“Quando ti penso, vorrei tornare”: la romagna di Federico Cina

Si dice che nel mondo della moda ormai tutto sia già stato inventato e fare qualcosa di innovativo sia quasi impossibile. Capita, però, che alcune persone arrivino e dimostrino che un modo per essere unici può sempre esistere: Federico Cina ne è la prova.

Dopo aver rinnegato la sua terra d’origine, la Romagna, per fuggire e seguire il suo sogno di diventare stilista, Federico è poi tornato a riscoprire sé stesso e i luoghi che aveva abbandonato. Oggi, a 27 anni, è riuscito a trasformare il suo percorso di accettazione nell’opportunità di affermarsi nel mondo della moda. Oltre alla tradizione e ai ricordi della sua infanzia, il brand Federico Cina vuole essere qualcosa di più che un semplice marchio di abbigliamento. Ogni capo rappresenta per Federico un modo di fare pace con il passato portando il suo lavoro e la sua creatività all’interno di un viaggio introspettivo. 

Dopo le prime due collezioni presentate ad Alta Roma e tre lanci digital per la Milano Fashion Week, a gennaio Federico e il suo brand hanno finalmente debuttato con la prima sfilata nella capitale della moda italiana. Per conoscere più a fondo il giovane talento romagnolo, abbiamo deciso di ripercorrere insieme a lui tutti gli step che l’hanno portato fino a questo primo grande traguardo, tra pranzi della domenica e sedute di terapia.

Il tuo modo di fare moda è estremamente personale ed emozionale ma soprattutto legato alle tue esperienze. Quindi, chi è Federico e cos’è Federico Cina?

Federico è un ragazzo che negli ultimi anni è maturato molto. A livello personale sono infatti riuscito a recuperare il rapporto con il mio passato, soprattutto grazie alla riscoperta dell’importanza della famiglia e della tradizione. Dal punto di vista lavorativo, invece, avere un brand, quindi una piccola azienda, mi ha portato ad avere tante responsabilità, ma riuscire a realizzare il mio sogno nella mia città mi sta appagando molto. Sono molto grato per tutto quello che mi sta accadendo nella vita. 

Federico Cina il brand può essere definito come un esercizio psicologico. Più o meno contemporaneamente all’apertura del marchio, ho deciso infatti di iniziare un percorso di terapia e questo mi sta aiutando molto. Riscoprendo dettagli più sensibili del mio passato vado anche a dare un senso nuovo alla mia infanzia ed è questo quello di cui voglio parlare nelle mie collezioni. Federico Cina è quindi qualcosa di molto intimo che probabilmente non sarebbe stato possibile senza un percorso personale di terapia. Mi aiuta a fare pace con me stesso.

Partiamo allora dagli inizi e parliamo non tanto della tua carriera quanto della tua vita. Com’è stata la tua infanzia e che tipo di rapporto avevi con la Romagna, uno degli elementi più rilevanti nelle tue collezioni?

Onestamente, la mia infanzia non è stata stupenda: sono sempre stato un bambino in carne e questo, unito al mio orientamento sessuale, mi ha causato molte prese in giro e derisioni. In più, di indole sono una persona introversa quindi non mi piaceva parlare dei miei problemi e di come mi sentivo. Se consideriamo anche il fatto che i miei genitori lavoravano tanto, non sono mai riuscito a trovare una situazione in cui mi sentivo al sicuro, né a casa, né con gli amici e tantomeno a scuola.

Per tutti questi motivi da piccolo non volevo rimanere a Sarsina, dove sono nato, ma sognavo sempre di scappare. Mia mamma mi ricorda spesso che a tre anni le dissi che pensavo di essere nato nel posto sbagliato ed effettivamente mi sentivo così: non venivo compreso, non mi sentivo voluto bene e quindi volevo scappare da tutto. 

E cosa pensavi di trovare al di fuori di Sarsina che non era presente lì dove vivevi? 

L’obiettivo era quello di costruire qualcosa di solamente mio. Siccome il mondo intorno non mi piaceva perché non mi provocava alcuna emozione positiva, iniziare un progetto personale lontano da casa avrebbe significato plasmarlo a mio piacimento, come volevo io. Pensare di scappare in un’altra città era solamente un modo per rivedersi in una realtà nuova, con la possibilità di ricostruirsi una vita e cancellare completamente quello che la gente pensava di me. 

