Pusher cinema club – Come i film hanno raccontato l’estetica degli spacciatori

È una questione atavica, primitiva, quasi ancestrale. Mi riferisco alla nascita e all’utilizzo, e quindi alla decodificazione, di quelli che noi oggi chiamiamo codici estetici.

Sin da quando l’uomo si è unito in comunità ha sviluppato la consuetudine, figlia anche della necessità, di riconoscersi attraverso peculiarità estetiche che fossero identificabili immediatamente, e che altrettanto immediatamente riuscissero a trasmettere l’appartenenza a un determinato gruppo di persone, a una comunità appunto.

Una volta stabilizzato e definito questo processo di identificazione, quella che era diventata una consuetudine, ha iniziato ad assumere significati più specifici in riferimento a quelli che potevano essere i codici estetici utilizzati.

Gli esempi che si potrebbero fare sono innumerevoli, basti pensare a tutte quelle comunità, subculture o gruppi appartenenti a una collettività che si distinguono in base al modello culturale che scelgono di seguire e ai linguaggi estetici ed estrinseci che vengono adottati.

Da un punto di vista storico la figura dello spacciatore, a tutti i livelli, ha subito un’evoluzione naturale rispetto ai diversi contesti in cui questa figura si è trovata a muoversi e ad agire, sviluppando attorno a sé una narrativa sfaccettata derivante dal livello di coinvolgimento o meno all’interno delle organizzazioni criminali.

A contribuire alla figura dello spacciatore nell’immaginario collettivo, un’importanza preponderante l’ha avuta, di certo, il cinema.

La storia del cinema è stracolma di film che hanno raccontato e descritto le vite, le abitudini, le peculiarità e l’estetica dello spacciatore, contribuendo anche a creare attorno a questa figura una particolare attenzione dovuta alla narrazione, spesso romanzata, che la settima arte ha messo in scena negli anni.

Nella costruzione ideale e spesso enfatizzata della rappresentazione cinematografica dello spacciatore, impossibile non citare alcune delle pellicole che più di altre hanno aiutato a crearne un’immagine per lo più stereotipata.

Una di queste pellicole è, senza paura di smentita, “Blow”.

BLOW
Giacca: Tagliatore
Dolcevita: GCDS
Occhiale da sole: Ray-Ban

Basato su un romanzo di Bruce Porter, il film autobiografico racconta la storia di George Jung – interpretato da Johnny Depp -, narcotrafficante che, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, è stato legato al cartello di Medellín, un’imponente organizzazione di narcotrafficanti con base nella città colombiana ma che conduceva operazioni illecite in tutto il mondo, il cui capo storico fu Pablo Escobar, il più potente e ricco narcotrafficante della storia.

Il film è un ammaliante e per certi versi fascinoso racconto della rocambolesca vita di Jung, dall’infanzia e dall’adolescenza molto modeste nel Massachusetts, fino alla sua ascesa nel mondo del narcotraffico con Escobar e Carlos Lehder, altro signore colombiano della droga.

Qui i costumi del film rispecchiano quella che era la moda negli anni in cui la pellicola è ambientata, mostrandoci una serie di personaggi caratterizzati da elementi estetici che ne rispecchiano personalità, provenienza, attitude, insomma ne ricalcano la personalità.

Una delle scene più impattanti del film è quella relativa all’arrivo di Jung all’aeroporto di Miami, dopo aver venduto 50 chili di cocaina in tre giorni. “Black Betty” dei Ram Jam fa da colonna sonora a un momento indimenticabile: George cammina sicuro con una valigetta piena di soldi, frutto della vendita, mentre indossa un completo color crema e un maglione a coste con un finto dolce vita, un paio di Aviator alla Elvis Presley, capelli lunghi da Rock Star e basette folte. Quel completo era un classico della moda di fine anni ’70, legato a doppio filo alla disco culture ma che in realtà arrivò sulla costa occidentale degli Stati Uniti poco prima della Seconda Guerra Mondiale. Definito leisure suit, ovvero abito per il tempo libero, si impose come un must nella Hollywood dell’epoca nel settore dell’abbigliamento casual, raggiungendo la sua massima popolarità proprio negli anni ’70. La giacca è una sahariana caratterizzata da un ampio colletto, cinque bottoni e quattro tasche, due ai lati e due sul petto; i pantaloni flat, che non dovrebbero essere in tinta guardando alla moda del tempo, in questo caso sono anch’essi color crema e non molto larghi, un vero classico dell’epoca.

