Molti calciatori hanno la propria “signature celebration”, ovvero quell’esultanza che li rende riconoscibili non solo nel proprio Paese, quanto anche a livello globale. Molte di esse sono diventate addirittura più famose degli stessi calciatori. Emanuele Calaiò, bomber protagonista del triennio partenopeo (2005-2008) ha reso celebre ai più l’esultanza dell’arciere, mossa replicata oggi dall’ala sinistra della Lazio, Mattia Zaccagni. Quella di Calaiò era da considerare come un’esultanza “popolare” (nel vero senso della parola) perché aveva un significato ben preciso. Il calciatore nato a Palermo ha dichiarato come il senso fosse quello di essere considerato come un Robin Hood pronto a scoccare una freccia nel cuore dei tifosi. Al contempo, molte altre esultanze sono una sublimazione del proprio io, come quella del 28 giugno 2012 di Mario Balotelli (che chiameremo “Fletti i muscoli!” utilizzando un termine da videogioco).
Un’esultanza può anche essere sinonimo di altro: “la statua” di Mark Bresciano fu un gesto di quelli che in inglese chiameremmo “statement”, una presa di posizione che seppe di frecciatina nei confronti del suo vecchio mister, che, come possiamo leggere su questo articolo, a sua detta, lo aveva messo in panchina senza alcun tipo di motivazione valida. Allontanandoci dalle esultanze sentimentali, polemiche o divertenti, come la “You Can’t See Me” di Fabrizio Miccoli dedicata alla figura del wrestler John Cena, alcune si intersecano (volutamente o non) con la “awareness” della propria immagine. Cristiano Ronaldo ha costruito un impero attorno alla sua esultanza accompagnata dal verso quasi onomatopeico “SIIIIUUUM”: in tutto il mondo, sui campi di provincia, non c’è giocatore che non cerchi di replicarla, a volte con tentativi più che goffi, ma quel saltello è diventato a tutti gli effetti un timbro potentissimo che parla a tutte le latitudini del calcio (e non solo).
In questi primi mesi di campionato italiano, però, si è accesa una discussione riguardo una tipologia di esultanza, ovvero quella che consiste nel togliersi la maglietta in seguito a una rete segnata. Ovviamente ne abbiamo viste tante nel corso degli anni, alcune un po’ più autoreferenziali come quelle di Messi e CR7, che in seguito ai goal segnati ne “El Clàsico” hanno mostrato fieramente il proprio nome stampato sul retro della jersey, altre che invece sono da interpretare come un urlo liberatorio, perché i goal pesano come un macigno, esattamente come quelli segnati rispettivamente da Arek Milik nella sfida contro la Salernitana terminata per 2-2 lo scorso settembre, e da Olivier Giroud nella sfida di due giorni fa tra Milan e Spezia. Il polacco (già ammonito) si è tolto la maglietta dopo il goal del 3-2 venendo così espulso: tutto inutile considerando l’annullamento del goal e la conseguente assenza nella sfida esterna contro il Monza (oltre al danno anche la beffa). È successo lo stesso a Olivier Giroud, dopo aver messo a segno una rete stratosferica con cui ha salvato il Milan al minuto 89 dopo che i liguri avevano pareggiato il match con un incredibile (in tutti i sensi) goal di Daniel Maldini. Il francese, preso dalla foga, dall’emozione e da qualsiasi tipo di sentimento che si può provare in seguito a una marcatura così importante, si è tolto la maglietta dimenticandosi di essere stato ammonito solamente 6 minuti prima.
La domanda (seppur retorica) sorge spontanea: successivamente alla noiosa introduzione tecnologica del VAR – che in parte, e in vari spezzoni di partite soffoca le emozioni dei calciatori e dei tifosi e alimenta solo nervosismo e frustrazione – è davvero necessario continuare ad applicare una regola che prevede una sanzione automatica? La risposta, tristemente, è sì. Nell’attuale era iperconnessa ed ipertestuale, le immagini circolano alla velocità della luce e, in ambito sportivo le più iconiche sono sempre quelle in cui i calciatori sono in procinto di festeggiare con i propri compagni e con i propri tifosi. Gli stessi non possono (in alcun modo) “nascondere” badge dei club e loghi degli sponsor tecnici togliendosi la maglietta da gara, in quanto i marchi avrebbero molta meno visibilità. Inoltre, la norma della UEFA parla chiaro: “un calciatore che si toglie la maglia dopo aver segnato una rete, sarà sanzionato con un’ammonizione per comportamento antisportivo“, e ci fa presagire che non sarà facile da annullare in alcun modo, così come la seguente della FIFA: “I calciatori possono festeggiare la segnatura di una rete, ma tale festeggiamento non deve essere eccessivo”. Entrambe le regole fanno riferimento ad alcune esultanze dei primi anni 2000, come quella un tantino esagerata di Antonio Cassano nel Roma – Juve del 2004, che come ci riporta questo articolo di Minuti Di Recupero, aveva fatto infuriare Pierluigi Collina aprendo una discussione ai vertici della FIFA. Va invece demistificato ciò che aleggia attorno alla leggenda di Sweet Years. Bobo Vieri, che assieme al suo amico Paolo Maldini era co-founder del brand, nel 2004 esultò alzandosi la maglietta e mostrandone una con il cuore, simbolo del brand, una mossa di marketing che durò ben poco in quanto entrò poco dopo in vigore il ban per questo genere di festeggiamento.
Dall’altro lato, togliersi la maglietta per esultare ha il suo fascino anche perché è simbolo di trasgressione e sregolatezza, è forse anche questo il motivo per cui sono tanto diffuse. Se diventasse “legale”, siamo sicuri che lo farebbero ancora così tanti calciatori?