
Chicago, Illinois. Polo G è cresciuto nella città del vento, dove “you bound to the coldest shit” – dice in “Epidemic” – e non possiamo certo dargli torto. Quando guardiamo a Chicago dobbiamo prendere in considerazione tanti volti, aspetti, circostanze; è una città fantastica, finché non si finisce nel quartiere sbagliato al momento sbagliato. Polo G si è trovato diverse volte in queste situazioni, ma è sempre riuscito a tornare a casa sulle sue gambe – oppure portato dritto in prigione, ma pur sempre vivo. Gli amici che lo hanno lasciato, purtroppo, sono invece molti – “I’m so sick of farewells and RIP’s” dice ancora in “Epidemic“ -, tutti giovanissimi. Chi per droga, chi per colpi di arma da fuoco. Polo G ci tiene ad essere la loro voce, il prescelto – come più volte si è definito – perché “per qualche ragione, avevo gli angeli che mi guardavano o mi proteggevano”.
Quando vivi a Chicago, in particolare a Old Town, la vita è speranza e il successo è volontà, fiducia. Una fiducia che Polo G ha sempre stretto tra i denti fino a farla scoppiare nei suoi racconti. Il volto che ci mostra, però, non è quello della South Side di Chief Keef, G viene dal North Side, cresciuto in uno di quei project development che negli anni si sono dimostrati un totale fallimento: il Marshall Field Garden era il complesso residenziale in cui viveva con la sua (numerosa) famiglia, affiancato dal Cabrini-Green Homes – più volte nominato dallo stesso rapper – che è stato uno dei peggiori luoghi di criminalità, prima di essere demolito definitivamente 10 anni fa.
I’m from the North Side. They call my block Sed. The red buildings, that’s the Cabrini Green. That’s the worst project ever in Chicago. It was real known. It was a mixture of damn near every gang in Chicago, and broken up in buildings.
Polo G
Polo G ha solo 22 anni, vive con l’ansia assordante, cresce un figlio lontano da quei quartieri in cui il razzismo è asfissiante – come ha raccontato in “Relentless” – ma pian piano sta prendendo coscienza di sé. Dall’altro lato della medaglia, quello che brilla ai nostri occhi, c’è invece il contratto con la Columbia Records a 19 anni, i featuring da paura che lo accompagnano fin dal suo primo disco e la nomina su Forbes under 30 per gli artisti più promettenti del 2021. Viene da sé la sua scelta di intitolare il disco appena uscito “Hall Of Fame”, nonostante la sua carriera sia appena iniziata. Polo G vuole dimostrare alle sue strade di essere una leggenda, e non per sé stesso, bensì per far capire che chiunque da quei quartieri può uscirci a testa alta.
“Stay down ‘til you come up” è una frase che il rapper ci ripete dal 2018, quando in “Gang With Me” ci raccontava il modo in cui aveva intenzione di arricchire lui e la sua gang. Siamo nel 2021 e con 100 mila dollari di collane al collo Polo G ce lo ripropone in “RAPSTAR”, consapevole di essere rimasto fedele alla sua parola. Il rapper ha sempre fatto pochi passi ma buoni, ogni disco è un macigno che segna la strada – e la storia – e non sarà certo sovrastato dal successivo. Le motivazioni di questo successo sono molteplici, ma la prima che ci viene in mente è che Polo G ha la testa sulle spalle e la determinazione dalla sua. Sa cosa vuole, sa cosa cerca e sa quali sono le basi solide di principi su cui poggia i piedi, forse proprio gli stessi che gli hanno permesso di trovare una via di uscita dalla sua Chiraq.
Da dove derivano, ci è chiaro: la sua famiglia e i suoi idoli. Al contrario di quanto spesso sentiamo raccontare dai suoi colleghi, Polo G ha avuto una famiglia presente: padre, madre, un fratello e due sorelle – le cui voci abbiamo sentito ogni tanto in qualche outro. “Mio padre era grande fan di Pac”, dirà G, e dopo aver ascoltato la sua musica ha capito cosa c’era oltre le parole. I fatti. Una persona concreta dalla personalità forte, che credeva nella possibilità di poter cambiare ciò che non andava. È su questo stampo che Polo G è cresciuto, e non solo. Sul suo braccio sinistro si è tatuato diversi volti – quasi a volersi fare il suo personalissimo Monte Rushmore – e affiancati a Tupac troviamo Nipsey Hussle, Malcom X e Nat Turner.