Solamente ora mi rendo conto di quanto questa idea, questo mio “progetto”, fosse sbagliata. Crescendo ho infatti accettato tutto quello che è accaduto durante la mia infanzia e mi sono reso conto che è servito a diventare quello che sono oggi. Nonostante volessi costruirmi una vita diversa, ora sono grato a quello che è stato.

In un ambiente apparentemente così distante dal mondo della moda, quando e come sei entrato in contatto, a un livello più profondo, con il mondo dei vestiti?

L’immagine e l’aspetto fisico ed estetico di una persona sono le prime cose che vedi e su cui ti soffermi. Non essendomi mai sentito adeguato al contesto in cui vivevo, osservare per esempio i gesti della gente e il modo in cui si vestivano mi aiutava a capire come essere come loro. La moda rappresentava un modo per trasformarsi e adattarsi, per sentirsi a proprio agio con un gruppo di persone che non mi accettavano.

Solo con il tempo ho cominciato a capire che l’abbigliamento poteva essere anche un mezzo per esprimere le mie emozioni, ma inizialmente la mia passione per la moda era solamente dovuta alla necessità di sentirmi adeguato alle persone che mi stavano attorno.

Hai un ricordo o un capo d’abbigliamento specifico, legato magari alla tua famiglia, che è ben impresso nella tua mente e che ti ricorda questa fissazione per l’aspetto esteriore degli altri?

Il primo ricordo che mi viene in mente è legato alla figura di mio nonno e al suo armadio. Lui era un contadino, quindi per la maggior parte del tempo lo vedevo indossare i vestiti da lavoro per andare nei campi. Alla domenica, però, era come se si trasformasse: si faceva bello, metteva la sua giacca pulita, la camicia e andava in chiesa. Osservare questo cambiamento mi affascinava tantissimo ed è per questo che l’armadio di mio nonno è, a livello di stile, un importante punto di riferimento per la parte sartoriale. 

Come, o quando, hai capito che quella del fashion era la strada che volevi perseguire? 

In realtà penso di averlo sempre saputo. I primi ricordi che ho sono di quando, a sette o otto anni, andavo con mia nonna al mercato e per strada mi fermavo in edicola per comprare le riviste di moda. Ed è proprio a questo periodo che risalgono i miei primi disegni: mi piaceva sia disegnare cose mie che guardare le riviste e “copiare”, ovviamente in maniera orrenda, quello che vedevo.

Questo tuo rapporto conflittuale con la tua terra d’origine ti ha portato a lasciare la Romagna appena raggiunta la maggiore età. Cosa hai trovato al di fuori di Sarsina?

Quando mi sono trasferito nel 2013 l’ho fatto, come detto prima, principalmente per togliermi da una situazione scomoda. Al tempo i social non erano ancora così diffusi e utilizzati come lo sono ora quindi andare via mi ha aiutato ad aprire la mente e togliermi da una visione del mondo un po’ da paesano, chiusa. Infatti, negli anni in cui studiavo Fashion Design al Polimoda ebbi la possibilità di conoscere persone da tutto il mondo e questo, dopo aver vissuto per diciott’anni in un paesino di tremila abitanti, mi servì molto. Nello stesso periodo iniziai anche a lavorare come assistente dell’allora direttore creativo di Brooks Brothers e se da piccolo immaginavo di lavorare a New York, in quel momento il mio sogno si stava realizzando. Una volta al mese volavo da Firenze agli Stati Uniti e, mentre conoscevo tantissime persone stupende, questo mi permise di farmi un’idea più “internazionale” riguardo al mondo della moda.  

Dopo la laurea, grazie a una borsa di studio, mi trasferii in Giappone per studiare al Bunka Fashion College e ovviamente questa si rivelò un’avventura più difficile, soprattutto a livello comunicativo. Dall’altra parte, però, vivere a Osaka mi fece mettere in pratica in maniera autonoma tutto quello che avevo imparato negli anni precedenti. 

