Pierfrancesco Favino ha fiducia nel futuro, non solo del cinema

Intervistare Pierfrancesco Favino è un’esperienza molto particolare, decisamente anomala. Parliamo di una persona pubblica molto trasversale che ha già preso parte a interviste di qualsiasi genere e nei contesti più vari, quindi porre domande particolari e fuori dall’ordinario non è così facile. Però Pierfrancesco Favino è anche una persona estremamente ricca di interessi, motivo per cui non risulta difficile dibattere con lui degli argomenti più disparati. Quando lo incontro stiamo camminando nella House of BMW, un particolare spazio in Via Montenapoleone 12 che dal 9 al 18 febbraio ha permesso a tutti di vivere un’esperienza che unisce creatività e tecnologia in occasione del lancio della nuova BMW iX2.

L’installazione di House of BMW è un’esperienza che tocca ciascuno dei 5 sensi umani. Proprio di questo iniziamo a parlare con Favino, del suo rapporto con i sensi, nel lavoro come attore e nella vita in generale. «Per un attore i sensi sono il primo strumento di conoscenza. Esistono degli esercizi che si chiamano sensoriali per aiutare la memoria ha creare delle immagini. Questo perché la memoria cerebrale talvolta registra un evento e, in alcuni casi, lo censura, specie se l’evento è luttuoso, difficile da affrontare. Ciò accade perché il tuo cervello non vuole che questo ti faccia così male come la prima volta. Gli esercizi sensoriali servono quindi a rimettere il corpo nella condizione di rivivere attraverso i sensi quell’evento, raggiungendo un’emozione la cui qualità sarà pressoché uguale a quella vissuta la prima volta». In queste parole di Pierfrancesco si capisce molto del suo approccio, non solo al lavoro, ma alla vita in generale. Dare priorità alle emozioni infatti fa comprendere un po’ di più la psiche di una persona che per professione deve fingere di essere qualcun altro. «Nel lavoro uso gli odori, i profumi, i suoni e ovviamente il tatto, la vista e il gusto perché i sensi sono una miniera infinita di ricordo e di esperienza. Lo faccio per immaginare. Viviamo in un’epoca in cui siamo abituati a dare alla realtà un ordine razionale. Tu puoi immaginare il piatto preferito della Monaca di Monza, così come ti puoi immaginare la pagina Instagram di Don Rodrigo. Nessuno ti vieta di farlo, ma la tua testa ti ferma perché ti dice che all’epoca questi elementi non esistevano. Ma che vuol dire? Se lo vuoi, c’è. Anzi, non solo c’è, ti aiuta anche a mettere in connessione il tuo mondo con la tua immaginazione. Secondo me, proprio l’immaginazione nasconde nei sensi la sua origine primaria. I sensi sono per me quindi uno strumento di lavoro ma anche di godimento della realtà quotidiana. Per quello che mi riguarda, io nasco con un senso spiccato dell’udito».

Rivivere le emozioni e farle diventare reali può portare a creare dei mondi paralleli che in alcuni casi non esistono, seppur l’immagine di Don Rodrigo che riflette indeciso su quale foto potrebbe creare più engagement non si toglie dalla mia testa. Portare le emozioni nel mondo della tangibilità ci può aiutare a idealizzare scene che sono solo parzialmente collegate alla nostra esperienza personale, distaccate dal passato tangibile, vicino però a livello emozionale. Favino, ad esempio, sente molto vicino il primo allunaggio, un evento incredibile che ha cambiato la storia del mondo e che è accaduto proprio nel 1969, anno di nascita dell’attore. «Io sono nato l’anno in cui s’è messo il piede sulla luna e, per motivi completamente insensati e fantasiosi, mi sento di appartenere a quel momento della storia. A me affascina moltissimo tutto quello che è lontano, tutto quello che ha bisogno della mia fantasia per essere concretizzato. Non parlo di lontano inteso come distante, ma di cose di cui non ho la percezione. A proposito di sensi, tu hai la percezione di alcune cose, della luce, per esempio. Hai la percezione della profondità del mare, dove non siamo ancora andati. Ecco, tra la fantasia e i sensi, a me piace stare nel mezzo». Sicuramente la fascinazione per la luna però va oltre i ragionamenti dell’attore, essendo un traguardo immaginario che da sempre ha colpito l’uomo, portandolo a idealizzarla tanto nella scienza quanto nell’arte. «Potrei stare ore a guardarla. Pensa anche all’Orlando Furioso, al Canto del Pastore Errante di Leopardi, a Blue Moon, a Verde Luna, a Viaggio nella Luna di Méliès, e a chissà quante altre canzoni e poesie. È un elemento contemporaneamente di sogno, di studio e di proiezione. Sento l’influenza della luna su di me. Io non dormo talvolta quando c’è la luna piena».

