«Negli ultimi tempi c’è stata questa forma di revisionismo, per cui certe cose che un tempo erano abbastanza cringe e ludiche, nate appositamente come “lol rap”, ora vengono insensatamente prese a modello, e i loro autori lodati come guru del genere».
Non le manda certamente a dire Stefano Tartaglini, in arte Stabber, che ancor prima di iniziare la “vera” intervista si lascia andare a una serie di inconsueti e brillanti ragionamenti, parlando a ruota libera ed entrando senza fronzoli nel cuore delle questioni.
«Recentemente Lil Yachty ha fatto un disco spettacolare, zeppo di citazioni dall’inizio alla fine, che lo ha consacrato negli annali. In Italia una progetto simile ce lo sogniamo. È una questione di insufficienza culturale, ma anche di paura degli artisti stessi di perdere quella piccolissima posizione che si sono costruiti cavalcando tendenze».
Non c’entra secondo te anche il pubblico in questo? Forse il pubblico italiano non è pronto per una cosa del genere …
«Qui c’è un grave errore di prospettiva che continua a ripetersi. Il pubblico è pronto perché tu artista per primo lo educhi ad apprezzare e capire certe cose. Come dice Noyz, se tu “Je dai la merda, questi battono le mani”. In Italia siamo così tanto conservatori e prevedibili, che il pubblico si è abituato a non aspettarsi altro che sempre la stessa minestra riscaldata» – su questo punto ci torneremo spesso nel corso dell’intervista.
«E il problema non si limita ai soli artisti, ma coinvolge tutto un sistema economico molto più ampio. Con le dovute differenze e qualche lungimirante eccezione, chi parla di questa musica è spesso il primo a non saperne nulla o quasi».
Non ci sono molti artisti che pubblicamente si aprono in maniera così franca e genuina. Tanto più se si parla di tematiche spinose come l’industria musicale e tutto ciò che gli ruota attorno. Se poi le parole provengono da uno dei produttori musicalmente più intelligenti della scena italiana, che ha appena realizzato uno dei migliori producer album mai usciti in Italia e non solo, il loro valore aumenta esponenzialmente. Questa lunga chiacchierata con Stabber è stata un’occasione preziosa.
D’altronde in oltre vent’anni di gavetta musicale, il producer classe ’80 non ha mai preso la via più facile né tantomeno la più consona in nessuno dei generi che ha esplorato. Dopo aver curato la produzione di progetti estremamente diversi fra loro, per attitudine e proposta musicale (da Anastasio ai Coma Cose, passando per Nitro, Salmo e Inoki, solo per citarne alcuni), ha finalmente pubblicato il suo primo producer album.
Si chiama Trueno e nelle sue undici tracce vede alternarsi venti artisti, big e meno big, nomi storici del rap italiano accanto a esordienti di talento, con un’ampissima presenza di voci femminili. «Ho sempre avuto la fissa per le auto giapponesi, fin da quando ero ragazzino. Io stesso ne ho avute diverse. In particolare c’è questa auto che è diventata culto, denominata appunto Trueno. È sostanzialmente una vecchia Toyota Corolla, in produzione tra l’83 e l’86, non esteticamente bellissima, ma che più di ogni altra ha permesso la nascita del movimento del drifting, le corse clandestine giapponesi negli anni ’90. Drifting significa letteralmente “andare alla deriva”, sbandare con l’auto che si sta guidando». Ed è questo in realtà il vero filo conduttore di tutto il disco: sbandare, smettere di seguire gli schemi e di pensare in modo canonico. Trueno sceglie di andare fuori strada per correre più veloce di tutti.
La genesi produttiva del disco è stata lunga, lunghissima, ma necessaria per permettere a Stabber di far le cose a proprio modo, senza regole né compromessi. «L’idea di fare un progetto musicale fortemente identitario, che calzasse a misura su di me, c’è sempre stata. Per una serie di circostanze, questo mi è sembrato il momento giusto. Ho fatto il disco che volevo fare, dall’inizio alla fine. Ho chiamato principalmente amici miei, con cui ho un rapporto al di là della musica ormai da anni. Questo mi ha facilitato, ma per incastrare venti artisti con i loro calendari e le loro uscite ci sono voluti comunque oltre due anni».
È posato ma al tempo stesso estremamente serio Stefano non appena iniziamo a discutere del significato che al giorno d’oggi ha un producer album. Tenta di spiegarmi la sua visione, rimarcando, nuovamente senza peli sulla lingua, la differenza delle sue idee rispetto a quelle alla base di recenti progetti discografici, strabordanti di featuring e costruiti ad hoc per le classifiche.
