C’è qualcosa di paradossalmente terrestre nel modo in cui Pietro Ruffo guarda il cielo. Le sue mappe non servono a orientarsi, ma a smarrirsi. Le sue costellazioni non sono strumenti per leggere un destino, ma sistemi frammentati che riflettono un presente in cui le coordinate – culturali, spaziali, simboliche – non tengono più.
Succede all’art’otel di Roma, primo hotel italiano del brand internazionale Radisson che fonde ospitalità e arte in un’esperienza immersiva. Nel cuore del Rione Sallustiano, a pochi passi da via Veneto, Ruffo firma Segni invisibili tra cielo e terra, una mostra site-specific che abita ogni spazio dell’hotel, trasformandolo in un organismo sensibile, attraversato da immagini e tensioni.



Non è una mostra da guardare soltanto: è un ambiente da abitare, un paesaggio mentale da percorrere. Le opere di Ruffo, disseminate tra reception, corridoi, terrazze e camere, disegnano una topografia ibrida che mette in crisi la separazione tra alto e basso, visibile e invisibile, spazio fisico e immaginario.
Una grande mappa celeste incisa sul granito accoglie i visitatori all’ingresso e dialoga con una pianta storica di Roma stampata su carta: il cielo e la città, anziché sovrapporsi, si confondono. Nei piani dell’hotel, la moquette riproduce un cielo notturno, mentre tappeti a forma di costellazione invitano a spostare lo sguardo sotto i piedi. Le stelle, letteralmente, si rovesciano.
Ruffo lavora da tempo con la cartografia come dispositivo critico. Architetto di formazione, è affascinato dalle geometrie, dai sistemi di potere che regolano lo spazio, dalle forze invisibili — politiche, ecologiche, storiche — che attraversano i territori. In questo progetto, la sua pratica si espande: non si limita a rappresentare mappe, ma costruisce ambienti che ci chiedono di ripensare il nostro modo di stare nel mondo.

Nella video-installazione Giardino Planetario, realizzata con lo studio creativo Noruwei, confluiscono elementi botanici, geopolitici, astronomici. Nessuna gerarchia, nessuna narrazione centrale. Solo un montaggio fluido di immagini e suoni, un campo di attrazioni e repulsioni in cui lo spettatore è chiamato a muoversi senza guida. Il giardino diventa una mappa vivente, rizomatica, in cui i confini si dissolvono e ogni percorso è potenzialmente generativo.
Anche il linguaggio visivo di Ruffo rifugge l’ordine. Le sue costellazioni non organizzano, ma disarticolano. I punti non si uniscono: si moltiplicano, si distanziano, si svuotano di funzione. La forma si fa fragile, incerta, come il presente che cerca di rappresentare. In questo senso, Segni invisibili è un esercizio di perdita dell’orientamento, ma anche un invito a ritrovare uno sguardo più percettivo, meno strumentale. Non c’è un messaggio da decifrare, ma una tensione da attraversare.
L’hotel stesso si fa parte del progetto, non come contenitore neutro, ma come corpo vivo. I materiali, le superfici, le decorazioni diventano veicoli di immagini e concetti: dalle maioliche della terrazza alle serigrafie sulle vetrate delle docce, ogni dettaglio è pensato per destabilizzare la percezione e alterare l’equilibrio. È un ambiente che che stimola, è un paesaggio interiore costruito nello spazio pubblico dell’ospitalità.



Con questa mostra, Ruffo inaugura anche il programma art’beat, curando direttamente una linea culturale che coinvolgerà artisti e performer italiani e internazionali. La galleria dell’hotel ospiterà mostre temporanee, concerti, talk e performance. L’arte, qui, non è separata dal quotidiano: si infiltra nei gesti ordinari, nelle transizioni, nei passaggi.
In un tempo in cui chiediamo continuamente direzioni, Ruffo fa l’opposto: costruisce spazi in cui perdersi. Ci invita a guardare il cielo non per cercare risposte, ma per allenarci al dubbio. E forse anche a riscoprire la possibilità del disorientamento come atto creativo.