La luna è per lungo tempo stata la sfida più grande per l’essere umano. Così vicina e così lontana, al punto da essere diventata protagonista di una guerra tecnologica e ingegneristica internazionale. Raggiunto quel traguardo e con un progresso tecnologico sempre più veloce, non è strano domandarsi quale possa essere la nuova sfida dell’uomo. «Secondo me la prossima sfida sarà entrare in contatto con quelle realtà che consideriamo extraterrestri. Siamo soliti posizionare queste figure sempre nell’asse spaziale, ma se dovessimo ricercarli nell’asse temporale? Se contemporaneamente esistessero più spazi temporali? La fisica quantistica ci dice che è possibile. Io credo al fatto che possa esserci una compartecipazione temporale e spaziale, è qualcosa che mi intriga un sacco». Peraltro, a collegarsi con le parole di Favino c’è il fatto per cui il cinema è storicamente affascinato da questi ragionamenti: «la persona che ci sta più in fissa è Nolan: tutta la sua cinematografia si focalizza sul rapporto tra spazio e tempo, da Memento a Oppenheimer. Il rapporto spazio-tempo è il rapporto della modernità: per questo il lavoro di Nolan ha successo. Il videogioco invece è il mezzo che più di tutti ha trattato questo tema e lo esprime al meglio».

Il discorso è ormai decollato, forse anche deragliato, ma Pierfrancesco è una persona davvero appassionata, in grado di empatizzare con i propri interlocutori trasformando ogni insieme di persone in un salotto, arrivando a parlare di argomenti che non avrei mai dato per scontato toccare: «pensiamo quindi a come si sviluppa la ricerca tecnologica di oggi. Anche l’emozione e l’interesse legato al metaverso lo testimonia: cos’era se non costruzione di uno spazio altro in un tempo altro? Per questo anche il nuovo utilizzo dei visori sarà fondamentale in quanto sinonimo di condivisione di uno spazio altro con il tuo». Ma come queste scoperte impattano sul mondo del cinema contemporaneo e futuro? «Ci ho riflettuto molto, perché ogni nuova tecnologia altera un ambiente lavorativo. Non penso però che un singolo device, ad esempio un visore, vada a fare individualmente la rivoluzione, ci dev’essere un intero sistema messo in relazione a una determinata scoperta». L’uso delle AI ha fatto storcere molti nasi nel mondo della creatività: c’è chi pensa che queste sostituiranno molti artisti e creativi, mentre altri per cui le AI non sono se non mere imitazioni senza cuore o passione. Fu il fotografo Tim Walker a dire “Devi alzare l’asticella. Regalati una sfida” e non c’è competizione che tenga. «Chiaro che è facile da dire se sei già affermato. Infatti non credo che il “problema” delle intelligenze artificiali si direzionerà nell’alterare il gesto del creatore, quanto più che altro il committente, sta a lui comprendere il valore nell’arte della persona. Io sono appassionato di tecnologia, non sono un catastrofista: se dico quello che dico è perché evidentemente appartengo a un mondo che mi ha insegnato che l’occhio umano e il mistero che c’è dietro di esso siano difficilmente replicabili». L’esempio che Favino fa per spiegare questo concetto della delicatezza dell’occhio umano mi colpisce particolarmente: «guardando il volto di un uomo morto, ci rendiamo conto che non è più con noi. Non vediamo solo una faccia, ci rendiamo conto che quella persona non è più presente, solo dal colpo d’occhio. C’è qualcosa che ce lo fa percepire, che siano quei famosi 21 grammi o altro». Questa frase mi fa riflettere molto sulla delicatezza dell’uomo, sul suo modo di ragionare e sul suo aspetto emotivo, palesando una connessione eterna tra psiche e corpo che rende l’essere umano così forte e al contempo fragile, oltre che certamente unico, affascinante e immensamente complesso. «Confido che ci sia qualcosa di irreplicabile nell’essere umano. Certo è che l’uomo è l’unico essere vivente a credere in ciò che non vede, facendone talvolta un utilizzo assurdo. C’è gente che fa guerre per concetti totalmente immaginari in cui crediamo ciecamente. Come il denaro: non esiste in natura, ce lo siamo inventati noi, rendendolo reale con l’abitudine». Le parole di Favino sono oltremodo attuali, specchio di una contemporaneità che sempre più, spinta dai fatti attuali, si sta domandando (o quantomeno dovrebbe domandarsi) quanto in là è lecito spingersi per le nostre credenze, se c’è davvero un limite che la razionalità dovrebbe riconoscere e impedire di farci oltrepassare.

