Shane Larkin non può fare a meno di sneakers e di Drake

Shane Larkin è uno dei giocatori americani più dominanti del basket europeo, come dimostra il premio di miglior giocatore d’Europa nel 2019. Larkin è sempre stato un giocatore polarizzante fin dai tempi del college a Miami, caratteristica che ha mantenuto anche in NBA e poi in Europa, in cui ha giocato sia in Spagna che in Turchia, all’Anadolu Efes Istanbul, diventando qui un giocatore di prima fascia. Se c’è una cosa che Larkin ha sempre avuto, è un grande stile. Fin dai tempi del college, Larkin ha mostrato di possedere una collezione con pochi pari e dalla grande versatilità che include modelli storici, colorazioni rarissime e molto altro, una passione che nacque fin da quando era bambino e che lo lega a un atleta molto importante nella sua carriera, ovvero suo padre.

Hai giocato con scarpe incredibili negli ultimi anni. Come è nata questa tua passione per le sneakers e come è cambiata nel tempo?

Mio padre era un giocatore di baseball professionista e aveva un contratto di sponsorizzazione con Nike. All’epoca tornava a casa con il catalogo Nike e mi chiedeva di indicare quali scarpe volessi. Dopo il primo giro di selezione mi chiedeva di cerchiare con la penna quelle che volessi per davvero, e così è nato il mio processo di selezione e amore per le scarpe. Anche mio padre era molto appassionato e già all’epoca mise da parte per me diverse paia di Jordan, circa una cinquantina, che sono diventate mie quando ho raggiunto la sua stessa taglia di scarpe, al liceo. Ovviamente, col tempo il rapporto è cambiato: in passato ho preso modelli che non ho mai messo, ne ho presi altri che guardando indietro non mi piacciono più e altri che ricomprerei altre cinquanta volte. Essenzialmente direi che col passare degli anni sono diventato più selettivo e attento al mio gusto estetico.

Larkin con le Undefeated x Nike Zoom Kobe 5 Protro “What If Pack – White”.

A questo proposito, nel 2012 dicesti che le tue scarpe preferite di sempre sono le Jordan 11 “Bred”, le Jordan 3 “White Cement”, le Jordan 4 “Cavs”, le Nike Foamposite “Red” e “Stealth”. È cambiato qualcosa?

Sono tutti modelli che amo ma non credo siano più i miei preferiti in assoluto. Molte di queste scarpe appena nominate hanno un taglio alto, ora invece preferisco mettere modelli bassi, sotto la caviglia, sia in campo che fuori. Molti di questi sono classici che ogni sneakerhead dovrebbe avere, ma ammetto di aver un po’ ridotto la passione per le Jordan. In questo periodo amo particolarmente le Dunk, specie in versione Low. Anche da ragazzino ho avuto qualche Dunk ma era un modello che in quegli anni usavano solo gli skater, quindi non rispecchiava molto il mio stile. Le sneakers, come tutto, sono cicliche: tornano e passano di moda periodicamente.

Che caratteristiche ha la tua scarpa ideale per giocare?

Come dicevo, prima preferivo le scarpe più alte perché da giovane mi sono rotto la caviglia due volte e mi sentivo più sicuro con dei modelli fascianti. Ora preferisco giocare con scarpe medio-basse, anche se presto molta attenzione al supporto della caviglia dato dalle cuciture o dalla linguetta. Mi piacciono i modelli piuttosto rigidi, con una suola molto strutturata e solida che supporti i miei movimenti. Per il resto, mi piacciono molto i colori, quindi cerco sempre di usare delle colorazioni che si distacchino dalla divisa.

Non usi molti custom ma ne ispiri molti. Sei consapevole di quante Nike Air Force 1 e altri modelli girino in Turchia con il tuo volto disegnato sopra?

Ogni tanto vedo che mi taggano su Instagram ma ammetto di non averne mai avuta una. Non ci presto molta attenzione, ma è decisamente bello, vuol dire che ho ispirato qualcuno a creare qualcosa di nuovo. È una bella sensazione.

Una Nike Zoom Freak 1 custom ispirata a Shane Larkin.

Anche oggi metti scarpe molto ricercate, ma il periodo al college è stato sicuramente il più incredibile della tua carriera dal punto di vista delle sneakers.

Senza dubbio. Ai Miami Hurricanes avevo un po’ di compagni molto appassionati, quindi ci sfidavamo a vicenda su chi avesse le scarpe più rare e particolari. Eravamo anche una delle squadre più forti del panorama NCAA, eravamo sponsorizzati Nike e LeBron stesso, appena arrivato a Miami, ci diede il suo ultimo modello personalizzato con il logo dell’università. Ne ho un paio mai indossato e uno che ormai ho consumato. Volevamo essere la squadra sneakerhead del panorama NCAA. Quell’anno giocai con tantissime sneakers diverse: passai dalle Nike KD 4 “Weatherman” alle Nike Air Foamposite One “Pearlized Pink”, ma indossai anche diverse LeBron, Air Penny e molto altro. Ho cambiato circa 16 modelli in 30 partite. Pensa che ho giocato anche con delle Jordan Spizike.

