Qualche mese fa, mentre cazzeggiavo sul divano con il telefono in mano, mi è passato sotto le dita il titolo di un articolo che faceva più o meno così: “Cambiamento climatico: nel 2050 non produrremo più vino”. Al di là del tono apocalittico e della curiosa abitudine per cui ormai il 2050 sembra la data di scadenza per qualsiasi cosa sul nostro pianeta, il titolo mi ha ricordato l’estate scorsa, in cui per la prima volta si è sentita davvero la mancanza d’acqua. Sono piemontese, se mi affaccio dal balcone posso vedere all’orizzonte le Langhe, una delle terre da vino più famose e importanti al mondo. La scorsa è stata l’estate più secca di sempre. Non ha mai piovuto, i fiumi erano gialli, i campi secchi, bruciati. Qualche produttore di vino, guardato dagli altri con scetticismo, ma anche con curiosità, ha cominciato la vendemmia in pieno agosto, anticipando la tradizione e le abitudini di oltre un mese. Viviamo in tempi di 5G e realtà aumentata, ma per tante persone, soprattutto per chi lo fa per necessità, ascoltare la terra è un fatto naturale. E se la ascolti per abbastanza tempo e con abbastanza attenzione, la terra ti parla.
Il vino è qualcosa che conosciamo tutti, spulciare la carta dei vini al ristorante è una piacevole abitudine per molti. Io non sono un esperto, ma ho imparato ad amare il vino anche grazie alle sue storie, e non solo attraverso il bicchiere. Ce n’è una in particolare tanto romantica e tragica che sembra che sia stata scritta da Shakespeare. È la storia di Matteo Correggia e io, per rispetto nei confronti della sua storia e dei suoi protagonisti, mi limiterò a riportarla per come mi è stata raccontata da Giovanni, il figlio trentenne, e le persone che l’hanno conosciuto. Vi chiederete cosa c’entri questa storia con il cambiamento climatico. Non preoccupatevi, ci arriveremo.
Per raccontare questa storia, innanzitutto, è molto importante capire dov’è ambientata. Il Roero è una zona che non molti conoscono e quasi nessuno sa mettere sulla cartina. Siamo nel basso Piemonte e c’è solo un piccolo fiume a separarla dalle Langhe, una delle mete italiane più visitate lo scorso anno da designer, attori hollywoodiani, influencer, turisti stranieri e italiani. Le Langhe sono conosciute in tutto il mondo per il tartufo bianco e vini rossi che arrotondano la bocca e allargano il cuore. Roba pregiata come il Barolo e il Barbaresco, oppure più accessibile come il Nebbiolo d’Alba. Il Roero sta lì, dall’altro lato dal fiume, così vicini che potrebbero sembrare la stessa cosa. Invece non potrebbero essere più diversi.
La terra del Roero è sabbiosa e gialla. Le Langhe sono rosse di argilla. Nelle Langhe il profilo dell’orizzonte è cullato dalle colline, nel Roero ci sono le Rocche, formazioni che ricordano il deserto dell’Arizona. Nelle Langhe si producono vini rossi pregiati. Nel Roero invece vini bianchi da tavola, non frizzanti.
È in questa terra, sulla sponda meno conosciuta del fiume Tanaro, che nasce Matteo Correggia, un ragazzo tanto brillante quanto silenzioso. Giovanni Battista, il padre, possiede un pezzettino di terra, ma non pensa minimamente al vino. Ha piantato qualche albero da frutta, fa pascolare qualche animale. Matteo in quel pezzo di terra ci cresce e quando è solo un ragazzino, inizia anche a lavorarci. Nulla di eccezionale, anzi una cosa piuttosto normale in campagna. Matteo tutti i giorni va nel campo per un paio d’ore prima di entrare a scuola. In quei momenti prima dell’alba, quando i filari sono ancora poco illuminati dal sole che sta sorgendo, Matteo impara ad ascoltare la terra e a conoscerla, ancora senza sapere che quelle ore di ascolto e di lavoro gli torneranno utili poco più di 10 anni dopo, quando suo papà morirà a metà degli anni ’80 e lui avrà solo 23 anni.
Matteo trasforma quelle piante da frutto in viti con cui produrre uva da rivendere. Non è una bestemmia che chi coltivi l’uva lo faccia per vendere il frutto e non il vino. Sono figure nascoste, un passo indietro ai nomi che leggiamo sulle etichette delle bottiglie, ma non meno presenti o importanti.