«Noi siamo capaci di creare quello che non esiste. Io non so se l’intelligenza artificiale sarà capace di inventare ciò che non esiste. Al momento non credo. Forse domani sì. Va detto che tutte le tecnologie all’inizio spaventano perché cambiano le abitudini e inizialmente tolgono lavoro, ma è anche vero che successivamente ne hanno inventati di più di quanti non ne abbiano aboliti. La stessa cosa varrà anche per le intelligenze artificiali. A mio avviso, per paradosso, sempre più aziende avranno bisogno di un filosofo o di uno psicologo per misurare la condizione umana in convivenza con le suddette». E ciò come toccherà il cinema? «Beh, il discorso che ti facevo sull’occhio umano lo applico anche qui. Non credo infatti che l’avere la mia voce tradotta contemporaneamente in cinese e in altre lingue risolva qualcosa se non l’aspetto della comprensione linguistica. La comunicazione non ha a che fare solo con il significato della parola, ma più che altro col respiro, con la presenza, con l’intenzionalità, tutti elementi che cambiano a seconda della lingua in oggetto. Sono cose che già variano tra l’inglese britannico e quello americano, figuriamoci tra giapponese e tedesco. La cultura non è solo lingua, anzi questa ne è solo l’espressione finale. Alla fine è lo stesso tradimento che ha fatto il doppiaggio». Le parole dell’attore romano colpiscono per il loro essere tanto istintive quanto pesate: le risposte a tutte le domande che gli vengono poste sono immediate, sincere e trasparenti, tipiche di una conversazione naturale, ma al tempo stesso si nota che sono state a lungo ragionate, espresse da chi su queste dinamiche ha pensato in quanto sinceramente appassionato di nuove tecnologie. E allora risulta ancora più interessante capire come si pone un addetto ai lavori nei confronti del recente boom di contenuti cinematografici in tecnica tradizionale e in pellicola. «Sono tornati, un po’ come il vinile nella musica. È anche un po’ cool, per certi versi. Trovo sia importante perché ha a che fare con l’educazione. Come nella musica, ascoltare un disco per bene, senza una determinata compressione audio, ti aiuta a scoprire quello che non sei abituato a sentire. E da questo punto di vista i giovani sono fondamentali: so che mia figlia di 17 anni mi chiede se ho una macchina fotografica reflex perché fa figo, però è meglio che faccia figo una roba del genere rispetto a molto altro». 