L’ultima tappa del mio percorso fu Milano, dove lavoravo per Emilio Pucci, che però ricordo come un’esperienza abbastanza disastrosa, soprattutto a livello umano. Infatti, mentre a New York le persone erano state così gentili e disponibili da diventare quasi una seconda famiglia, a Milano capitava che i colleghi ti ostacolassero nel lavoro o addirittura non ti invitassero a pranzo. Non ci misi tanto a capire che tutta quella falsità non faceva per me. Infatti, nonostante le grandi città mi avessero fatto scoprire il mondo al di fuori del mio paese, mi resi conto che avere la famiglia vicino e respirare l’aria della terra in cui ero nato erano elementi insostituibili, che mi mancavano molto e di cui non volevo più fare a meno. 

Un evento che si rivelò poi fondamentale per il mio percorso fu quando nel 2017, visitando un mercatino dell’usato del mio paese, trovai un libro con un titolo gigantesco: “Emilia Romagna”. Lo presi quasi come un segno del destino e decisi di comprare quel volume per portarlo con me a Milano, per avere un pezzo della mia terra anche in quella casa. Non fu comunque abbastanza perché cominciai a sentire davvero troppo la mancanza dei modi di fare calorosi della Romagna, rispetto alle persone fredde di Milano.

Dopo le esperienze in Giappone, a New York e a Milano decidi quindi di tornare a vivere in Romagna. Chi era Federico durante quel viaggio di ritorno? Come l’aveva cambiato la vita “urbana” rispetto a quando era partito a 18 anni?

Ero partito da Sarsina con la voglia, e forse anche la pretesa, di spaccare il mondo, volevo dimostrare a tutti il mio valore. Quando non sei sicuro di te stesso provi in qualsiasi modo a farti valere e ogni occasione è buona per farlo. Lavorando mi sono reso conto che le persone, la maggior parte delle volte, sono in grado di riconoscere cosa sai fare, perciò ho messo di nuovo i piedi per terra e, acquisendo più consapevolezza, il mio bisogno di essere riconosciuto dagli altri si è placato. Con il tempo, però, in quel loop di “dipendenza” dal parere degli altri e solo la mia casa d’infanzia mi poteva far riscoprire me stesso e il mio valore. Ovviamente, trasferirmi di nuovo in Romagna mi spaventava perché significava tornare in una situazione complicata e, in più, aprire un brand in quella zona, dal nulla, senza chissà quale esperienza non era un progetto facile. Mentre lavoravo per gli altri marchi, non smettevo di fare delle piccole collezioni per un mio interesse personale, volevo a tutti i costi iniziare un percorso da solo. Così, non ci ho pensato due volte e sono tornato a casa.

Tornando in Romagna, cos’hai riscoperto di preciso?

Quando, a Milano, oltre ai problemi lavorativi iniziarono anche quelli sentimentali – perché mi lasciai con il mio fidanzato del tempo – decisi di prendere la mia via e ricominciare praticamente dall’inizio. Tornare a casa e avere famiglia e amici vicino mi aiutò molto nel riscoprire l’importanza delle piccole cose, come andare a cena con i miei compagni delle elementari. Per quanto riguarda le possibilità di carriera, a Milano ovviamente era tutto più semplice rispetto alla realtà della Romagna, ma non mi interessava: una strana sensazione dentro mi fece capire che, nonostante la paura, stavo facendo la cosa giusta. Spesso infatti mi capita che, se sto agendo “contro me stesso”, mi prenda il magone e così capisco che devo cambiare qualcosa. Proprio questo mi succedeva ogni volta che pensavo di rimanere a Milano, quindi, nonostante fossi consapevole delle difficoltà legate al lancio di un brand rimanendo a Cesena, decisi di tornare. 

E così nel 2019 decidi di aprire il tuo brand “Federico Cina”, fatto di un’atmosfera che hai definito “nostalgica e sentimentale”. Che cosa vuoi portare nelle tue creazioni?

Vorrei far capire a chi guarda le mie collezioni che la moda può andare oltre la pura immagine e apparenza, e credo che ultimamente questo sentimento stia diventando molto più comune nel mondo del fashion. Mi piacerebbe portare un elemento di umanità, che sia legato alla mia persona e alle mie esperienze, e un sentimento romantico legato alla tradizione. Una terra come la Romagna può magari sembrare grezza nel suo modo di fare e sicuramente nella moda non è mai stata al centro dell’attenzione, ma l’obiettivo è creare una connessione tra il mondo contemporaneo, la tradizione e l’artigianalità. 

