliorare il business delle attività e delle aziende che si interfacciano con me e contano sulla mia esperienza, ma è anche quello che ho fatto con Oakley, un luogo che mi ha plasmato, ma che, con tutta onestà, anche io ho contribuito a influenzare».
Si è fatto tardi; è tempo di riaccompagnare Peter dove lo avevamo incontrato. Sua moglie, che nel frattempo si è tenuta occupata in una sessione di shopping, lo attende. Ci alziamo così dal tavolo numero 108 del locale in cui eravamo accomodati; quasi penso di portarmelo a casa come ricordo il biglietto 108 di quel tavolo, è da quel foglietto di carta che Peter – a microfoni spenti – aveva iniziato a raccontarci aneddoti che – posso scommetterci – difficilmente avrò l’opportunità di ascoltare nuovamente.
«Wow. 108. Una cifra che contiene il numero 8. È un numero di buon auspicio nella cultura cinese. E mi fa anche tornare in mente un momento importante della mia vita. Nel 1994 disegnai il modello E Wire e Jim Jannard me ne regalò un paio in tiratura limitata realizzato in oro 18 carati. C’erano 10 paia di quello speciale – e pesantissimo – E Wire, e io avevo proprio il numero 8. Un sacco di persone mi hanno fatto offerte, non l’ho mai venduto, così come non ho mai regalato occhiali o altri accessori a chi nel tempo ha provato ad approfittare del ruolo che ricoprivo… Ora però vi faccio vedere qualche video di pesca subacquea, da quando sono freelancer ho molto più tempo libero, guarda qui che pesce ho pescato!».