Quello del tributo e del rispetto è sempre stato un punto fisso per Polo G. Lo stesso shooting che ha accompagnato l’uscita di “Hall Of Fame” è un riferimento agli iconici scatti di Michael Jordan. Sulla sua mano, però, scolpiti su quelli che alludono agli anelli commemorativi distribuiti alle cerimonie dell’NBA, Polo G porta le sue tre opere, tre figli: “Die A Legend”, “The Goat” e “Hall Of Fame”, progetti che gli hanno permesso di essere qui e ora, così come lo conosciamo, già pronto ad entrare nel prestigioso salone della fama dell’hip hop.
All’interno della cover troviamo altri riferimenti al bagaglio di esperienze che Polo G porta sempre con sé. I suoi dischi, i platini ottenuti nel 2020, ma anche il quartiere, ancora, perché quella collana con il “1300” di diamanti fa riferimento al suo blocco situato in Cabrini-Green. È un altro degli aspetti a cui il rapper ha sempre fatto attenzione: se guardiamo attentamente le sue cover troviamo sempre i punti fissi che collegano la sua storia.
Ancora una volta, quella che sembra essere un’autoproclamazione si dimostra una scelta necessaria che si rispecchia alla perfezione in quello che è il suo secondo nome d’arte, Capalot, che nello slang di Chicago viene utilizzato per descrivere colui che difende ciò in cui crede. E Polo G ci crede alla grande. I passi avanti, nel suo percorso – non solo artistico, ma anche e soprattutto personale – si notano. Se in “Die A Legend” raccontava come avrebbe portato la sua cerchia al successo e in “The Goat” stava imparando a conoscersi come singolo, in “Hall Of Fame” Polo G sembra essere abbastanza sicuro di quelli che sono i suoi sentimenti, li riconosce, chiama le cose per nome. E accanto a una dedica per la madre di suo figlio (che troviamo in “So Real“), Polo G ricorda l’importanza della salute mentale – come detto in passato “non ho affatto paura perché so che sto solo cercando di aumentare la consapevolezza su ciò che sta succedendo nel mondo e sulle esperienze di vita reale”, Taurus Tremani, questo il suo nome, è giovane e sa quanto i giovani possono sentirsi soli di fronte a emozioni di cui nessuno parla.
Il rapper affronta ancora una volta il tema della violenza delle gang (come in “Bloody Canvas” o “GNF (OKOKOK)“) e del razzismo sistematico e probabilmente continuerà a farlo finché avrà voce, perché vederne la fine, in America, è complicato. Proprio sabato scorso, alla fine del release party di “Hall Of Fame” a Miami, Polo G è stato nuovamente arrestato dalla polizia e sulla sua testa gravano ben 5 capi d’accusa. Avere così tanti soldi per un ragazzo di colore è paradossalmente pericoloso, “non si aspettano che entri in banca e prelevi $100.000, o che io sia in un ristorante a 5 stelle dove molte delle persone sedute qui non mi assomigliano. Senti sempre tensione razziale o ti senti un estraneo”, disse lo scorso anno dopo l’uscita di “The Goat”. È quasi buffo, ma fa pensare: uno dei suoi primi singoli di successo, “Finer Things“, lo ha scritto all’interno del carcere minorile della Contea di Cook. Adesso, all’uscita del suo terzo disco, il rapper si è trovato nuovamente dentro. Non più nella Contea di Cook, questa volta a Miami, ma pur sempre dentro. Quanto sono realmente cambiate le cose da allora? Nella società poco, nella sua vita molto. Seguendo il suo flusso di pensieri possiamo star certi che adesso Polo G abbia tutte le capacità per affrontare l’ennesimo ostacolo e raccontarcelo con il doppio della foga nel prossimo disco. Come dice in “Fame & Riches“: “Been drownin’ in my sorrows, but hopefully I’ll be fine by tomorrow / In my feelings in this Wraith ‘cause that’s where stars cope”.