Sciatti chic di proposito

Sono tre anni che ci raccontano del grande ritorno dell’indie sleaze ma sembra più un mito urbano che un fenomeno reale. Secondo Mandy Lee, trend forecaster (@OldLoserInBrooklyn), ci sono una marea di indizi per cui è evidente che l’indie sleaze sia tornato. Dopo la pandemia, abbiamo visto quell’estetica sciatto chic che ha invaso film e musica, con riferimenti all’indie sleaze dappertutto, da Saltburn alla lettera d’amore di Alex Turner per Alexa Chung condivisa fino alla noia. 

Ma la verità è che l’indie sleaze, in realtà, non è davvero esistito. Non come movimento, almeno. L’etichetta è stata applicata retroattivamente a un’epoca che era più un’atmosfera che una tendenza definita. Erano gli anni delle Polaroid, delle Jeffrey Campbell, dei jeans strappati, e delle feste sfocate quanto i selfie che vi si scattavano. E come ogni fenomeno troppo amato, è stato inghiottito dal mainstream, idolatrato da chi soffre di una nostalgia cronica per i “bei vecchi tempi”— quei tempi con insidie già ben visibili anche senza il filtro “Bold Glamour”.

L’indie Sleaze non è mai stato una vera subcultura, ma un patchwork disordinato di stili, musica e atteggiamenti presi a caso, alimentati da feste indie malriuscite e i blog di moda. Per chiunque avesse una pagina Tumblr con The Strokes o gli Yeah Yeah Yeahs come colonna sonora, Alexa Chung, Sky Ferreira, Chloë Sevigny, le gemelle Olsen erano loro i volti di un’epoca di trasgressione disinvolta, in cui il DIY sperimentale era il manifesto dei cool kidz.  Il “chi se ne frega” alla Effy Stonem era più una posa che una ribellione autentica, in una generazione che fingeva di respingere il mainstream—mentre ci sprofondava dentro.

Eppure, proprio questa ambiguità ha reso l’indie sleaze un fenomeno unico, un simbolo di una libertà creativa che oggi viene rivalutata in modo nostalgico. Ma resuscitare questa estetica senza riflettere sui suoi lati problematici è inquietante.L’indie sleaze originale era un coacervo di modelli tossici: l’ossessione per corpi emaciati, situazioni di abuso romantico, e una certa nonchalance verso l’appropriazione culturale. 

Se stiamo per riesumare l’indie sleaze, forse è il momento di farlo con un po’ più di buon senso. Byrdie ci mette in guardia: “Mentre siamo entusiasti per il ritorno dell’estetica ‘messy girl’, è fondamentale che curiamo una versione più sana e inclusiva del trend nel 2024.”

Glorificava uno stile di vita autodistruttivo—droghe, alcol e disturbi alimentari elevati a status symbol, con l’estetica “heroin chic” a fare da bandiera. Un modello di bellezza pericoloso fatto di corpi scheletrici e abitudini tossiche che oggi vediamo già tornare in passerella, pronti a cestinare il movimento body positivity (durato, letteralmente, da Natale a Santo Stefano), in favore dell’Ozempic-mania.

Per quanto non si tirino indietro dal surfare l’onda dei ricordi, non sono i millennial che lo hanno vissuto in prima persona a riportalo in vita, ma la Gen Z, cresciuta a pane e smartphone, si è innamorata dell’estetica di un’epoca in cui internet era un po’ meno opprimente.

Eppure questo revival sembra più un tentativo maldestro di scappare dalla tirannia dell’immagine sempre più perfetta che un vero ritorno allo spirito degli anni 2000. Cercare un legame tra passato e presente può essere confortante, ma quello che stiamo rivivendo è una parodia. Tutto è coreografato per sembrare autentico, ma di autentico non ha nulla. L’indie sleaze ha bisogno dello ‘sleaze’ per esistere—trucco sbavato, denti storti, elementi che stonano con le faccette perfette e i filler dell’era delle iPhone faces.

Oggi, il revival dell’indie sleaze si riflette in figure come Olivia Rodrigo e The Dare, ma c’è qualcosa di stridente nel modo in cui si presenta. Rodrigo, con le sue t-shirt grafiche e gli stivali alti, cerca di evocare quell’aria di ribellione sfrenata, ma la verità è che tutto appare troppo curato. Olivia Rodrigo forse incarna il mood, ma il suo stile è ben lontano dai look arrabattati del 2010 e forse l’”indie sleaze” non è mai mai riuscito veramente a tornare perché il caos non si può programmare.

C’è una beffa sottile nel revival: nato come ribellione contro le regole, ciò che era anarchico si è ridotto a un’estetica preconfezionata, replicabile con un tutorial su TikTok. La Gen Z si sbava il trucco seguendo istruzioni, pensando che comprarsi una Balenciaga da rovinare appositamente possa evocare l’aria vissuta delle gemelle Olsen. Ma la verità è che quel “look trasandato” era costruito su una vera autodistruzione, non su un video “how to” per distruggere una borsa da mille dollari.

Non che l’indie sleaze dei millennial fosse più “autentico”.La differenza non sta tanto nel contenuto, quanto nel contesto. All’epoca, non c’erano algoritmi pronti a capitalizzare ogni look. Non c’era una guida in dieci passi per apparire disordinati, perché il disordine era semplicemente parte del pacchetto. I millennial vivevano una trasgressione più istintiva, meno sorvegliata. Il caos era reale—o almeno più difficile da replicare in massa. 

L’indie sleaze appartiene a un momento che, come certi ricordi adolescenziali, sarebbe meglio lasciar sepolto.