Poi, come spesso accade, basta una frase, un dubbio instillato nel momento giusto, per cambiare il corso della storia di Matteo e di una regione intera.
Nei campi, un giorno arriva Roberto Voerzio, un produttore di Barolo di La Morra, uno splendido balcone che si affaccia sulle Langhe. Roberto si faceva vendere l’uva che produceva Matteo per produrre un po’ di vino bianco, fermo, senza bollicine, da aggiungere al suo catalogo. Da grande osservatore e conoscitore di vino, aveva visto come quel ragazzino si muoveva tra i filari delle viti e aveva assaggiato quello che Correggia aveva cominciato timidamente a mettere in qualche bicchiere e così quel giorno lo affrontò di petto: «Matteo, ma perché continui a vendermi la tua uva per quattro soldi? Tienitela e inizia a fare tu il tuo vino». Correggia, che sa ascoltare, sapeva anche che in quella terra si poteva fare qualcosa. La conosceva fin da ragazzino e da quel momento l’aveva studiata mentre ci lavorava. Quando guardava dall’altra parte del Tanaro, sognava un giorno di produrre anche lui vino.
Ed è qui che la visione di un uomo cambia il destino di una zona intera, perché Correggia non si accontenta di fare vino come gli altri nel Roero, ma comincia a piantare le stesse uve che piantano nelle Langhe: uve da vini rossi, uve viste poco o forse per nulla nel Roero. Libero dalla scure del “abbiamo sempre fatto così”, si mette in testa di produrre un vino che possa stare sulla stessa tavola con il Barolo e il Barbaresco, con i vini che stanno facendo la storia dell’enogastronomia italiana. La struttura è diversa, lo sa bene. La terra delle Langhe, con la sua argilla, dà al vino un corpo maggiore, che riempie la bocca quando passa tra la lingua e il palato. La sabbia del Roero non riesce a dare quel corpo, ma Matteo capisce che può trasformare quella debolezza in un’opportunità. Quello che perde in struttura, Correggia lo guadagna in eleganza. Propone alle persone un vino più semplice, che tutti, intenditori e non, possono apprezzare, esattamente come stava facendo un gruppo di ragazzi di Langa con la voglia di rompere con la tradizione. Qualcuno li chiama “i modernisti”, ma sono passati alla storia come i Barolo Boys.
Alla fine degli anni ’80, mentre Matteo Correggia cominciava a mettere il Roero sulla mappa del vino piemontese, un gruppo di produttori di vino entra in guerra aperta con le proprie famiglie e le consuetudini. Roba forte, roba pericolosa, soprattutto in una società contadina, soprattutto in Piemonte, dove l’abitudine è l’unica forza che regola lo scandire del tempo. Questi ragazzi si erano convinti che il Barolo che producevano le loro famiglie era un vino troppo complicato, che aveva bisogno di riposare anni e anni prima di poter essere bevuto e apprezzato. Così si guardano attorno e dai francesi imparano che se il vino fermenta in una botte di legno più piccola del normale, una barrique, esprime prima il suo potenziale, senza dover stare chiuso in bottiglia per anni.
Creano una vera e propria spaccatura che infiamma la Langa e arriva fino in America, dove l’attenzione dei media enogastronomici inizia a concentrarsi su quello che sta succedendo sulle colline del sud del Piemonte. Ancora oggi qui, nelle cantine e nei bar dell’aperitivo, le persone si ricordano degli scontri tra Elio Altare, il leader dei Barolo Boys, e Bartolo Mascarello, il riferimento dei “tradizionalisti”.
Molti dei Barolo Boys vengono diseredati dalle famiglie, e con i pochi soldi rimasti aprono cantine che ancora oggi producono vino con il metodo “moderno”. Sono tra le più importanti al mondo. È un momento particolare e bellissimo. Si respira aria di lotta, è vero, ma anche di opportunità, di fratellanza e di fiducia. Non essendoci nessun grande produttore tra questi ragazzi che hanno rotto con la tradizione per provare una strada nuova, la circolazione di idee è al massimo. Ci si trova quasi tutti i giorni nella cantina di uno e dell’altro, si porta il proprio vino e si domanda agli altri cosa ne pensino. Ed è in questo gruppo di ragazzi delle Langhe che un giorno viene invitato Matteo Correggia, l’unico roerista tra i Barolo Boys.
Quasi non ci si capacitava di come quel ragazzo, che nel frattempo ha davvero messo il Roero sulla cartina portando la Denominazione di Origine Controllata “Roero”, riuscisse a produrre un vino così pieno, così profumato e corposo in una terra di vini bianchi.
