Prima del metaverso: top e flop dell’incontro tra moda e tecnologia

Metaverso, realtà virtuale, intelligenza artificiale: negli ultimi mesi le novità riguardanti il mondo della tecnologia sono state tantissime e insistenti. Grazie a rapidi progressi nel settore e un interesse sempre maggiore da parte di pubblico e aziende, le invenzioni che sembra verranno introdotte nelle nostre vite sono incredibili e distopiche. Quel futuro da film fantascientifico, fatto di macchine volanti, simulatori e robot parlanti, sembra essere sempre più vicino e la sfera del fashion dà l’impressione di non voler rimanere indietro. Dall’ultima campagna pubblicitaria di Balenciaga per la collezione PE 2022 (nella quale modelli e modelle sono stati trasformati in umanoidi con maschere futuristiche e arti meccanici) allo showroom virtuale di Balmain (con uno speciale avatar del direttore creativo Olivier Rousteing che guida gli “ospiti” alla scoperta delle collezioni), tantissimi marchi si stanno approcciando a un nuovo modo di “fare moda”, sfruttando le potenzialità del digitale e dando vita ai risultati più disparati. 

Se l’avvento di una realtà virtuale accessibile a tutti come il metaverso potrebbe aprire nuove porte per il settore del fashion, il binomio moda-tecnologia non è di certo una novità. Specialmente a cavallo del nuovo millennio, infatti, diversi designer esplorarono le infinite possibilità che l’industria digitale poteva offrire creando momenti di grande spettacolo e avanguardia. Allo stesso tempo, l’unione dei due mondi ha anche portato a tentativi meno interessanti, forzati o addirittura fallimentari. 

Scopriamo insieme alcuni dei risultati migliori e peggiori dell’incontro tra fashion e tecnologia. 

Alexander McQueen – S/S 1999


Nell’ormai lontano 1998 i social media erano ancora all’orizzonte e il futuro che l’umanità immaginava era quello dei trench in pelle di Matrix o dei replicanti di Blade Runner.

In un dismesso deposito di autobus della periferia di Londra, un giovane designer inglese era pronto a scrivere la storia della moda con la presentazione della sua collezione Primavera/Estate 1999 ispirata al movimento artistico Arts and Crafts. Il ragazzo in questione era Alexander McQueen e la collezione era intitolata “No. 13”. Le protesi in legno decorato indossate dall’atleta paralimpica Aimee Mullins e le silhouette con bustini in cuoio e pizzo erano bastate per mandare in estasi il pubblico presente, ma il meglio doveva ancora arrivare. Per l’ultima uscita della sfilata, la modella Shalom Harlow raggiunse il centro della scena e, su una pedana girevole, iniziò a roteare mentre due bracci meccanici si muovevano di fianco a lei come in una danza. I movimenti dei robot però divennero sempre più violenti, fino a sembrare in procinto di aggredire la modella, per poi improvvisamente sparare vernice sul suo voluminoso vestito bianco. 

La sfilata si trasformò così in un’innovativa performance artistica che diede vita a numerose speculazioni riguardo al suo significato, ma che gettò anche le prime basi per la discussione sul rapporto tra macchine e uomo nella moda. 

Iris Van Herpen – A/I 2011 Couture

Tra i designer che meglio sono stati in grado di sintetizzare il rapporto tra moda e scienza, un posto d’onore spetta sicuramente a Iris Van Herpen. Le creazioni della stilista olandese vanno oltre il tradizionale concetto di abbigliamento poiché uniscono abilità e processi artigianali ad avanzate tecniche digitali, come la stampa 3-D. Nell’immaginario sovrannaturale e fantastico di Iris Van Herpen, infatti, ispirazioni legate al mondo naturale e alla tecnologia si fondono per realizzare strutture e geometrie estremamente complesse, impossibili da realizzare con tessuti tradizionali. Il risultato sono creazioni di alta moda e di grande tecnica ingegneristica che si avvicinano più a opere d’arte che a capi da negozio.

Se più recentemente sulle passerelle di Iris abbiamo visto abiti rotanti (A/I 2019) e operazioni di stampaggio direttamente sul corpo della modella (P/E 2016), la collezione Couture Autunno/Inverno 2011 rimane una delle più rappresentative del suo stile. Tutte le creazioni colpiscono ancora oggi per forme inusuali e metodi di realizzazione che trasformano stoffe in architetture al limite del reale. Tra le numerose novità presenti nella collezione, come per esempio il finto schizzo d’acqua realizzato in pvc, ce n’è una davvero speciale, ossia il “bone-dress”, che venne progettato insieme all’architetto Isaïe Bloch e costruito interamente tramite stampa 3D. Se consideriamo l’anno in cui venne realizzato, l’abito rappresentava un’impresa mai vista prima, tanto da diventare una delle opere di punta della mostra “manus x machina: fashion in age of technology” organizzata dal MET di New York nel 2016. 