SCARFACE
Giacca: Issey Miyake Homme Plissé
Pantalone: Issey Miyake Homme Plissé
Camicia: Polo Ralph Lauren
Scarpe: Church’s

Per non parlare probabilmente del narco film più popolare di sempre, “Scarface”.

Scritto originariamente come un remake, la pellicola diretta da Brian Russell De Palma e interpretata da uno straordinario Al Pacino nel ruolo di Antonio “Tony” Montana, racconta la storia dell’ascesa al potere di un profugo cubano – Tony per l’appunto – tra i boss della droga di Miami negli anni ’80.

Grazie all’enorme successo e all’impatto deflagrante che la pellicola ebbe e ha tuttora, questo film ha contribuito in modo decisivo all’immagine stereotipata del narcotrafficante nell’immaginario collettivo, influenzando la cultura popolare a tutti i livelli (cinema, TV, videogame, libri, moda e molto altro). In questo caso, addirittura, la pellicola ha fatto sì che molti criminali contemporanei riportassero nella realtà alcune peculiarità dello stile di vita di Tony, nonché il suo abbigliamento, contestualizzandolo rispetto ai tempi.

L’estetica generale dei look di Tony è ispirata a “La Febbre del Sabato Sera”, anche se adeguata a quelle che erano le tendenze degli anni ’80, come nel caso dell’abito bianco a tre pezzi realizzato presumibilmente dal sarto del film Tommy Velasco, in accordo con la costumista Patricia Norris.

La camicia dell’abito è in seta nera, così come la pochette che ha nel taschino della giacca, indossata con i primi bottoni slacciati e il colletto aperto e appiattito sulla giacca, che è a bottone unico. Il gilet invece è un classico cinque bottoni che Tony porta con l’ultimo non allacciato, mentre i flat pants sono in tinta e con il fondo svasato.

Questo è solo un esempio del perfetto e iconico styling di Tony Montana che, a partire dal 1983 – anno di uscita della pellicola – ha segnato uno standard, composto da un insieme di simboli estetici e non, che per anni ha contraddistinto (e forse continua a contraddistinguere) l’immagine dello spacciatore – associata qui a quella del narcotrafficante – a tutte le latitudini, al punto tale che la finzione del film si è trasformata in una realtà facilmente riscontrabile nelle cronache giudiziarie del nostro paese.

Esistono però tantissimi altri film che hanno raccontato storie più vicine alla quotidianità e che hanno provato a descrivere, attraverso un realismo più crudo e molto poco patinato, l’immagine del pusher.

Per descrivere questo cambiamento di visuale, iniziamo a prendere in considerazione la trilogia scritta e diretta (tra il 1996 e il 2005) dal regista danese Nicolas Winding Refn intitolata “Pusher”.

PUSHER
Felpa: Carhartt
Pantalone: NikeLab

La saga è incentrata sulle vicende che ruotano attorno a tre personaggi: Frank, uno spacciatore di basso livello, Tonny, il suo amico, e il boss Milo, le cui vicissitudini si svolgono sullo sfondo della periferia di Copenaghen. Uno spaccato fedele della malavita danese degli anni ’90, di cui lo styling ne rispecchia il contesto.

L’immagine dello spacciatore che ci viene restituita dal primo film della trilogia, “Pusher – L’inizio” (1996), è quella più realistica, e i costumi dei tre protagonisti riflettono la loro gerarchia, il loro status.

Frank e Tonny rappresentano, da un punto di vista estetico, un perfetto compendio di come oggi immaginiamo uno spacciatore degli anni ’90: tracksuit, hoodie, giacche Carhartt ed Everlast.