Sono sempre colpito quando qualcuno riesce a giocare a certi livelli pur indossando scarpe dal comfort discutibile, per usare un eufemismo. Giocare ad alto livello indossando le Foamposite One è fantascienza.

Anche per me, fidati! Mi ricordo esattamente le vesciche che avevo dopo le partite. Però ne è valsa la pena.

Parlando dei tuoi primi anni, confermi che il soprannome “SugaShane” ti è stato dato da una leggenda dello sport come Deion Sanders? Peraltro ex di Florida State, grandi rivali di Miami.

Tutto vero. Lui e mio padre giocavano assieme a baseball nei Cincinnati Reds e io ero sempre attorno ai giocatori da bambino. Giocavo a baseball con qualcuno, a football con altri, a basket con altri ancora, o ai videogiochi con alcuni. Un giorno Deion ha cominciato a chiamarmi “Suga”, che poi è diventato “SugaShane”. Anche i compagni, mio padre e gli altri a casa hanno cominciato a chiamarmi così, ed è rimasto per sempre.

Shane al college con indosso delle Nike LeBron X “Volt”.

Tornando alla moda, cosa ti piace indossare invece fuori dal campo?

Sia chiaro, mi piacciono i grandi brand e ho qualcosa di Dior, Gucci o YSL, ma sono uno di quelli che non ama manifestare quello che indossa sfoggiando loghi o scritte. Mi piace che chi mi vede si domandi cosa sto indossando. Per il resto, sono molto flessibile in base alla situazione: a seconda di dove sono e cosa devo fare mi adatto. Posso indossare prodotti più streetwear di un brand come Rhude, ma posso anche mettermi un abito formale.

Hai notato una grande differenza nello stile tra Stati Uniti, Spagna e Turchia?

Quando sono arrivato in Europa, lo stile americano era più focalizzato su fit baggy, quasi volutamente sciatto. Noi lo chiamvamo “bummy swag”. In Europa, vedevo la gente con pantaloni più slim e fit più precisi. Col tempo lo stile si è uniformato perché l’Europa ha iniziato a guardare maggiormente agli Stati Uniti che a loro volta stavano cambiando icone fashion. Ai miei tempi gli esempi erano Allen Iverson e Lil Wayne, ora invece le icone di stile sono ASAP Rocky e Russell Westbrook, quindi il look che trasmettono è decisamente diverso. Ho avuto la fortuna di viaggiare molto in Europa e ciò mi ha dato diverse influenze che ho poi visto in diversi posti in America. Un caro amico che ho qui in Turchia è il direttore creativo di Les Benjamins, un brand davvero forte nel Medio Oriente che unisce le influenze locali a tagli più internazionali. Parlare con lui delle sue ispirazioni mi ha aiutato molto ad ampliare il mio modo di vestire.

Hai giocato in tante squadre. C’è chi ti ha colpito per il proprio stile? In positivo e negativo.

Ce ne sono diversi. Terry Rozier ha un ottimo stile perché è molto personale, non sai mai cosa aspettarti da lui. Ai Knicks c’era una bella lista perché io giocai negli anni di Carmelo Anthony, Amar’e Stoudemire e la loro incredibile collezione di cappelli. C’era anche Iman Shumpert che rimane indecifrabile dal punto di vista fashion, nel bene e nel male. Se devo dirne uno il cui stile non ho mai capito, allora dico Monta Ellis. Non che si vestisse male, sia chiaro, ma prendeva solo set. Mi spiego: maglietta Gucci, pantalone e scarpe matchate, sempre Gucci. Un giorno preferiva Louis Vuitton? Set, tutto in match, con maglia, giacca, pantalone, scarpe e accessori di LV. Era come se avesse visto il manichino e avesse detto “prendo quello”. Ovviamente non mi sono mai permesso di dirgli nulla per via del fatto che all’epoca io ero un rookie, lui un veterano.

Lo stile sta cambiando molto anche nel basket europeo e pare ci sia più interesse anche a questo lato del basket. Cosa cambieresti del panorama estetico europeo?

La cosa che vorrei cambiasse è una: noi non possiamo decidere cosa indossare per andare alle partite. Mi piacerebbe non mettermi la tuta della squadra, ma esprimere il mio gusto e il mio stile con i vestiti. Se ti vesti bene, ti senti bene e se ti senti bene, giochi bene. Ora molti giocatori stanno prestando più attenzione alle scarpe che indossano in campo e se potessero vestirsi con libertà anche prima delle partite, sicuramente presterebbero maggiore cura anche a quello. Penso che anche la moda possa servire molto al basket europeo per promuoversi e cercare nuovi tifosi, oltre che spingere brand indipendenti che crescerebbero di conseguenza. Parliamo di una promozione del basket a 360 gradi, sia per quanto riguarda l’estetica, che i messaggi trasmessi attraverso la moda, come ad esempio quelli politici. Anche questa è libertà di espressione.