Hai parlato di “umanità”: quanto è importante per te l’aspetto umano nella vita e come si declina nel tuo lavoro?

I rapporti umani per me sono fondamentali. Se vado per esempio in un ristorante e mi trattano male ci rimango malissimo, quindi cerco, in ogni cosa, di trattare gli altri come vorrei che trattassero me. Questo mio modo di essere ovviamente comprende anche la realtà dell’ufficio e delle persone che lavorano con me, dai fornitori ai miei assistenti. Un semplice grazie, un complimento, dire alle persone “cavolo, hai fatto proprio un bel lavoro”, “sei bravo”, può essere fondamentale. Facendo visita alle aziende con cui collaboro, mi è capitato spesso di incontrare la signora anziana che sta cucendo un capo per me e facendole i complimenti vedi che si emoziona. Viviamo in un mondo in cui tutti tendono ad attaccarti e noi, di conseguenza, cerchiamo sempre di difenderci. Per me “umanità” significa quindi anche manifestare gentilezza e dare importanza a quello che le altre persone fanno.

Spesso hai parlato anche di “incontro tra generazioni”. In che senso? Che cosa c’è della tua generazione e di quelle passate nei tuoi capi? 

Eh, è una domanda complicata. Data la presenza così intensa e chiara della tradizione romagnola, nessuno mi aveva mai chiesto cosa volessi comunicare della mia generazione. Come accade per le mie esperienze di vita personali, ciò che mi interessa della mia generazione è ciò che viviamo, il momento storico e sociale in cui ci troviamo. Penso infatti che la nostra società sia ancora schiava di sistemi e strutture che la mia generazione vuole cambiare, rompendo gli schemi e trasformando le regole del gioco. Delle generazioni passate, invece, mi attrae la semplicità: i miei nonni mi hanno insegnato i loro valori con una semplicità senza pari. Quando penso a loro, rivivo le giornate nei campi e ritorno alla realtà: mi fanno pensare a tutte quelle cose mi hanno insegnato e che, se prima le odiavo, ora le riconosco come mie fondamenta.

Delle generazioni future? Cosa pensi? Vuoi trasmettere qualcosa anche a loro?

L’insegnamento principale che vorrei dare è quello di non snobbare o rinnegare il proprio passato, ciò che può sembrare “tradizionale” e noioso. Se penso per esempio all’artigianato e alla manifattura italiana, le persone giovani mancano sempre di più e cose come fare i ferri o l’uncinetto vengono ignorate. Mi piacerebbe quindi che, attraverso quello che faccio, le persone si rendessero conto che le cose che possono sembrare grezze, brutte o vecchie possono invece essere trasformate in qualcosa di contemporaneo. Voglio trasmettere loro la passione e la voglia di recuperare elementi del passato per portarli nella realtà di oggi.  

Uno dei dettagli che più ti contraddistingue è sicuramente la stampa romagnola, presentata per la prima volta nella collezione “Mi Sono Innamorato Di Te” che ti ha portato a vincere il concorso “Who’s On Next” nel 2019. Ci puoi raccontare di cosa si tratta e cosa rappresenta per te? 

La stampa romagnola è sicuramente un elemento fondamentale sia per il Federico-persona che per Federico Cina il brand. A livello personale mi ricorda il pranzo della domenica con la mia famiglia e, in particolare, la figura di mia nonna. Ogni fine settimana ci metteva tutti a tavola e ci governava mettendoci in silenzio: non aveva paura di imporsi e dirci cosa fare e come farlo, il tutto ovviamente sempre con il suo grembiule con la stampa romagnola e la tovaglia coordinata. 

Uno dei simboli principali utilizzato sia nella stampa romagnola tradizionale che nella mia “reinterpretazione” è il grappolo d’uva, ormai icona di tutta l’identità del mio brand. Anche questo elemento è legato a un ricordo estremamente personale perché rappresenta mio nonno, il quale aveva anche due vigneti. Mi capitava spesso di aiutarlo, insieme a mio padre, suo fratello e tutti gli altri zii, a raccogliere l’uva a mano. Il vino è una parte molto importante sia della tradizione romagnola in generale, sia della mia infanzia. 