Mentre Milo, il boss, è uomo da cappotti cammello, completi privi di gusto, così come gli spezzati (giacche marroni e pantaloni neri), camicie lucide e con fantasie discutibili, maglioni a collo alto e collane d’oro.

Uno styling che riverbera l’immaginario duro e iperrealistico della condizione socioeconomica dei protagonisti, in cui lo spacciatore è un emarginato che vive in contesti di povertà, degrado e violenza.

Il secondo capitolo, “Pusher II – Sangue sulle mie mani”, è molto interessante da un punto di vista estetico. Il protagonista è il Tonny del primo film – interpretato da Mads Mikkelsen – che sembra essere uscito direttamente da una sfilata di Balenciaga. I look di Tonny sono caratterizzati dall’oversizing, dal layering e da una palette rigorosamente buia, priva di colori sgargianti, dove nero e grigio dominano: hoodie indossate sotto delle long sleeve con piccole grafiche dai colori forti sul petto, giacche dall’imbottitura in lana portate rigorosamente aperte, giubbini in pelle nera e pantaloni in acetato.
Il terzo e ultimo film della saga “Pusher 3 – L’angelo della morte”, si concentra sulle vicende di Milo, il boss della droga di Copenaghen già visto nei precedenti capitoli. I suoi outfit ricalcano l’evoluzione del suo status rispetto al primo film: i completi risultano più sofisticati, restano i cappotti cammello e le collane, così come le camicie che restano sbottonate fino al terzo bottone mostrando l’oro che porta al collo.

La descrizione di Milo nel terzo capitolo della saga di Refn agevola il passaggio verso una rappresentazione e una descrizione diversa del pusher, elegante ma discreta e che tende a mimetizzarsi, per quanto possibile, all’interno della società, allontanandosi proprio da quei codici estetici che l’immaginario collettivo ormai conosce e riconosce.

Per agevolare la ricognizione di questa narrazione, prenderemo in considerazione uno dei più bei film di Spike Lee, tratto dal romanzo omonimo di David Benioff, “La 25ª ora”.

LA 25ª ORA
Cappotto: Acne Studios
Pantalone: Stüssy
Felpa: Fruit of the Loom
Scarpe: Prada

Ambientata a New York subito dopo l’attentato dell’11 settembre, la pellicola racconta la storia di Monty Brogan (Edward Norton), uno spacciatore di droga di origini irlandesi che, dopo una soffiata alla polizia, viene arrestato dopo il ritrovamento di un chilo di eroina e una grossa quantità di contanti nel suo appartamento. Monty si appresta a vivere la sua ultima notte da uomo libero, insieme alla sua fidanza Naturelle (Rosario Dawson) e ai suoi due più cari amici, Jacob, un insegnante interpretato da Philip Seymour Hoffman e Frank, un cinico agente di borsa (Barry Pepper).

L’estetica relativa al personaggio di Monty ci mostra uno spacciatore dai gusti sofisticati, casual, cool e che perfettamente si incastrano nella New York di inizio nuovo millennio, dove vigeva un clima triste, amaro e inquieto.

Crewneck grigie, tee monocromatiche dai colori tenui e scuri, cappotti lunghi fino alle ginocchia, camicie tinta unita e giacche di pelle sono i capi principali su cui è costruito lo styling del personaggio interpretato da Norton.

Lo spacciatore qui non mette tute in acetato, non mostra sfarzose collane in oro, non rientra quindi in quegli stereotipi tipici dello “spacciatore di quartiere”, ma riflette la realtà del pusher che si muove nell’ombra, che si confonde con la società benestante in cui vive.

Gli spacciatori non si vestono sempre male, anzi.

Per chiudere questa sorta di viaggio all’interno dell’estetica del pusher utilizzando la storia del cinema, continuiamo a chiedere aiuto a Spike Lee.

“Clockers” è un film del 1995 diretto dal regista newyorkese e prodotto da Martin Scorsese, tratto dall’omonimo romanzo di Richard Price.

