C’è stato un periodo nella storia della cultura pop italiana in cui una singola persona è riuscita a penetrare non solo nelle coscienze di migliaia di bambini, ma anche e soprattutto in quelle dei loro genitori, portandoli a un gesto che mai più avrebbero ripetuto nel corso delle loro vite. Quella persona si chiama Roberto Baggio e quel gesto era cambiare la propria acconciatura di capelli facendosi crescere un codino. Divino, quando era portato dal giocatore nativo di Caldogno, molto meno quando a mostrarlo eravamo noi.
“Il Divin Codino“, la storia di Roberto Baggio, è disponibile ora su Netflix, ma non vogliamo soffermarci su questo, bensì su quanto Roberto Baggio abbia convinto tutti i bambini che lo guardavano scendere in campo a farsi il codino.
Permettiamoci di usare la prima persona plurale perché tra quei bambini degli anni novanta influenzati da Roberto Baggio c’eravamo anche noi e, soprattutto, chi ora sta scrivendo. Erano gli anni in cui il codino stava vivendo, in realtà, il suo massimo splendore, perché a portarlo, oltre a uno dei numeri 10 più iconici del nostro calcio, erano anche personaggi televisivi che stavano vivendo il loro massimo splendore come Fiorello, e altri calciatori molto riconoscibili come il francese Emmanuel Petit. Senza prenderci in giro, però, l’unico vero motivo per il quale i bambini di mezza Italia portarono, per un periodo di tempo piuttosto lungo, il codino era lui: Roberto.
Tutti volevamo essere come lui in quegli anni. I dribbling ubriacanti, la grazia, i gol a raffica. Non c’era niente di Roberto Baggio che i ragazzi non volessero imitare. E lo facevano ogni volta che potevano. A scuola, all’intervallo, l’appuntamento era fisso: nel cortile in cui terra ed erbaccia si mischiavano a formare una poltiglia indistinguibile andavano in scena partite epiche. Animati da una lore che si rifaceva al tempo stesso a Holly e Benji e alla Serie A di quegli anni (dal 1997 al 2002 circa), la vera lotta andava in scena prima di scendere in campo.
«Io faccio Baggio!». Il primo a pronunciare queste parole si accaparrava il diritto di rappresentare il codino più famoso d’Italia nella partita successiva. Agli altri restavano le briciole, che all’epoca voleva dire accontentarsi di nomi come Vieri, Crespo o Del Piero. I campetti degli oratori erano pieni di codini al vento, maglie numero 10 e, in qualche misura, anche di scarpe Diadora rigorosamente nere con il logo giallo fluo. Roberto Baggio fu in grado di fare anche questo: portare dei bambini da tutta Italia a preferire un brand come Diadora ai colossi Nike e adidas, che dalla loro potevano contare sui maggiori talenti dell’epoca, oltre che su prodotti iconici.
Questo, però, interessava a pochi. Perché nessuno era ammantato da una coltre magica come Roberto. I ragazzi di questa generazione, nati agli inizi degli anni Novanta, hanno pochi ricordi del Baggio di Pasadena. Quello che sbaglia il rigore in finale a USA ‘94 contro il futuro portiere del Parma Taffarel. Per i ragazzi degli anni Novanta Baggio non è quello del grande tradimento di Firenze: quello l’hanno vissuto i loro genitori, sedotti e abbandonati da uno dei primi giocatori moderni a preferire le luci della ribalta torinese al calcio di provincia a tinte viola. Il “nostro” Roberto è quello di Bologna, dei mondiali ‘98, e successivamente di Brescia, ritornato a una dimensione terrena dopo essere stato Divino in altri lidi. Ci piaceva perché, tutto sommato, assomigliava ai nostri papà. Un uomo normale, appassionato di cose normali, che potevi trovare a cena in un ristorante di paese (curiosamente è stato cliente abituale di una trattoria di provincia nel pavese, ad esempio), ma allo stesso tempo capace di azioni straordinarie.
Il suo codino ci faceva sentire uguali a lui anche solo per un momento. Accompagnavamo il pallone con i piedi e, anche se eravamo terribilmente sgraziati, le nostre telecronache improvvisate riempivano di leggenda anche i due tiri al campetto dopo scuola. Non saprei come, ma quell’acconciatura era in grado di rendere possibili anche le cose impossibili. Non avresti mai tentato un pallonetto dal limite dell’area se non avessi avuto il codino. Potevi farlo perché in quel momento a calciare non eri tu, ma era Roberto Baggio all’ultimo minuto della partita decisiva per vincere il campionato. E allora valeva tutto. Il fatto che poi quel tiro non entrasse in porta era secondario: la cosa importante era provarci, ed esibire quell’esercizio di stile in fatto di capelli ripetuto anche dopo Roberto, ma che nessuno ha saputo replicare come lui.
L’immagine che racchiude in modo perfetto gli anni Novanta è rappresentata da quel campo polveroso in mezzo al quale due squadre di bambini si rincorrono. Uno di loro ha una maglia azzurra, una di quelle che si compravano alle bancarelle delle feste di paese. Copie in alcuni casi fedeli, ma di certo non autentiche, delle divise originali delle squadre che seguivamo. Su quella maglia c’è disegnato, in bianco, un sinuoso numero 10. Il ragazzino ne dribbla uno, poi due, è vicino alla porta. Tocco di piatto e palla che si infila in mezzo alle due felpe che fanno da pali. I ragazzini della squadra avversaria imprecano, lui scoppia di gioia, i compagni lo abbracciano. Mentre corre verso la propria metà campo, ancora emozionato per quel gol, sulla parte alta della sua schiena un codino si muove a destra e poi a sinistra. L’essenza di ciò che è stato Roberto Baggio per la “generazione Novanta” sta tutta qua: in un’immagine sfocata di un mondo diverso da quello di oggi e in un taglio di capelli che ha influenzato migliaia di famiglie italiane.