Matteo aveva capito quanto fosse importante farsi riconoscere, e così le sue etichette le fa disegnare da un artista uruguagio che si è innamorato del Roero una volta che era in viaggio in Italia. Coco Cano immortala quelle colline con un tratto a metà tra il pittorico e il graphic design sulle bottiglie di Matteo. Dalla fine degli anni ’80 a oggi quelle bottiglie non sono mai cambiate e sono così iconiche che ci si mette un secondo a riconoscere una bottiglia di Matteo Correggia nelle mani di Eddie Vedder, il leader dei Pearl Jam, in una foto che gira su internet.
Un gran vino, una bella immagine e il Roero come bandiera. Già, perché Matteo non solo non ha dimenticato da dove arriva, ma anzi crede che sia finalmente arrivato il momento per iniziare a far conoscere la sua terra al mondo. Non chiama il suo vino “Langhe Nebbiolo”, come la legge gli permetterebbe di fare, ma semplicemente “Roero”. Commercialmente è un danno, ma ci sono cose più importanti delle vendite. Ricordarti da dove vieni e amare la terra che coltivi, per esempio.
Matteo Correggia è considerato dagli esperti uno dei più promettenti produttori di vino in Italia, nonostante non arrivi da una famiglia di vino e non abbia ancora 40 anni.
Poi un giorno, l’orrore. La mattina è calda e secca, il tempo ideale per lavorare in vigna. È iniziato giugno e in queste settimane le viti crescono a vista d’occhio. La vendemmia è lontana ancora tre mesi, ma il lavoro è già entrato nel vivo e le cose da fare sono così tante, che due persone quasi non bastano. I campi di Correggia sono cresciuti da quando li ha presi in mano lui, sedici anni fa, e qualche mese fa Matteo ha assunto un enologo, Luca, per insegnargli la sua idea di vino e farlo crescere in azienda. Stamattina Matteo è uscito di casa per mettersi alla trincia.
La trincia agricola è una specie di tagliaerba con dei coltelli che ruotano perpendicolari al terreno, per sminuzzare arbusti, rami caduti, rovi, e lasciare il terreno pulito.
L’ha fatto migliaia di volte, è un classico lavoro di campagna, non c’è bisogno di essere esperti com’è lui. Ma in campagna, specie quando si è in pochi, tutti fanno tutto.
È appena partito, la trincia si sta scaldando e i coltelli iniziano a distruggere i primi arbusti che incontra, quando passa su un pezzo di terra che fa un rumore strano. È un tintinnio impercettibile, specie con il rumore del motore a nafta che gorgoglia. I coltelli agganciano un pezzettino di ferro, e lo scagliano indietro, fuori dalla protezione posteriore, con un angolo assurdo. Quasi verticale. La trincia spara il pezzo di ferro in faccia a Matteo, che grida e si porta le mani al volto, all’altezza del naso. Si volta, fa qualche passo, vede Luca e ha la forza per dire: «Aiutami». Si accascia per terra e non si alza più. La lastra spiega che il ferro è entrato nell’occhio ed è arrivato in testa. Matteo Correggia muore a 39 anni, il 15 giugno 2001. È stato “la cometa del Roero”.
Questa storia, tutta la storia di Matteo, non tanto la sua tragica fine, mi ha sempre affascinato, ma solo da qualche tempo ho capito il perché. È una storia che insegna a credere nei propri talenti senza doverlo sbandierare. Ad andare avanti per la propria strada, anche se persino tuo padre non è d’accordo. È una storia che dimostra che l’essere viene sempre prima e pesa molto più dell’avere. È una storia che insegna a passare il tempo che abbiamo in questa vita facendo quello che amiamo fare, con le persone con cui amiamo stare.
Nella cantina che porta il nome del suo visionario fondatore sono rimasti Ornella, la moglie che ha creduto fin da subito in Matteo e nella sua idea, Giovanni, 9 anni, e Brigitta, 7.
Sono rimasti i suoi vini, il Roero base, la Val dei Preti, che nulla hanno da invidiare ai Nebbioli di Langa; il Marun, una barbera superiore che ti arrotonda la bocca e amplia i pensieri e tantissime altre etichette che hanno la stessa dignità di vini rossi prodotti nelle Langhe. Esattamente come voleva Matteo Correggia.
Mentre sono seduto in cantina e Giovanni, oggi trentenne, mi racconta quello che accadde dopo quel 15 giugno, ho quasi le lacrime agli occhi.