Quanto e cosa c’è della Romagna nelle tue creazioni, oltre alla stampa romagnola? 

In Federico Cina la Romagna è rappresentata soprattutto dall’artigianalità e dal modo in cui tutti i capi vengono realizzati. Una grande parte del mio lavoro riguarda infatti la ricerca, e la riscoperta, di fornitori e piccole realtà locali per far sì che tutta la filiera produttiva sia localizzata nella zona. Anche se osservando i capi finiti non è evidente o esplicito, tutti i nostri fornitori si trovano tra Forlì e Rimini: il maglificio, per esempio, è a un chilometro e mezzo dal nostro ufficio, mentre l’azienda che realizza i capispalla a cinque. Per la maggior parte si tratta di realtà piccolissime che però sono in grado di fare cose importanti. Non è raro trovare persone che vivono al piano sopra i loro laboratori e producono per tantissimi grandi nomi della moda italiana.  

Oltre al tuo vissuto e alla tradizione dell’artigianato romagnolo, quali sono gli altri elementi che entrano far parte del tuo processo creativo?

L’elemento per me più importante e da cui riesco a trarre più ispirazione è sicuramente la fotografia e ovviamente mi interesso dei fotografi che hanno immortalato la mia terra, sotto qualsiasi punto di vista. Per la collezione Primavera/Estate 2022 intitolata “INFANZIA A MARE”, per esempio, sono partito dalle fotografie delle colonie adriatiche di Luigi Tazzari, mentre per la collezione precedente (Autunno/Inverno 2021, “A Emilia”) ho utilizzato i lavori del fotografo paesaggistico Guido Guidi, il quale si occupò di documentare le varie realtà lungo la Via Emilia. Per creare la giusta storia e ricollegarla al mio passato mi rendo conto di aver bisogno di un’ispirazione fotografica. 

Per quanto riguarda l’armonia dei colori e la scelta dei tessuti, invece, sono cose che solitamente mi vengono più naturali, che nascono da una mia emozione. Sembra una cosa un po’ stupida, ma questo mio istinto, questa mia “sensazione”, mi ha sempre guidato e salvato. È come se ci fosse un altro Federico dentro di me, più piccolo e più “intenso”, che mi dà consigli e mi dice cosa fare. 

Anche la tua ultima collezione, “BALL’ERA 77”, è nata grazie a una collezione di fotografie.

Sì, esatto. Questa volta ci siamo ispirati al libro “Dancing in Emilia” di Gabriele Basilico e a tutto il mondo delle balere romagnole, in particolare la “Ca’ del Liscio”. Il titolo fa quindi riferimento all’era del ballo (da qui la parola “BALL’ERA”), mentre il numero 77 rappresenta l’anno in cui venne aperta la Ca’ del Liscio. Ciò che ci ha fatto venire la passione per questo tema è stata anche la voglia di ritornare a vivere la nostra vita normale dopo la pandemia. Durante la mia adolescenza, andare a ballare era fondamentale, soprattutto considerando tutti i locali che sono qui nella zona. A primo impatto il tema delle balere può sembrare molto distante da ciò di cui ho sempre parlato, ovvero contesti e situazioni molto più romantiche; in realtà, per noi si tratta semplicemente di un altro punto di vista della nostra quotidianità e di come questa si traslava nel passato. Anche in questo caso abbiamo provato a prendere qualcosa che ormai è stato dimenticato per dargli una connotazione più contemporanea. All’interno delle balere le storie d’amore erano molto affascinanti e un aneddoto divertente riguarda per esempio il ruolo del fotografo. Come accade nelle discoteche di oggi, anche alla Ca’ Del Liscio c’era un fotografo che aveva il compito di immortalare la serata. Dopo poco, però, venne abolito perché così venivano scoperte relazioni clandestine tra ballerini, storie di amanti, e a casa poi mariti e mogli litigavano, mettendo in crisi paesi interi. Nessuno voleva più andare a ballare.

A livello più pratico, invece, la collezione cerca di riportare lo stile degli anni ’70 e inizi anni ’80 soprattutto attraverso colori, stampe e tessuti (come il velluto). Uno degli elementi più innovativi per il mio brand riguarda i colori: questa volta, infatti, ho deciso di mettermi un po’ in gioco creando una palette più pop e accesa, fatta di colori freddi e acidi, che si distolgono molto da quelli più pastello, tenui e romantici che sono sempre stati parte del mio DNA.

