Sotto lo sguardo della luna

Un villaggio in collina dal quale è più facile ammirare la luna. Dietro alla poesia all’origine del nome Moon Village si cela in realtà un sistema di complesse contraddizioni che caratterizza da decenni il fenomeno delle baraccopoli coreane.

Nati in prossimità delle più grandi città della Corea del Sud come Seoul o Busan, i Moon Village (daldongnae in coreano) sono l’esito del processo di allontanamento delle persone più povere dalle città a partire dal periodo successivo la fine della guerra coreana, nel 1953. La loro presenza ai margini delle città, separati eppure in diretta prossimità di esse, si intensifica di pari passo con l’aumento della disparità sociale ed economica nelle metropoli del Paese. La rapida crescita dei centri spinge gli abitanti più svantaggiati a trovare rifugio al di fuori delle moderne dinamiche di trasformazione delle città, nelle quali i progetti di rinnovamento non sempre hanno incontrato le esigenze della fascia più debole della popolazione, che rimane esclusa.

Origine comune – destini diversi

I Moon Village hanno origine come villaggi di rifugiati e sviluppano, senza vere e proprie regolamentazioni o un principio organizzativo generale, un tessuto urbano denso, abitato da una comunità di persone che si consolida attorno alla comune necessità di costruire con le proprie mani un proprio, nuovo, ambiente di vita.

L’imponenza dei grattacieli e degli sviluppi immobiliari più recenti fanno da sfondo a un panorama di casupole la cui visibilità ed esistenza si esaurisce all’interno dei confini stessi dei villaggi. Villaggi che, sebbene accomunati dal medesimo principio genetico, non sempre hanno subito lo stesso destino, né la stessa evoluzione. Alla voce Moon Village, oggi, immagini di baracche fatiscenti si alternano a quelle di casette variopinte, pareti e tetti distrutti, e a coloratissimi murales. Lo scenario da baraccopoli sembra lasciare il posto a quello dell’attrazione turistica.

Ed è nell’eterogeneità iconografica e narrativa che si è sviluppata attorno al fenomeno dei Moon Village che troviamo forse la più piena rappresentazione delle sue contraddizioni. I diversi panorami offerti dalle carrellate di immagini riflettono, infatti, il diverso modo con cui questi villaggi sono rimasti in contatto con la città contemporanea e con il loro passato. Se alcuni villaggi sono pressoché immutati e lasciano ben riconoscibili la struttura insediativa originale e l’uso di materiali di recupero, altri sono andati incontro a processi di beautification che, con vari livelli di appropriamento, ne hanno modificato non solo l’apparenza ma anche i modi di vivere al suo interno. Altri ancora sono spariti, cancellati per fare spazio a moderni progetti immobiliari.

Contraddittoria permanenza

Attraverso l’osservazione del Guryong Village si può comprendere più significativamente il livello di disparità esistente tra questi villaggi e le metropoli adiacenti che risplendono a pochi passi da loro. Situato nelle immediate vicinanze del distretto di Gangnam – caratterizzato da elevati livelli di ricchezza e oggi conosciuto globalmente anche per il suo celebre style – il Guryong Village sorge in un’area già precedentemente abitata ma che assume l’immagine di baraccopoli a partire dal 1988, anno delle Olimpiadi di Seoul. In occasione del grande avvenimento sportivo e con il rapido sviluppo della metropoli, Seoul intraprende progetti edilizi molto consistenti che spesso prevedono l’eliminazione e sostituzione dei quartieri più svantaggiati, la cui popolazione sfollata deve trovare rifugio in altri settori della città. È questo il contesto in cui nasce il Guryong Village, che mantiene sostanzialmente invariata la sua immagine di baraccopoli fino ai giorni nostri. Ciò che non rimane invariato, ma anzi cambia a un ritmo inarrestabile, è la capitale, il cui crescente livello di benessere e avanzamento tecnologico non fa che aumentare ulteriormente l’incolmabile distacco tra le due realtà. La simbolica immagine del profilo delle baracche sovrastato da quello dei grattacieli retrostanti riflette con lapidaria esattezza la disparità esistente tra questi ambiti – due facce diverse della stessa città.

Tutti gli scatti sono stati realizzati al Guryong Village, a Seoul

Estinzione (a ripetizione)

La connotazione di villaggio di rifugiati non si esaurisce, tuttavia, con l’origine del Moon Village, ma ne caratterizza in alcuni casi anche l’atto finale. Il processo di sviluppo delle città continua anche oggi a programmare la sostituzione delle sue parti più povere con quartieri caratterizzati da condizioni di vita migliori, anche prevedendo la ricollocazione degli ex-abitanti in nuove sistemazioni agevolate.

