Raf Simons, il designer che ha rivoluzionato il menswear

Il momento clou della recente fashion week primavera/estate 2021 è stato senz’altro la prima collezione Prada firmata a quattro mani da Miuccia e Raf Simons, una crasi dei linguaggi di stile dei due creativi. La nomina a co-direttore artistico del marchio milanese è una pietra miliare nel curriculum di Simons, l’ultima di una lunga serie inaugurata oltre vent’anni fa; eppure la moda, inizialmente, non significava granché per questo belga 52enne, timido e restio a raccontarsi nonostante una carriera ormai decennale, che infatti aveva studiato industrial and furniture design alla LUCA School of Arts di Genk.

A cambiare tutto è però lo stage da Walter Van Beirendonck, uno dei leggendari Antwerp Six, il manipolo di stilisti, formatisi nella locale Royal Academy of Fine Arts, che rivoluzionò il fashion world a cavallo degli anni ’80 e ’90. Simons ha così l’opportunità di assistere ai défilé di un altro connazionale d’eccezione, Martin Margiela, protagonista assoluto delle cronache modaiole coeve; lui stesso parlerà poi dello show p/e 1990 della griffe come di una sorta di epifania.

Nel 1995 fonda l’omonimo brand di abbigliamento maschile, riversandovi ogni suo interesse: innanzitutto la musica, dai dischi punk e new wave collezionati sin dall’adolescenza all’elettronica tedesca; quindi l’immaginario subculturale del tempo, plasmato dai look dei movimenti giovanili sparsi in tutta Europa; infine l’attenzione quasi esasperata a tagli e volumi, studiati al millimetro per snellire la figura, attenendosi però ai dettami della migliore tradizione sartoriale. Il tutto filtrato attraverso una spiccata sensibilità artistica, che tocca architettura, cinema, letteratura e quant’altro.

Gli elementi appena elencati ricorrono nelle sfilate di Simons, entrate di diritto nella storia della moda con la M maiuscola: la p/e 1998, una sequela di abiti smilzi, maglie oblunghe e top arricchiti qui dal simbolo degli anarchici, là dalle cover di abum rock, indossati da ragazzi efebici (in un’epoca in cui, tra l’altro, trionfavano gli adoni dal fisico scultoreo di Versace o Gucci by Tom Ford); la a/i 1998, chiusa da una schiera di modelli in camicia rosso fiammante e cravatta sottile scura, un tributo all’iconica mise scelta dai Kraftwerk per la copertina di ‘The Man-Machine’; la Riot Riot Riot a/i 2001, incentrata come da titolo su un’ipotetica tenuta da battaglia (metropolitana) dei giovani casseur, tra linee over, volti nascosti da cappucci o sciarpe, capispalla sovrapposti, disseminati perlopiù di patch con foto segnaletiche della band Maniac Street Preachers, flyer di concerti, poster di ‘Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino’. O ancora, la a/i 2003, segnata dalla collaborazione con Peter Saville per stampare su parka, bomber e hoodie gli artwork seminali del celebre grafico inglese, realizzati per nomi cult come New Order, Joy Division e Orchestral Manoeuvres in the Dark.

Nel 2005, per i dieci anni della label, lo stilista approda a Pitti Immagine con Raf Simons Repeat, una videoinstallazione per compendiare, in forma di immagini, il proprio lessico visivo e, di nuovo, musicale. Sempre nell’ambito della fiera presenta, nel 2016, la collezione per la p/e seguente, in cui il connubio tra moda e arte trova una delle più alte espressioni grazie a camicie, pullover e pettorine sulle quali si stagliano nudi, fiori e altri rinomati scatti, piuttosto espliciti, del fotografo Robert Mapplethorpe.

In parallelo a tutto ciò, Simons associa il suo nome ad alcuni dei principali brand di prêt-à-porter. Nel 2005 viene chiamato a dare nuovo spolvero a Jil Sander, griffe simbolo del minimalismo chic dei nineties; ne supervisionerà le collezioni maschili e femminili per i successivi sette anni, riuscendo a temperare l’heritage del marchio, austero, rigoroso, votato all’assoluta pulizia delle forme, con l’utilizzo ben dosato di colorazioni vivide, la precisione chirurgica del taglio e le consuete influenze artsy.