Tra i progetti più interessanti che hai sviluppato fino ad ora c’è la collaborazione con Francesco Cicconetti, un ragazzo transgender, i cui ricavati sono stati devoluti interamente per supportare il “Movimento Identità Trans”. Qual era l’obiettivo di questa iniziativa? Che cosa ha rappresentato per te questa esperienza e come dialoga con tutto il DNA del marchio?

Io e Francesco ci siamo conosciuti perché, essendo anche lui della Romagna, mi sarebbe piaciuto regalargli qualche capo con la stampa romagnola e per questo gli ho scritto. Fin da subito mi ha colpito la sua umanità, il suo modo di fare così carino e disponibile, e si è formata una grande connessione. La collaborazione, poi, è nata da una conversazione durante la quale Francesco mi ha confessato che gli sarebbe piaciuto fare qualcosa nel mondo della moda e così mi sono posto l’obiettivo di creare qualcosa insieme. Mi piaceva l’idea di fare qualcosa con lui perché volevo mettere in pratica quello che ti ho detto prima e che si dice spesso alla stampa: il brand parla sì di umanità ma poi, effettivamente, cosa facciamo oltre a essere gentili tra colleghi? 

In passato, come Francesco, ho vissuto in prima persona numerose discriminazioni, soprattutto per via del mio orientamento sessuale, perciò sono molto sensibile a certe tematiche e spero di essere riuscito a dare voce alla comunità LGBTQI+ e a quella parte della società che ha bisogno di più sostegno. Con questi obiettivi in mente siamo quindi partiti da uno dei codici stilistici più importanti per il mio brand, la camicia, e abbiamo aggiunto alcuni dei disegni fatti da Francesco quando era piccolo, come la sigla “A-O” stampata sul taschino e ispirata alla sua firma da bambino (come “Francesca-o”). Volevamo collegare e mettere in relazione le nostre infanzie, molto simili per diversi punti, che rappresentano due momenti sia dolorosi sia determinanti e fondamentali per ciò che siamo oggi.

In futuro, come pensi di continuare a mandare avanti questa conversazione riguardo le radici, il passato e la tradizione? Hai qualche obiettivo che ti sei prefissato e che vuoi raggiungere nei prossimi anni?

Chissà la mia psicologa dove mi porterà…

A parte gli scherzi, penso che il mio lavoro di terapia sarà determinante per il futuro del mio brand. Ogni seduta che faccio va ad aprire un cassetto di me che non conoscevo e non avevo mai esplorato, quindi poi tutti questi elementi entrano a far parte del mio brand, che diventa così un diario della mia vita e ogni collezione un capitolo di essa. Tutti gli elementi di Federico Cina parlano di me. Quello che faccio lo devo aver vissuto io in prima persona, che sia un’esperienza o una mia debolezza, per far sì che sia qualcosa che sento a pieno e che, poi, riesca a trasmettere al meglio. Per fare un esempio di qualcosa che è nato nello studio della mia psicologa ma che riguarda il brand ti dico questo: ho sempre avuto un blocco nel disegnare e creare capi femminili perché il mio codice stilistico nasce prettamente nel guardaroba maschile per poi diventare unisex. Ho sempre trovato la donna vestita con abiti maschili molto più interessante, elegante e raffinata. Quando però il reparto commerciale e i vari showroom hanno cominciato a richiedere abiti più femminili, ho fatto fatica. Con la psicologa ci ho lavorato molto e ho capito il perché di questo mio blocco, è tutto collegato. 

Per quanto riguarda i miei obiettivi, la prima vera e propria sfilata “in presenza” durante la Milano Fashion Week è stata sicuramente un grande traguardo. Ero molto contento di tornare a Milano, sapendo però che le mie radici e le mie basi sono qui in Romagna, e mi fa effetto pensare a quel bambino di Sarsina, preso in giro da tutti, che adesso invece è in quel calendario, di fianco a grandi nomi. Sembra impossibile, pensando a tutto il percorso di accettazione che sto compiendo, che il sogno che mi immaginavo da piccolo a 10 anni si stia realizzando, è un mix di paura e felicità incredibile.

 

Foto di
Davide Cocchi