Di fronte all’inevitabilità di questi obiettivi non è possibile, però, ignorare che dietro all’immagine manifestamente povera di questi luoghi si trovano famiglie e intere comunità che, nel corso nel tempo, hanno conosciuto questo unico modo di vivere – che non necessariamente hanno piacere di abbandonare. Quella che era una condizione abitativa emergenziale è diventata negli anni permanente e plurigenerazionale che difficilmente prevede un facile allontanamento. A questo si aggiunge il fatto che l’inserimento degli ex-abitanti dei Moon Village all’interno dei nuovi progetti urbani si è spesso rivelato molto difficile, sia sotto il punto di vista economico – a causa di nuovi costi non realmente sostenibili – sia sociale – per effetto di atteggiamenti discriminatori nei confronti di persone ancora una volta emarginate.

Il confronto con alcuni degli abitanti del Baeksa Village – le cui parole sono state raccolte in un video diffuso dal canale Corea Now – testimonia il sentimento di attaccamento al villaggio e alla sua comunità.

E, di conseguenza, la difficoltà nel separarsi da esso. Baeksa Village – il nome proviene dalla parola coreana che indica “104”, il numero della strada su cui si è costituito – nasce alla fine degli anni Sessanta da un insediamento di rifugiati che abbandona le proprie abitazioni per lasciare spazio a un nuovo progetto edilizio nel centro della città. Nel corso del tempo il villaggio cresce e si sviluppa, come baraccopoli, fino ai nostri giorni e fino a quando a causa di un nuovo piano di sviluppo urbano ne viene programmata la cancellazione. Dalle parole degli abitanti rimasti emerge una sorta di nostalgia preventiva per la comunità e i luoghi in cui hanno investito e che sono prossimi a lasciare, oltre a un sentimento di smarrimento verso ciò che li aspetta. Si rafforza così la consapevolezza che questo tipo di progetti, oltre a generare sviluppo, possa al tempo stesso esprimere una forma di indifferenza verso il valore testimoniale di queste comunità.

Trasfigurazione – una soluzione?

Una strada diversa stanno percorrendo altri Moon Village che, trasfigurandosi, sembrano avere una chance di sopravvivenza e di visibilità all’interno del contesto contemporaneo. Né distrutti né rimasti uguali a sé stessi, alcuni di questi villaggi si sono trasformati, come recitano i label di Google Maps, in “attrazioni turistiche” il cui pin sulla mappa rimanda spesso a siti web e pagine informative.

Come è potuto avvenire? I processi di beautification non sono stati rivolti alla sostituzione con altre forme abitative, ma hanno preso forma direttamente all’interno delle mura dei villaggi – addirittura sulle mura stesse, grazie all’intervento di artisti che hanno decorato e adornato le pareti e le superfici del costruito. La potenziale trasformazione di questi luoghi in mete turistiche sembra non sfuggire alle dinamiche dell’instagrammabilità, che rende ogni possibile meta un carosello di immagini il cui vero filtro sembra essere quello di trasmettere visioni iconiche, piuttosto che identitarie. A questo si aggiungono le inevitabili problematiche legate all’afflusso di visitatori in ambienti di vita fino a quel momento molto marginali e riservati. Consapevoli dei possibili side effects, questo processo definisce senza dubbio un esito alternativo, e forse inaspettato, ai destini di altri Moon Village.

Il Gaemi Village – il cui nome deriva dalla parola coreana “formica” – è stato trasformato in un mural village nell’ambito di un progetto in cui studenti d’arte sono stati invitati a decorarne le pareti. Nel corso degli ultimi anni i murales realizzati hanno cominciato a svanire, ma la città di Seoul ha proposto la segnalazione del villaggio come “Future Heritage Status”. Il Future Heritage Project, lanciato nel 2012, si pone l’obiettivo di salvaguardare le testimonianze del secolo precedente, compromesse sia dalle distruzioni causate dalla Guerra di Corea, sia dai successivi processi di modernizzazione. In questa direzione, l’attenzione per l’immagine del luogo, seppure a partire da un aspetto tanto semplice quanto la pittura di una parete, potrebbe in questo caso diventare uno strumento di cura, e conservazione, dei luoghi stessi. E con esso si fa strada la possibilità di trasmettere i valori storici e sociali che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato il paese e le sue trasformazioni.

Nel caso dei nuovi cosiddetti mural village il confronto con lo sviluppo della metropoli non ha previsto l’annullamento del Moon Village, ma la loro mutazione alla luce delle esigenze visive ed esperienziali attuali. Di fronte all’insostenibilità e l’inconciliabilità di un modello generato dal passato, che oggi tende all’obsolescenza, la strada della trasfigurazione sembra essere l’unica alternativa alla loro definitiva cancellazione, o all’inesorabile decadenza nell’oblio.

Foto di:
Federico Hurth