Il ritorno della Biennale d’Arte a Venezia è stato uno degli eventi più importanti e significativi per l’universo culturale italiano di questo 2022. Per chi fosse totalmente digiuno dell’argomento, si tratta infatti della massima manifestazione italiana, nonché una delle più importanti a livello globale, per quanto riguarda lo stato dell’arte contemporanea. Organizzata nella laguna veneta, nelle due sedi dei Giardini e dell’Arsenale, la Biennale d’Arte è curata da Cecilia Alemani, che ha proposto come titolo “Il Latte dei Sogni”. Oltre a ciò, numerosi paesi hanno la possibilità di presentare il proprio padiglione, esponendo uno o più artisti all’interno della kermesse veneziana. Così anche l’Italia, che quest’anno ha presentato il proprio padiglione, intitolato “Storia della Notte e Destino delle Comete” e curato da Eugenio Viola (attuale direttore del MAMBO di Bogotá).
“Storia della Notte e Destino delle Comete” è una mostra che si sviluppa tra le menti di Viola e Gian Maria Tosatti, unico artista del padiglione, che ha avuto l’onore di presentare la proprio opera, proponendo un’installazione ambientale che si sviluppa per tutto lo spazio espositivo.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Eugenio Viola, per chiedergli della nascita del padiglione, del suo rapporto con Tosatti, della sua esperienza in Colombia e del perché questa mostra riguarda i più giovani.
“Storia della Notte e Destino delle Comete” è un titolo estremamente evocativo, in cui traspare una dimensione fortemente narrativa. È stata una cosa cercata e voluta? Oppure è arrivata nel corso della lavorazione del progetto?
Tutto in questo progetto è cercato e voluto, il caso non rientra nei fattori che hanno contribuito alla genesi dell’opera che si struttura con una sintassi irriducibilmente teatrale. Il progetto espositivo parte dalla materia offerta per mischiarla con la letteratura, la performance, il teatro, le arti visive e l’architettura – come spesso accade nel lavoro di Gian Maria Tosatti – e conferire forma a immagini che vogliono essere una guida, una scintilla per il futuro. La Storia della Notte è una metafora che si offre a molteplici interpretazioni, un titolo che si riferisce a uno dei potenzialmente infiniti scenari possibili e che parte dalla storia dell’ascesa e del declino del cosiddetto “miracolo italiano”. È il sonno della ragione che genera i mostri cui stiamo assistendo in Ucraina durante questi mesi drammatici, ma è lo stesso intorpidimento in cui si è sviluppata la pandemia che ha rivelato lo stato di un pianeta guasto. Con il Destino delle Comete ci si interroga su quale sia il futuro degli uomini: le comete, metaforicamente parlando.
Il padiglione si muove su spazi e temi che intrecciano passato e presente, andando a toccare un momento quasi mitico per la storia dell’industria italiana, come quello del “miracolo economico”. Come mai avete scelto quel preciso momento storico per partire con il lavoro?
Perché quelli sono stati gli anni in cui una giovane nazione come l’Italia – che diventa il simbolo di un certo tipo di atteggiamento – ha in qualche modo scelto di attuare tutta una serie di politiche che hanno favorito la logica del profitto in maniera del tutto indifferente ai delicati equilibri ambientali che caratterizzano il territorio.
Nel primo Padiglione Italia post shock pandemico abbiamo fatto della riflessione sulla sostenibilità delle nostre azioni il fulcro propagatore di un complesso sistema narrativo. La mostra nasce proprio dalla necessità di offrire uno statement eloquente sulla condizione attuale dell’umanità alla luce dei fenomeni di cui abbiamo avuto esperienza in tempi molto recenti. Ci stiamo rendendo sempre più conto di quanto l’urbanizzazione e le conseguenze legate allo sviluppo antropogenico abbiano profondamente alterato gli ecosistemi su scala planetaria. Abbiamo preso l’Italia e la sua storia come esempio per offrire l’allegoria di una condizione comune. La fuga della diossina tra Seveso e Meda; la nube di arsenico a Manfredonia; l’incidenza di tumori e leucemie nei territori di Taranto e di Bagnoli; i rifiuti tossici, sotterrati per anni e bruciati nella cosiddetta “terra dei fuochi” di cui parla Roberto Saviano; gli operai di Taranto che fanno un bilancio tra morire di cancro o di fame.