CLOCKERS
Salopette: Carhartt WIP
Maglia da hockey: Cactus Plant Flea Market x Nike

Le tematiche affrontate sono la violenza, l’uso delle armi, la droga, l’AIDS, i mass media e il gangsta rap, ed è attraverso tutto questo che si svolgono le vicende di Ronald “Strike” Dunham, un diciannovenne clocker, cioè uno spacciatore di crack con reperibilità 24h.

La vita è quella difficile e spesso drammatica che si fa a Brooklyn a quel tempo, un mondo sporco e degradato dove il regista è nato e dove viene fuori tutto il malessere di uno spaccato della società americana.

Lo sfondo socioculturale, quello temporale e il realismo della pellicola influiscono in maniera palese e manifesta sul look di Strike. L’estetica rap degli anni ’90 è perfettamente fotografata negli outfit scelti per il protagonista e i suoi amici: salopette oversize portate senza maglietta, canotte, pantaloncini e sneaker da basket, l’iconico 6-inch Boot di Timberland, jersey da hockey, jeans e camicie in denim oversize esplicano il contesto in maniera perfetta ed effettiva.

È necessario, però, per ritenere questo percorso completo, dare un’occhiata a come lo spacciatore viene visto qui nel nostro paese, in Italia, e provare a fotografarne l’estetica.

L’immaginario collettivo ci restituisce un’immagine chiaramente stereotipata ma che ha una sua credibilità forte e una base di realtà: magliette o canotte attillate, tracksuit pants, Nike Air Max Plus, dette TN (Tuned Air) o Squalo, borsello a tracolla e baseball cap con visiera a becco.

Questo tipo di outfit è arrivato ad essere talmente preponderante tra i più giovani che ha valicato il confine ed è diventato molto di moda in determinati contesti sociali, sfuggendo al concetto di appartenenza a un determinato gruppo di persone dedite a una certa attività, ma che allo stesso tempo esprime legame, relazione, connessione e comunione di idee e pensieri.

GOMORRA
Giacca: Calvin Klein
Maglietta: Boxeur Des Rues
Borsello: Gucci
Scarpe: Nike

In questo senso il cinema italiano è riuscito a fotografare con estremo realismo il mondo della criminalità organizzata e non. Grazie a “Gomorra” di Matteo Garrone e alla trasposizione televisiva “Gomorra – La Serie” abbiamo avuto la possibilità di dare uno sguardo alquanto veritiero non solo alle dinamiche di potere di un’organizzazione criminale come la camorra, ma anche della sua manifestazione estetica. Napoli è un unicum, usi e costumi sono per lo più diversi dal resto d’Italia e la sua capacità di stupire di continuo ha prodotto un’estetica propria, specifica, distintiva.

Questi due prodotti ci consegnano un’immagine del pusher/giovane affiliato quasi iperrealistica, dove la semplificazione estetica dei personaggi è stata quasi obbligata per evitare che un pubblico di ampio respiro e che non avesse dimestichezza con un certo tipo di estetica partenopea si trovasse spiazzato davanti all’eccesso che spesso ne è un tratto distintivo.

Tute in acrilico che diventano giacche di pelle quando il ruolo all’interno del “sistema” diventa più importante, tee dalle grafiche invadenti, con un ampio colletto o smanicate, borselli, vest imbottiti e canotte di ogni genere. Queste sono le caratteristiche estetiche più ricorrenti all’interno della rappresentazione che “Gomorra” e “Gomorra – La Serie” fanno di questa figura. L’immagine del pusher è esteticamente estremamente sfaccettata, composta da versioni differenti tra loro e che dipendono moltissimo dal livello di coinvolgimento o meno all’interno di un’organizzazione criminale e che è quindi impossibile racchiudere in un solo insieme, ma che il cinema è riuscito a descrivere dettagliatamente e rappresentare con precisione, regalandoci storie incredibili, spesso dolorose, ma sicuramente degne di essere conosciute.