Le politiche di reso – specialmente per quanto riguarda il fast fashion – hanno sempre funzionato da vero e proprio cavallo di battaglia: Zara, Bershka e simili, ma anche H&M, grazie a queste ultime, hanno costruito un flusso di mercato senza alcun precedente. È chiaro che, soprattutto durante la pandemia, questi brand hanno dovuto far leva su alcuni punti di forza relativi alle vendite online per sopravvivere a un imprevisto di portata globale. Ed è esattamente così che hanno preso piede enormi problemi logistici, dalle supply chain intasate, ai tempi d’attesa più lunghi per le consegne, che hanno fatto pensar bene ai suddetti brand, e a tutto il gruppo Inditex, di modificare la politica dei propri resi.
Alcuni gruppi e brand di fast fashion come Uniqlo hanno da tempo introdotto il reso a pagamento, mentre Zalando e Asos già nel 2019 hanno imposto una quota minima per l’acquisto sugli e-commerce. Anche nel caso di questi ultimi – però – le decisioni prese hanno destato un po’ di confusione agli occhi dei clienti. Infatti, nonostante Zalando e Asos abbiano optato per la quota minima d’acquisto, hanno comunque deciso di lasciare il reso esteso a novanta giorni dalla consegna al cliente. Le seguenti scelte corporate hanno fatto diventare queste piattaforme online – per molti utenti – un vero e proprio camerino a domicilio, complice la comodità nella restituzione della merce.
Ed è proprio seguendo questa timeline di eventi che si è arrivati all’ufficialità di Zara: il brand di proprietà di Amancio Ortega ha imposto il pagamento ogniqualvolta viene effettuato un reso. L’importo in questione ammonta a €4.95, e potrebbe aumentare qualora non fosse sufficiente per placare gli sfrenati resi che vengono effettuati quotidianamente. Inoltre, stando ai dati di ReBound, negli acquisti online un articolo su tre viene restituito. Sempre nel mondo dell’online, le notizie che arrivano da Amazon non sono altrettanto confortanti: nel periodo di Natale il 17% degli ordini sono stati resi. Dati, numeri, percentuali aprono l’ennesimo dilemma nel mondo del retail Business to Consumer, con delle falle nel sistema che sembrano emergere una dopo l’altra. Specialmente nel mondo del fast fashion – infatti – gli ultimi anni (già prima della pandemia) hanno generato moltissimi argomenti di discussione: Primark ha accumulato in store 1.7 miliardi di euro di merce invenduta, diventando un vero e proprio caso studio.
Il lato fisico degli store è in grande difficoltà, è vero, ma la questione resi di Zara ci testimonia inoltre come l’online non sia una comfort zone che può ovviare alle problematiche appartenenti al brick & mortar. Al contempo, Zara potrebbe funzionare da Trendsetter, generando un vero e proprio effetto domino. La mossa è senz’altro audace, con il colosso spagnolo che andrebbe letteralmente ad abbattere l’appeal della convenienza dei propri acquisti online. È impossibile anche sbilanciarsi su come queste decisioni impatteranno sui propri store fisici: Zara dispone (quasi) esclusivamente di store localizzati nei centri delle grandi città, diventando a tutti gli effetti poco accessibile a livello di offerta.
Se da un lato la vicenda di Zara è in grado di farci notare come in alcuni casi store fisici e digitali debbano necessariamente coesistere in maniera equilibrata, dall’altro è anche difficile calibrare un discorso incentrato sulla sostenibilità. Zara – infatti – potrebbe aver trovato nient’altro che un escamotage per svincolarsi dalla dinamica arzigogolata del discorso supply chain, e tutte le complicazioni logistiche che la riguardano; al contempo, però, esponendo a tutti gli effetti una vera e propria facciata green, basata principalmente sulla riduzione dell’inquinamento.