Le lacerazioni e le contraddizioni della società che ha smascherato la nostra condizione meta-pandemica, offrono oggi l’opportunità di riconsiderare una serie di temi centrali per la nostra esistenza, individuale e collettiva. Il genere umano ha la possibilità, ancora una volta, di soffermarsi sulle macerie di una crisi, per capire se sotto di esse possano crescere, oltre le facili retoriche, nuove possibilità per il futuro.
La mostra tocca un tema fondamentale come quello del lavoro, che negli ultimi due anni è stato iper presente a livello di mostre. Perché sentiamo l’esigenza di ridiscutere così profondamente questo tema ad oggi?
Perché il lavoro nobilita l’uomo, è fondamentale a livello genetico per garantire un’evoluzione. Il problema è quando lo scopo di conferire dignità all’esistenza viene a perdersi completamente nella corsa disperata a generare profitto, da cui tutti gli scenari che conosciamo.
Lo spazio del Padiglione Italia è immenso, per certi versi può risultare spaventoso, e proprio per questo è stato spesso riempito con collettive affollate, fino agli ultimi anni in cui si è vista una drastica riduzione del numero di artisti – prima con Cecilia Alemani, poi con Milovan Farronato. Come ti sei approcciato ad esso? Non hai avuto un po’ di horror vacui scegliendo un solo artista?
La scelta di un unico artista è scaturita dalla volontà di porre finalmente il Padiglione Italia in competizione con le altre partecipazioni nazionali che da tempo sono abituate a presentarsi con una proposta univoca e secca. Quindi, utilizzando una definizione che credo rispecchi bene questa scelta, ho preferito allo schema trinitario proposto dai miei ultimi predecessori, un artista che sia invece uno e trino. Il progetto di Gian Maria Tosatti è visionario e complesso, e sono molto grato alla Direzione Generale Creatività Contemporanea e al Direttore Generale Onofrio Cutaia per aver creduto in questa scelta, apparentemente radicale, ma credo necessaria.
Come ho dichiarato più volte, considero il lavoro di Gian Maria Tosatti un unicum nel panorama artistico italiano e internazionale. È un artista che ha una padronanza assoluta dello spazio, il che è dovuto anche alla sua formazione eccentrica, che interseca i territori dell’arte e i “domini dell’abitare”, per citare il titolo di un libro del mio maestro, Angelo Trimarco, con il “peccato originale” del teatro, che contribuisce a dare al suo lavoro un approccio scenografico e introspettivo travolgente.
Da questo punto di vista, quali sono le difficoltà nel realizzare una mostra del genere?
Alla luce di quanto detto prima: la messa a punto di una narrazione per immagini in un contesto del tutto anomalo per Gian Maria, abituato a intervenire in luoghi preesistenti. In questo caso è stato ricreato tutto ex novo, ogni ambiente, situazione, atmosfera, suggestione.
A parte la messa a punto di certi aspetti tecnici della realizzazione dell’opera, la parte più complessa, come in tutti i progetti ambiziosi, è stata sicuramente la raccolta fondi e per questo ringrazio infinitamente i nostri main sponsor, Valentino e Sanlorenzo, lo sponsor Xiaomi, tutti quelli che hanno voluto credere in questo progetto, riconoscendosi negli ideali alla base del suo concepimento.
Gian Maria Tosatti è un artista con cui collabori da anni. Non era scontato che decidessi di portarlo in mostra, soprattutto da solo. Come mai la scelta è ricaduta proprio su di lui?
Credo di aver già risposto in precedenza, ma aggiungo un aneddoto: ho conosciuto Gian Maria nel 2011 a Roma, ero stato in visita a una sua mostra che si intitolava “Testamento – devozioni X”. L’ho ritrovato poi a Venezia, in occasione della Biennale, per caso, per strada, e lì abbiamo deciso di sviluppare un progetto insieme a Napoli che sarebbe poi diventato una lunga saga curatoriale. Dopo quell’esperienza gli dissi che se mai avessi avuto occasione di curare il padiglione nostrano avrei affidato a lui i volumi delle Tese. Così è stato.