Hussein Chalayan – A/I 2011

Un altro designer che ha fatto della sperimentazione e dell’avanguardia i suoi segni distintivi è Hussein Chalayan. Oltre all’indimenticabile gonna che si trasforma in tavolino da caffè (A/I 2000) e soprabiti in carta che si scioglievano sotto l’acqua per rivelare abiti da sera ricamati con Swarovski (P/E 2016), negli anni lo stilista cipriota ha ben sfruttato anche le risorse che la tecnologia offriva per arricchire la sua arte di un nuovo significato. Da questa interazione nacquero vestiti meccanizzati che si aprivano a rivelare strati di tulle (P/E 2000), indumenti rivestiti di 15 mila luci led (A/I 2007) o raggi laser (P/E 2008) ma anche occhiali, realizzati in collaborazione con Intel, in grado di fornire dati biometrici (come il battito cardiaco, attività celebrale e respiro) tramite diversi sensori. L’apice di questa ricerca arrivò però con il “Floating Dress” della collezione Autunno/Inverno 2011 intitolata “Kaikoku” (“paese libero” in Giapponese), un tributo al lato più sperimentale della tradizione orientale. La particolarità dell’abito, realizzato in resina di poliestere e fibre di vetro, era quella di essere completamente motorizzato e manovrabile tramite un telecomando. Grazie a questa tecnologia, il vestito poteva muoversi in autonomia (da qui il nome “vestito galleggiante”) e liberare in aria le decorazioni di Swarovski, come fosse polline, per rappresentare l’idea di un “nuovo inizio”, di un viaggio. 


Levi’s e Jacquard by Google

Anche lontano dai riflettori delle fashion week, grandi brand lifestyle e piccole start-up hanno spesso provato a contaminare il mondo della moda con l’aspetto funzionale della tecnologia, in maniera meno concettuale e più pratica rispetto ai designer citati. I tentativi di realizzare “smartwear” però, ovvero piccoli device elettronici incorporati a capi d’abbigliamento, si sono spesso rivelati più ambiziosi del previsto.

Uno degli esempi più conosciuti riguarda la tecnologia “Jacquard”, sviluppata da Google nel 2015, che permetteva di inserire fili conduttori all’interno della trama dei tessuti, in modo da trasformarli in una sorta di schermo touchscreen. Il primo prodotto che venne sviluppato con questo innovativo sistema fu una trucker jacket in collaborazione con Levi’s, con lo scopo di permettere ai ciclisti di “navigare e gestire altri compiti senza mai distogliere lo sguardo dalla strada”. La giacca, infatti, era dotata di un piccolo dispositivo bluetooth inserito nel polsino che, una volta connesso al telefono, permetteva a chi la indossava di gestire la riproduzione musicale, rispondere alle telefonate o utilizzare le mappe di navigazione, il tutto tramite cinque semplici gesti della mano. 

Nonostante l’idea rivoluzionaria e il fine estremamente pratico, il pubblico non sembrò apprezzare: sia i prodotti (venduti intorno ai $350) sia la tecnologia in sé non ottennero la risonanza sperata e vennero presto dimenticati, senza mai essere riproposti in nuove versioni. 


Sony Reon Pocket

Nel 2019 fu la volta di Sony di intraprendere la strada del “wearable-tech” con il suo innovativo “Reon Pocket”, un condizionatore portatile per alzare o abbassare la temperatura corporea. Il dispositivo, dotato di un semiconduttore che consente di convertire l’energia elettrica in energia termica regolabile attraverso un’app, era in grado di abbassare la temperatura di 13 gradi e fu sviluppato insieme a una maglia intima dotata di una piccola tasca in cui inserirlo. L’idea venne lanciata sulla piattaforma di crowdfunding “First Flight” e ottenne un successo tale, specialmente sui social, da far partire una prima produzione. 

Alcuni mesi fa è stata addirittura presentata una seconda versione dell’accessorio, il “Reon Pocket 2”, con prestazioni ed efficienza migliorate, insieme a una nuova linea di abbigliamento in collaborazione con brand come Le Coq Sportif e Munsingwear. Nonostante l’enfasi iniziale del pubblico, il prodotto è tuttora venduto solo in Giappone (alla cifra di circa 114€) e anche questa volta il successo mediatico ottenuto in un primo momento, che decretò l’oggetto come un nuovo “salvavita”, non rispecchiò le vendite effettive. 


Ray-Ban Stories



Il caso più lampante e più fallimentare di tecnologia-fashion è forse quello degli “smart-glasses”, non tanto per le funzionalità o l’estetica quanto per i risvolti legali che hanno causato. In principio furono i Google Glass nel 2013, per poi essere seguiti dai Snapchat Spectacles nel 2016 e da tante altre versioni. Ora è il turno dei Ray-Ban Stories, realizzati in collaborazione con Facebook. Disponibili in tre modelli differenti, gli occhiali con controllo touch sono in grado di scattare foto e registrare video grazie a una piccola fotocamera inserita nel frontale dell’occhiale, ma permettono anche di ascoltare musica e utilizzare comandi vocali grazie agli altoparlanti interni alle aste. 

Ancora prima di essere lanciati sul mercato, però, gli occhiali sono stati al centro di numerose polemiche riguardanti la privacy e, nonostante sia presente un led che si illumina di bianco se il dispositivo sta registrando, il Garante per la protezione dei dati personali ha deciso di chiedere chiarimenti a Facebook circa “la raccolta dei dati e la tutela delle persone occasionalmente riprese”. Come nel caso dei Google Glasses (che vennero ovviamente banditi da tutti i luoghi in cui di norma è vietato fare foto e video), i Ray-Ban Stories sembrano quindi destinati a finire nel dimenticatoio degli accessori “smart”. Se consideriamo poi gli scandali legati a Facebook e al trattamento dei dati personali, è abbastanza ovvio il motivo per cui molte persone sono contrarie alla messa in commercio di dispositivi simili. 

Se sappiamo che proprio Ray-Ban sta già lavorando con Meta per la realizzazione di dispositivi di realtà virtuale legati ai progetti del metaverso, non abbiamo altrettante informazioni su cosa ci possiamo aspettare dal binomio moda e tecnologia. I film di fantascienza ci hanno mostrato i risvolti più catastrofici, speriamo invece che brand e creativi siano in grado di cogliere l’occasione per regalarci momenti di puro spettacolo futuristico.