Iniziarono ad arrivare produttori da tutta la zona. Non si erano dati appuntamento, non ce n’era stato bisogno. Arrivarono con i loro attrezzi, le loro cesoie, e senza dire nulla lavorarono la vigna di Matteo Correggia. Fu una vendemmia solidale, in cui tutti i produttori tolsero tempo alle loro cantine, alle vigne a cui hanno dedicato un anno di lavoro, per aiutare Ornella e Luca, il giovane enologo, a portare a termine il lavoro di Matteo Correggia. Luca il giorno dopo il funerale era andato da Ornella e, guardandola negli occhi, le aveva detto: «Se tu ci sei, io ci sono». Ornella non aveva mai lavorato in vigna. Lei era la parte amministrativa, quella che permetteva a Matteo di creare i suoi vini, ma è riuscita a lasciare l’incertezza e la paura da parte. Grazie anche all’aiuto di quei produttori che avevano come abbracciato la cantina e la famiglia di Matteo Correggia. In particolare, Giovanni Rivetti, il titolare della Spinetta, una cantina che se amate il vino sicuramente riconoscerete, con il rinoceronte che campeggia sull’etichetta delle sue bottiglie, si mise a disposizione, impegnandosi a gestire la cantina e a continuare la formazione dell’enologo Luca, finché Ornella non sarebbe stata pronta a prendere le redini, cosa che successe tra il 2003 e il 2004, a meno di 3 anni dalla morte di Matteo.
Ora a guidare la cantina c’è Giovanni, che un paio di anni fa ha lanciato un nuovo vino, il primo da quando gestisce tutto: l’ha chiamato apapà. È diverso dagli altri, lo fa fermentare in anfore di ceramica e non solo nelle botti di legno, recuperando un modo antico di fare vino. L’ha voluto fare così perché, dice lui, «non potevo essere banale nel vino che dedicavo a uno sperimentatore e innovatore».
Ma se Matteo Correggia e i Barolo Boys hanno rotto con la tradizione per la voglia di provare qualcosa di nuovo, Giovanni e i nuovi produttori oggi sono obbligati a farlo. Devono trovare strade, metodi, strategie nuove non tanto per combattere la routine, ma qualcosa di ben più inesorabile: il cambiamento climatico.
È il motivo per cui sono qui, in un grigio sabato mattina di inizio gennaio. Capire come faranno a produrre vino aziende che sono guidate dai ritmi della terra e dai capricci del clima.
Giovanni mi racconta che il 2022 ha aperto gli occhi a tutti. Forse c’è ancora qualcuno che si dice convinto che sia un ciclo fisiologico, che in passato c’erano già stati tempi difficili, ma di sicuro anche quel qualcuno sa che quello che sta succedendo non si può più ignorare.
Le temperature lo scorso anno sono state anomale, è vero, ma non è stato il problema più grave. Il vero problema è stata la mancanza d’acqua. È complicato capire che cosa voglia dire per chi come noi è abituato a far scorrere l’acqua ogni volta che ne abbiamo voglia o bisogno, semplicemente aprendo un lavandino. Così ho chiesto a Giovanni di farmi un esempio concreto e lui mi ha spiegato che lo scorso anno «è caduta la metà della pioggia che cade abitualmente e quasi tutta dopo la vendemmia, quando ormai era inutile per il raccolto. È stato terribile», dice. Vedeva arrivare le cassette d’uva dai campi, ma ogni volta meno di quelle che erano state nelle vendemmie passate. 100 invece di 500. 200, invece di 800. Ogni viaggio dai campi alla cantina per Giovanni era una coltellata.
Gli racconto del titolo di quell’articolo, quello che diceva che nel 2050 non produrremo più vino a causa del cambiamento climatico, e gli chiedo che cosa ne pensa. Giovanni è giovane, ma non è uno stupido, e me lo dimostra quando risponde dicendomi: «non abbiamo esperienza, possiamo solo fare supposizioni. Non credo che smetteremo di produrre vino, inizieremo a farlo in zone dove prima era impensabile. Anzi, sta già succedendo. In Inghilterra stanno cominciando a fare bianchi frizzanti molto buoni e anche in Langa stanno coltivando aree in cui solo vent’anni fa era una follia anche solo pensare di farlo. Strategicamente alcuni stanno iniziando a comprare appezzamenti di terra sempre più in alto».