Che ruolo ha lo spettatore all’interno del padiglione? Quanto è attivo e partecipe, e quanto semplice osservatore?
Il visitatore si troverà catapultato in uno scenario familiare, ma a tratti disturbante, che si conclude con una vera e propria epifania. Tutte le informazioni supplementari saranno fornite al termine del percorso. È importante che ci sia una reazione personale, che questa esperienza lasci più domande di quelle con cui si è entrati. Credo sia questo il segreto di un’opera davvero riuscita.
In che modo ti sei relazionato con il tema proposto da Cecilia Alemani?
Il tema indicato da Cecilia Alemani, curatrice della 59. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, “Il Latte dei Sogni” si ispira all’omonimo libro dell’artista surrealista Leonora Carrington e si basa sull’idea che i mezzi messi a disposizione dell’arte possano offrire dispositivi in grado di reinventare la realtà. Questo è esattamente quello che facciamo nel padiglione con un approccio archeologico al presente, trasformiamo oggetti, ambienti, odori e rumori prelevati dal reale in oggetti scultorei, restituiamo le micro-storie del nostro paese in una grande narrazione influenzata da moltissimi linguaggi, per costruire nuove memorie.
Il tuo sguardo verso l’Italia è da emigrato, che guarda dalla Colombia. In che modo sono legate la tua esperienza di curatore presso il MAMBO di Bogotá e presso il Padiglione Italia?
Il mio approccio curatoriale, che si è costruito in un percorso che da Napoli mi ha portato a Perth in Australia, da lì a Bogotá e infine qui, accanto a un compagno di strada fondamentale.
Considero quest’opera come il capitolo culminante di un romanzo visivo in episodi che con Gian Maria stiamo scrivendo sin dal nostro primo incontro, in occasione del progetto napoletano: “Sette Stagioni dello Spirito”. Una vera e propria saga curatoriale durata 3 anni e culminata nel 2016 con una mostra al Madre, la mia ultima da curatore del Museo. Abbiamo riaperto sette luoghi monumentali di Napoli, abbandonati dalla Seconda Guerra Mondiale o dal terremoto dell’80. Riparto, dunque, per questa nuova avventura con Gian Maria, riallacciando una serie di interrotti transiti, legati proprio alla mia città. Perché credo che in realtà il filo che lega tutte queste esperienze sia una certa visione del mondo che parte sempre da sud. Il mio è un viaggio esistenziale: sono sempre stato attratto da realtà eccentriche, nel senso etimologico del termine, “ex centrum”, quindi fuori dal centro, che mi hanno riservato grandi sorprese sotto il profilo curatoriale. Mi sono trasferito agli Antipodi in base alla stessa logica: penso a un continente come l’Australia per me prima inesplorato e, diversamente dal Sud America, un ecosistema artistico a me prima ignoto. Sono nato a Napoli, ho studiato e ho cominciato a lavorare nel meridione, poi è venuto l’incarico nell’emisfero sud del mondo, quindi l’approdo in America Latina. Napoli è stata una buona palestra, devi essere un combattente per vivere in questa città. A parte le debite differenze noto grosse similitudini tra le realtà di Bogotá e quella di Napoli: sono entrambe città che vivono al limite. Bogotá è una versione esplosa della mia città natale. Qui ritrovo l’anarchia e l’entropia creativa, la stessa gioia di vivere malgrado tutte le criticità. Ho accettato l’incarico di Capo Curatore al MAMBO perché qui posso essere parte di un processo di ricostruzione civile e sociale attraverso la cultura, e questo è un privilegio, ma anche una responsabilità enorme.
Il nostro magazine si rivolge ad un pubblico di ragazzi e ragazze anche molto giovani che di arte contemporanea sono spesso digiuni, come li convinceresti a venire a vedere il tuo padiglione? E in che modo il Padiglione Italia può parlare a loro?
Gli direi che non è necessario essere nutriti di storia dell’arte contemporanea per visitare questo Padiglione, non è richiesta alcuna preparazione, solo attenzione. Il Padiglione Italia non solo parla “a” loro, ma parla anche “di” loro, da dove vengono, in quale paesaggio sono cresciuti e forse vuole aiutarli a capire dove stanno andando, dove stiamo cercando di andare, dove potremmo andare.