Contro il Valencia Larkin ha giocato con le Nike Kobe 4 “Wizenard”

Un altro mezzo di connessione universale è la musica. Hai mai utilizzato la musica per ambientarti in un nuovo contesto?

Il basket e l’hip-hop saranno sempre legati in ogni parte del mondo, quindi è più facile avvicinarsi a certi compagni che condividono con te alcune passioni, come appunto questo genere. Particolare è stato però il mio arrivo in Spagna. Devi sapere che mio padre sa parlare perfettamente spagnolo e in casa metteva spesso musica spagnola di cui, ammetto, mi piaceva molto il mood. Arrivato per la prima volta in Spagna, al Baskonia, ho ritrovato quelle canzoni e quell’energia, sia in spogliatoio che nei club, alle cene o quando i compagni cercavano di insegnarmi a ballare. Mi è servito molto per legare col gruppo.

Mettiamo un attimo da parte la musica spagnola. Artisti preferiti?

Sono un grandissimo fan di Drake. Poi mi piacciono Lil Wayne e Lil Baby perché hanno contenuto ma sanno anche fare il rap più duro, quello che ti dà la carica. Ascolto tanto R&B, soprattutto Chris Brown, Giveon, Usher e molti altri. Se devo indicare un album di cui non posso fare a meno, ti dico “Views” di Drake. Molti criticano quel disco perché si aspettavano un Drake in party-mode, pronto a fare musica più hype, ma invece ha preferito parlarti e riflettere, al di là dei beat. Mi piacciono gli artisti che parlano di varie tematiche, si aprono e ti raccontano la loro realtà, non come quelli che hanno fatto tre canzoni e dicono di avere 200 milioni di dollari in banca. Per questo mi piace molto l’R&B, perché in quel caso chi canta lascia parlare le emozioni più che i fatti.

Chi gestisce la musica nello spogliatoio dell’EFES?

Nella nostra squadra non ci sono molte regole perché ci alterniamo spesso. Un giorno tocca a me e posso mettere un pezzo rap, quando invece alla musica ci pensa Rodrigue Beaubois si sentono solo canzoni caraibiche, Micić mette sempre ballad serbe, Pleiß invece ascolta EDM, mentre con Adrien Moerman si sente rap francese. Ogni giorno è una sorpresa. È divertente non solo perché scopriamo musica nuova, ma anche perché ci prendiamo spesso in giro tra di noi. Ad esempio, di solito non diamo molta libertà di scelta a Buğrahan Tuncer dato che mette solo musica turca che fa risuonare sempre e comunque dal telefono, anche quando non è connesso alle casse.

Scelta molto particolare quella delle Nike Kobe Mamba Rage “Blue Frog”.

La visione americana del basket europeo sembra stia cambiando, grazie anche al cambiamento dei regolamenti NCAA e alla voglia di tanti talenti giocavi di provare nuovi percorsi.

Concordo. Io stesso avevo ben altra considerazione del basket europeo quando ero giovane. All’epoca pensavo: NBA o niente. Ora è tutto diverso, ma non solo ai miei occhi. Prima in Europa trovavi solo i ragazzi cresciuti qui o americani a fine carriera, ora invece vediamo ragazzi americani che arrivano a giocare in Europa direttamente dopo il college o il liceo. Quando io arrivai in Spagna ero tra i più giovani, avevo 23-24 anni, ma ora questa situazione è normale. Se chiedi a me, giocare buoni minuti in una squadra di Eurolega, vivendo in una di queste grandi città europee, è molto meglio che correre dietro al sogno NBA, specie se parliamo di una situazione in cui si continua a passare dalla G-League a contratti NBA di dieci giorni ciascuno. L’Eurolega è di un altro livello rispetto alla G-League. Inoltre, vivere in una delle città europee che ospitano le 18 squadre di Eurolega è quasi sempre meglio che vivere in tante città americane. Risiedere a Oklahoma City guadagnando il minimo salariale NBA non è certo meglio di vivere a Milano guadagnando la stessa cifra, anche perché in quest’ultimo caso giocheresti molto di più. Non voglio mancare di rispetto a squadre o città americane, ma diciamo solo che Detroit, Sacramento, Milwaukee e Salt Lake City hanno sì ottime squadre, ma non sono certo città mozzafiato. Va benissimo se hai un ruolo importante in queste franchigie, ma se dovessi parlare ai ragazzi giovani con un ruolo molto ridotto e un contratto non clamoroso, consiglierei loro di venire in Europa dieci volte su dieci. Il basket sta cambiando molto e credo che i social media l’abbiano reso più accessibile e parte di un mondo piccolo: se fai bene in Europa, gli scout NBA ti trovano. Basti vedere quanti europei ci sono in NBA, per non parlare del fatto che gli ultimi due MVP NBA, tre se Jokić dovesse vincerlo, sono europei.