Ma può davvero esistere una strategia contro qualcosa di così totalizzante, inesorabile, come il cambiamento climatico, mi chiedo. Giovanni, che proprio come suo padre ha imparato con l’esperienza ad ascoltare la terra, pensa di sì, che qualcosa si possa fare, anche se ovviamente nulla è risolutivo. «Lo scorso luglio io e Luca (l’enologo che è ancora in cantina da loro, ndr), eravamo nelle vigne e ci siamo guardati. Non sapevamo se saremmo riusciti a vendemmiare. Poi la natura ci ha sorpresi: la vite è come se avesse disposto le foglie – che sono molto larghe – per proteggere i frutti dal sole nei momenti più caldi della giornata e abbiamo visto come lasciando l’erba più alta sotto le viti, il terreno sia rimasto più in ombra. Sembra una cosa scontata, ma non lo è: fino a qualche anno fa si tagliava tutto, l’erba doveva essere corta perché non “rubasse” acqua alle piante. La scienza ha dimostrato come invece la biodiversità sia la cosa migliore per un habitat naturale, non possiamo forzare la mano. E poi abbiamo cominciato a fare le cose diverse dal solito». Ed eccola, la rottura con la tradizione. «Abbiamo iniziato a vendemmiare ad agosto. Qualcuno ci ha guardato come dei matti, ma se tornassi indietro anticiperei ancora di qualche giorno. Non possiamo pensare di continuare a ragionare come abbiamo sempre fatto davanti a un fenomeno simile. Prendi il diradamento, quasi non lo facciamo più». Il diradamento consiste nel tagliare via una grossa quantità di uva dalla pianta mentre è in maturazione. Così facendo la pianta avrà meno acini a cui passare i nutrimenti, e in quegli acini si concentreranno i migliori sapori. Gaja, il più famoso produttore di Barolo al mondo, fu il primo a farlo e da allora tantissimi l’hanno seguito. «Oggi» dice Giovanni «se diradassimo i pochi frutti che la pianta riesce a produrre, rischieremmo di lasciare pochissimo sulla vite e il poco vino che ci tireremmo fuori avrebbe una concentrazione alcolica superiore al 17% (un vino strutturato arriva al 14,5%, massimo al 15%, ndr). È stato un cambiamento repentino, quello che possiamo fare è essere pronti, reagire velocemente. Di sicuro non possiamo escludere niente, nemmeno ripensare quello che abbiamo imparato, che ci hanno insegnato. Forse tra qualche anno non potremmo più produrre nulla nei Sorì, che sono le colline esposte a sud-ovest e sud-est, le più prestigiose oggi. Noi abbiamo una vigna a nord che quest’anno ci ha dato, a sorpresa, più produzione delle altre. È chiaro che nei prossimi anni è lì che dovrò investire ed è di nuovo qualcosa di completamente fuori dalla logica con cui siamo cresciuti».
Ho solo un’altra domanda per Giovanni. Per giorni sono stato in dubbio se farla oppure no. Che rapporto ha con la figura di suo padre? «Quasi ogni giorno penso “che cosa farebbe lui in questa situazione?”. Non ho mai una risposta». Improvvisamente mi rendo conto di avere il microfono acceso da più di un’ora e di non aver fatto una domanda più giusta e appropriata di questa. Unisce perfettamente la storia di Matteo Correggia, che ha combattuto contro l’abitudine e le tradizioni per fare il vino che lui aveva in mente, a quella di Giovanni, che combatte contro il clima per salvare il suo vino.
Sono giorni che scrivo della vita di Matteo, cercando di rispettarne la grandezza e la semplicità e dopo tutto questo tempo passato in compagnia di questa storia, credo che forse ci possa essere una risposta a quella domanda.
La storia di Matteo, di quello che ha fatto in vita e di quello che è successo quando lui non c’era più, dimostra che nella tragedia più buia a volte riusciamo a unirci, a lottare insieme mettendo da parte interessi personali ed egoismi. Dimostra che può esserci speranza anche quando tutto sembra finito, e che da quella speranza può rinascere una storia bellissima. Dimostra che ci saranno sacrifici, che sarà difficile e in certi giorni verrà voglia di mollare tutto. Quando Matteo Correggia morì, quel vino e quella storia hanno rischiato seriamente di finire, così come rischiano oggi, per qualcosa di più universale, certo, ma alla fine ugualmente definitivo.
Questa è una storia di visione, morte e rinascita. E della speranza che deriva dal guardarsi attorno e non sentirsi soli nella lotta.