Nel 2012, l’ulteriore svolta: diventa direttore creativo del womenswear Dior, sostituendo un gigante come John Galliano. Soltanto le prime settimane di lavoro meriterebbero un capitolo a sé, raccontato in effetti nell’intenso documentario ‘Dior and I’, che si concentra sull’iter creativo del designer seguendone le giornate negli atelier di avenue Montaigne. Nonostante la bontà del suo operato, culminato nella rilettura di diverse icone della griffe (la giacca Bar, la silhouette ad A, quella a H, ecc.) e certificato da un aumento delle vendite del 60% nel triennio, Simons si dimette nell’ottobre 2015, sicuramente provato dalla mole di lavoro e dalle numerose pressioni ed esigenze, inevitabili quando si guida una maison che è la quintessenza del lusso francese.

Circa un anno dopo, arriva tuttavia un incarico per certi versi ancora più sorprendente: Calvin Klein annuncia di averlo scelto per la guida di tutte le linee, dall’Underwear alla CK Platinum. Si tratta di un cambiamento epocale, perché il brand del casual per eccellenza si reinventa affidandosi ad uno degli stilisti più cerebrali sulla scena. Lui, da parte sua, lancia subito una adv che rende plasticamente l’identità del nuovo corso, in cui giovani filiformi, vestiti solo dei bestseller della casa (denim e intimo logato) posano davanti a opere d’arte di Richard Prince, Dan Flavin, Sterling Ruby, Andy Warhol (di lì a poco verrà stretto un accordo con la fondazione del geniale esponente della Pop Art, e le sue serigrafie compariranno regolarmente sugli outfit del marchio).

Soprattutto, vara Calvin Klein 205W39NYC, label di fascia alta presentata, a partire dall’a/i 2017, nel calendario della fashion week newyorchese. Nelle successive quattro stagioni, Simons traduce in capi e accessori l’ideale americano del melting pot, unendo tailoring dalle tinte squillanti e Looney Tunes, divise da lavoro spruzzate di vernice e riferimenti ai blockbuster hollywoodiani (‘Carrie – Lo sguardo di Satana’, ‘Shining’, ‘Lo squalo’…), camicie western e blazer collegiali, suit affilati e materiali corposi quali gomma, neoprene o nappa.
Se le reazioni della critica sono entusiastiche, e nel 2017 gli valgono il doppio riconoscimento di miglior designer menswear e womenswear, assegnato annualmente dal CFDA (l’equivalente della nostra Camera della Moda, ndr), i risultati commerciali non sono quelli sperati; dopo nemmeno due anni, Simons lascia l’incarico, mentre Calvin Klein torna a focalizzarsi su jeans, boxer, t-shirt e altri prodotti di sicuro gradimento.

Resta invece immutata e costante, nel suo percorso, la fascinazione verso il frammentario universo giovanile, che sia espressione di specifiche sottoculture oppure di opere letterarie, musicali, cinematografiche e simili. Non a caso, Simons ricorre volentieri alle collaborazioni più disparate, considerate un trait d’union tra diverse tipologie di pubblico: bisogna citare in primis quella con adidas, iniziata nel 2013, che ha portato a calzature gettonatissime dagli sneakerhead di ogni dove, dalle Ozweego bicolori “stratificate” alle Stan Smith con la R laterale traforata.

Ugualmente significative le partnership con Fred Perry ed Eastpak: la prima, in corso dal 2008, ha visto lo stilista trattare polo e maglieria in generale alla stregua di un canvas, da riempire a seconda delle occasioni di foto d’archivio che documentano il mondo punk o skin, pannelli dalle cromie accese (fucsia, arancio, bluette, ecc.), dettagli inediti quali iniziali ricamate o pin con riprodotto il Laurel Wreath. Toppe sfrangiate, imbottiture, scritte statement e anelli in metallo, invece, sono stati i segni distintivi della gamma di borse creata per l’azienda Usa famosa per gli zaini in tessuto.

Le co-lab sono proseguite anche negli ultimi due anni, durante i quali Simons è tornato a concentrarsi sul suo brand. Poi, a febbraio, è arrivata la suddetta nomina a creative director di Prada. Proprio Miuccia, commentando la notizia, ha precisato come il progetto sia destinato «a durare per sempre»; visti i primi risultati, c’è da augurarsi che le cose vadano effettivamente in questa direzione.