Quanto costa essere il migliore nello sport?

Gianmarco Tamberi è stato ieri sera ospite della seconda puntata di Belve, il programma di Rai2 ideato e condotto da Francesca Fagnani. Tanti gli argomenti trattati nei quaranta minuti di intervista, dal rapporto complicato con il padre al suo futuro sportivo, passando per la visibilità ottenuta durante la carriera e le sue conseguenze.

Un passaggio però più di tutti gli altri ha colto la nostra attenzione. Ovvero quando il campione Olimpico riconosce di amare di più il basket, lo sport che ha praticato fino a 17 anni, piuttosto che il salto in alto, lo sport che lo ha reso una celebrità ma che in realtà è stato portato a scegliere per talento e predisposizione naturale.

Al di là di simpatie o antipatie nei confronti dell’interessato, le parole di Tamberi, che è uno degli atleti italiani più forti e soprattutto vincenti di sempre, sono preziose. Davanti a un pubblico generalista da prima serata, fanno emergere quanto tossica possa essere una certa cultura sportiva della vittoria a tutti i costi. L’idea fallace, ma purtroppo molto diffusa, del doverci credere sempre, dell’amare obbligatoriamente ciò che si fa. Di una certa retorica che elogia la disciplina e il rigore sportivo, senza considerar ciò che in cambio reclama.

«Se avessi giocato a basket sarei stato più felice. Lasciarlo per me è stato un dispiacere enorme, per fare quello che era “giusto” fare. Non è così bello saltare un’asticella».

Gianmarco Tamberi

Qualcuno potrà considerare triste il fatto che un atleta simbolo del suo sport ammetta così esplicitamente di non amarlo e di avervi preferito un’altra vita. In realtà, prese di posizioni simili crediamo possano realmente offrire l’opportunità di allontanarsi da certe narrazioni stereotipate ed enfatiche, di cui lo sport ad alto livello abbonda, e di riflettere a fondo sulle condizioni che quest’ultimo richiede, anzi pretende, nel momento in cui diventa a tutti gli effetti il tuo lavoro. Narrazioni che ancora troppo spesso fanno sfociare i sogni con l’ossessione nociva, soprattutto fra gli atleti più giovani.

Rinunce, diete, obiettivi, pressioni e competizione estenuante non coincidono quasi mai, nello sport ad alto livello, con la felicità. E, caso Tamberi a parte, spesso non corrispondono neanche con una garanzia di successo. Tutto questo fa parte dello sport, da sempre. Comunicarlo con chiarezza e onestà è tuttavia doveroso.