La domanda bisogna farsela: ma veramente l’ascesa della cultura hip hop in Italia si è definitivamente declinata quasi solo in un rap per lo più commerciale (con ritornelli cantati, e con una cassa in quattro facile mutuata dalla dance commerciale o, altra faccia della stessa medaglia, con ritmi latini simil-reggaeton), oppure in una trap/drill molto formulaica, molto prevedibile, che parla tutta delle stessi tre quattro argomenti e spesso addirittura negli stessi modi e con le stesse espressioni verbali?
Chiaro, abbiamo avuto le eccezioni. E comunque chi è diventato un grande classico o anche solo un dominatore dei numeri – da Marracash a Geolier, da Tony Effe a Guè, da Sfera ad Anna, dai Dogo ad Artie – fa bene a fare spallucce ad ogni osservazione critica: perché comunque i fatti o almeno le classifiche di stream e i cuoricini su Instagram dimostrano che hanno ragione loro, punto, le chiacchiere stanno a zero su quello. Se il pubblico vuole certe cose e di certe cose evidentemente non si stanca per quanto paracule, per quanto costruite esattamente per avere successo, bisogna prenderne atto. Il pubblico poi non è così male e non è che fa emette sempre i verdetti sbagliati, o almeno non sempre: dal vivo, quello che vende più biglietti di tutti è Marracash, uno con una profondità di contenuti album dopo album spaventosa. Giusto per dire.
Ma la musica urban in Italia – sì, scusate se usiamo ancora questa definizione spuria, ma è per abbracciare il campo che va dalla trap di strada al rap da Sanremo, perché è un campo in cui razzolano tutti, scambiandosi ruoli e featuring – ha da tempo un serio problema di rinnovamento stilistico e testuale, e di omologazione ai meccanismi attitudinali ed industriali più pigri del pop. La soluzione non è tornare indietro reazionariamente al boom bap degli anni ’90 e al “…si stava meglio quando si stava peggio”. Quella è la soluzione di chi sa guardare solo indietro, mai avanti a sé. Una pessima soluzione.
È possibile però che si usi così poco l’elettronica, e soprattutto la si usi con soluzioni standard già consolidate fin dai tempi del 2016 (che a loro volta copiavano quelli che in America e in Francia giravano già da mo’) e soprattutto iper-semplificate oppure, altra faccia della stessa medaglia, spalmando il ritornello canterino da cuore in mano? È possibile che nelle nuove generazioni il ventaglio di argomenti sia sempre così maledettamente limitato, come fosse tutto un gigantesco discolabirintico testo di Sfera Ebbasta o Baby Gang dal quale non si possa uscire, e vediamo chi coglie la citazione? Giusto per dirne due.
In una parola: che fine ha fatto le creatività, nel rap in Italia? Che fine ha fatto la voglia di uscire dagli schemi, e (ric)combinare soluzioni inaspettate? Te lo chiedi, e te lo chiedi forte, ascoltando una release che è passata abbastanza sotto silenzio – non a caso, evidentemente – e che invece è un compendio livido ed efficacissimo di come si potrebbe dare una scossa, qui da noi, a certi stilemi musicali. Il “teamcro tape” generato dalla cricca teamcro (Deriansky, Deepho, Michael Mills, 9DEN, parmigiani ormai milanesizzati) e fatto uscire da Asian Fake a inizio febbraio 2025 ha infatti una serie di caratteristiche folgoranti. E fondamentali.
Uno: esce dal copia-e-incolla sulle basi, stando lontano sia dalla litania trap (la cita, ma la destruttura) che dalla paraculaggine latin-pop (non pervenuta, per fortuna). Due: spinge ad un lavoro creativo sul flow, spezzando metriche ed incastri. Tre: combina in modo molto interessante ed atipico parte digitale e strumenti suonati davvero (vedi anche la collaborazione con 72-Hour Post Fight), uno sport in cui in Italia ormai ci si accontenta di copiare Dardust come massimo risultato possibile. Quattro: introduce nei testi non solo le solite parole, le solite immagini, le solite figure retoriche, il solito tremendismo di strada, ma anche introspezione, sense of humour, provocazione, surrealtà.
Se ve la siete persi, è una release che vi consigliamo caldamente di recuperare. Se ve la siete persi, siete in tanti: perché non è che abbia ottenuto chissà quale eco.
…e se vi appare troppo strana, se vi appare troppo sghemba, se vi appare troppo antipatica, se vi appare poco fruibile è forse questione di gusti e di attitudini, va bene; ma attenzione, bisogna anche iniziare a chiedersi se l’appassionato di rap in Italia non sia diventato troppo di bocca buona, troppo abituato a farsi andare bene solo la musica-che-funziona, quella cioè che non rompe gli schemi, andando così contro proprio al DNA originario della musica rap e della cultura hip hop, che nascono come entità che vogliono il successo, sì, ma lo vogliono a modo loro, cambiando le regole del gioco, sovvertendo i dettami del mainstream del momento.
Non vogliamo fare l’elogio dell’underground. Sarebbe scontato. L’underground non è un valore in sé (oltre ad essere un concetto ed un’entità che può essere inteso in diverse maniere…). No. Il discorso è un altro.
Un album come “teamcro tape” più ancora che una celebrazione della forza dell’underground e del “pensare alternativo” in musica dovrebbe essere semmai un grande calcio in culo che spinga il rap e la musica che lo circonda a tornare finalmente a rinnovarsi, visto che è almeno un decennio che non lo sta facendo abbastanza e vive sulle glorie del 2016, o di Fibra, Marracash e dei Dogo, o della facilità dei ritmi caraibici e delle voci in autotune di piacere a grandi e piccini.
Rinnovarsi però è faticoso. È un rischio. Le ricette degli ultimi anni funzionano ancora, riescono ancora a scalare le classifiche degli stream e alla fine, massì, sono tutti contenti: artisti, i loro management, le case discografiche. Peccato però che così, per incamerare soldi nel presente, si sta scavando la fossa per il proprio futuro: a furia di accontentarsi di un pubblico sempre più dozzinale e distratto nei gusti e nelle esigenze, succederà che questo stesso pubblico passerà ad altro quando meno te lo aspetti. Il pubblico mainstream è così fisiologicamente: è volubile, è “facile”. Ecco perché fare affidamento solo ad esso o, peggio ancora, accontentarsi da appassionati di imitarlo può portare ad un collasso improvviso.
Chi si dedicava al rap un tempo schifava il suono della maggioranza. Oggi questa stessa persona, sia da artista che anche da semplice appassionato, pare invece quasi rassegnata a considerarlo un approdo inevitabile. Siamo proprio sicuri vada bene così? Ascoltatevi “teamcro tape”. Tornate a rimettere nelle vostre coordinate personali chi cerca di rompere gli schemi, facendolo con stile, facendolo con rabbia.