Ormai la conversazione è passata dall’avere toni formali a focalizzarsi su temi filosofici, per poi virare su dinamiche tipicamente da bar in cui è normale saltare di palo in frasca, da un tema all’altro, senza troppe remore. «Sono appassionato di tecnologia a 360°, ma in generale tutto ciò che riguarda il mondo video mi intriga da morire. In primis perché col digitale c’è stata una rivoluzione in termini di accessibilità e possibilità. Uscito da scuola, io non avrei mai pensato di poter fare un film, mentre oggi col telefono puoi fare quello che ti pare». In questa frase, vanno estrapolate e lette co particolare attenzione alcune cose tra quelle dette da Favino: “uscito da scuola”. Proprio il concetto dell’educazione diventa centrale, nonché un perfetto corollario di questa conversazione: «Una cosa mi sembra assurda: noi tutti oggi viviamo di contenuti video ma non di grammatica del cinema e del videomaking. Perché nonostante tutti questi contenuti, il numero di registi o filmmaker non sta moltiplicando rispetto a prima, è un concetto di educazione. Banalmente, perché io a scuola non posso dire “bene ragazzi, adesso parliamo della Monaca di Monza, mentre domani, come compito, mi dovete realizzare la sua pagina Instagram”?», o comunque parlare di determinati elementi che incrocino la cultura tradizionale italiana con le nuove tecnologie che, a quanto pare, continuiamo a vedere solo da lontano o come elemento di disturbo, non come alleato.

Il cinema vive uno stato particolare: ora sembra tornato in auge, tra sale piene, grande interesse per le nuove uscite e una serie di giovani protagonisti sempre più sulla bocca di tutti. D’altra parte, il cinema italiano fa fatica, perché tra il 2010 e il 2020 sono state chiuse tantissime sale e, durante le prime ondate di Covid, abbiamo temuto di perderne molte altre: «Non sono mai stato negativo, non ho mai pensato che la gente non sarebbe più tornata al cinema. Anzi, a un certo punto, durante la pandemia, mi sono proprio imposto di non chiedere più alle persone di tornare al cinema, come hanno fatto altri, in primis perché credo sia una roba tremenda, ma soprattutto perché le persone non hanno voglia di andare a fare qualcosa che non considerano figo. E infatti cosa è successo? La gente è tornata in sala quando ha smesso di sentirsi dire di doverlo fare. Poi è vero che sono usciti film di grande interesse e le sale si sono rinnovate». Ma a quanto pare c’è dell’altro: si sta sviluppando anche una delicatezza diversa. Banalmente, i giovani sembrano essere interessati a vedere i film in pellicola o con un audio particolarmente ricercato. «Questa è una cosa bella. L’anno scorso, per L’ultima notte di Amore, abbiamo comunicato l’uso della pellicola. Non per fare i fighi, ma perché c’è una differenza. Ecco, fortunatamente questa cosa inizia a essere compresa, specie dai giovani. D’altronde sembra esserci una preclusione mentale verso un certo tipo di “parlare di cinema” da parte di alcune generazioni. Io faccio promozione molto volentieri, ma è indubbio che io abbia molta più libertà di parlare di cinema coreano insieme a un ragazzo su YouTube piuttosto che sulla Rai o su un’altra televisione. Questo però mi ha fatto comprendere l’esistenza di un pubblico giovane che sa e che vuole sapere». Lo stesso pubblico che sta affollando i cinema per film che sono sì molto acclamati dalla critica, ma sono anche quelli che storicamente definiremmo “di nicchia”, oltre che riprodotti in lingua originale: «Perfect Days ad esempio è un film che devi vedere al cinema e che ha avuto un successo strepitoso ma che non è stato comunicato molto. Lo puoi dire anche di quello di Miyazaki. Forse nemmeno Poor Things, almeno rispetto agli standard del passato. Penso che, come non mai, siamo in un momento in cui la gente va al cinema per vedere quello che vuole, non quello che gli viene detto. Hai voglia di esprimere il tuo gusto nella scelta». Quindi secondo Pierfrancesco Favino l’uomo del futuro non è più quello dell’allunaggio, anzi non sappiamo se sarà identificato da una grande scoperta scientifica o avvenimento di quella portata, ma di certo è una figura consapevole, autonoma e capace (si spera) di pensare con la propria testa in mezzo a una miriade di input digitali, senza però perdere quella delicatezza che lo ha sempre reso speciale. 

Foto su concessione di
BMW