«Non si tratta solo di chiamare degli artisti che potrebbero star bene sulla stessa traccia. Volevo obbligatoriamente che tutti gli artisti coinvolti venissero personalmente in studio e così è stato (ad eccezione di Alborosie, che stabilmente si trova a Kingston, quindi era giusto un pelo più difficile). Il contesto è importante. Mandare una cartella con dieci beat e farsi tornare indietro una strofa è molto diverso dall’incontrare fisicamente gli artisti, magari dialogando con gli stessi, accettando consigli e prospettive diverse per alimentare il confronto musicale e arricchirsi vicendevolmente. È capitato di ritrovarsi in studio con artisti e musicisti assieme, in alcuni casi anche in gran numero, e questo secondo me ha fatto la differenza. Volevo che fosse il disco mio, con degli ospiti, e non un prodotto in cui i nomi degli ospiti contassero più della musica stessa. Anche per questo abbiamo fatto una versione vinile speciale che contiene solo le strumentali mie, per chi è interessato alla musica».
Non ha l’ardire di definirsi esplicitamente un innovatore Stabber, ma la chiara ambizione di spostare la visione e di far cambiare gli interessi del pubblico dando vita a una nuova cultura: «il rap cambia quando qualcuno crea degli ambienti sonori tali che si definisca una cultura intorno a determinati gruppi o artisti». Da sempre ha cercato di ritagliarsi un personale spazio di libertà e con Trueno ha regalato la stessa libertà di espressione a tutti gli artisti coinvolti.
Con un’idea lucidissima di cosa un artista dovrebbe essere, oggi più che mai. «Se tu artista ti cimenti in qualcosa di diverso dal solito e ben fatto, anche chi ti segue, si può interessare a certi suoni e a certe direzioni e in una certa maniera inizia ad abituarsi. Torniamo al discorso di prima sul pubblico conversatore italiano che spesso non accetta eccessivi cambi di direzione e che deve essere accompagnato gradualmente. Gli artisti fondamentalmente sono educatori. Se si decide di intraprendere un nuovo percorso, bisogna far sì che questo viaggio venga compreso anche dal pubblico. Peraltro, se si riesce a creare una audience di persone con una certa elasticità mentale, e di conseguenza togli quei vincoli imposti, ecco che allora ne godono tutti, la musica in primo luogo. In Italia questo modo di pensare non è la regola, anzi, si preferisce coinvolgere sempre le stesse persone, utilizzando formule viste e riviste, cosicché stiamo tutti bene però nessuno è contento. All’estero è totalmente diverso, il pubblico è costantemente educato a nuovi generi e a nuovi punti di vista. Se tu senti la BBC, la principale emittente radio in Inghilterra, ci sono cose folli messe in rotazione ogni giorno: al posto dei tormentoni nostrani lì non è raro che capiti di ascoltare un pezzo mega grime di Skepta. Se educhi ne godono tutti e le fan base magari diventano un po’ meno settoriali. Il problema è che questo non è chiaro a chi fa musica in primo luogo: non si mira a educare un pubblico ad ascoltare la musica, bensì solo ad ascoltare la tua musica».
Chiedo a Stabber come si è approcciato alla produzione del disco, quale è stato il processo creativo alla sua base, e come è stato il rapporto con i singoli artisti. «A me piace l’idea di fare le cose su misura e così ho concepito Trueno. Ogni singola strumentale l’ho prodotta avendo già in mente l’artista a cui l’avrei proposta, il suo modo di cantare, il suo range vocale e gli ho presentato solo quella. Avevo ben in mente la forma che volevo conferire al disco e così mi sono comportato nel processo creativo. Sono stato anche fortunato che a tutti andasse bene la mia proposta, non era scontato, soprattutto perché nella maggior parte dei casi quest’ultima esula completamente da ciò che l’artista coinvolto è solito fare. Sali in macchina ma guida Stabber, se io sbando, tu sbandi con me».
«Da parte di tutti gli artisti c’è stata tanta propositività nel lasciarsi andare e nello sperimentare senza vincoli. Durante le sessioni in studio ci siamo divertiti parecchio. Credo inoltre che per alcuni si sono andati a delineare degli spunti che potrebbero in futuro essere sviluppati autonomamente. In Salto nel buoio, ad esempio, con Coez e Annalisa, quest’ultima si è cimentata in qualcosa di completamente diverso rispetto alle cose che l’hanno resa enorme in questo periodo, tracciando quella che potrebbe essere per lei una nuova direzione da intraprendere, secondo me per nulla inferiore rispetto a ciò che siamo abituati ad ascoltare».
Mi racconta che non voleva per alcun motivo la propria faccia in copertina, anche in questo caso abbastanza controcorrente rispetto ai tempi che corrono dove è facile trovare i faccioni degli artisti spiattellati ovunque, preferendovi una coerenza anche grafica in linea con le proprie idee. «Non sono una persona che ama i social, non passo le mie giornate a farmi i selfie, non rilascio spesso interviste. Avevo personalmente già in mente il concept, il titolo, l’idea di presentare la tracklist con i cerchioni come le riviste delle automobili giapponesi. Quando l’ho proposto a MOAB, che ha curato l’aspetto grafico, e a Chill Days, che mi ha fotografato, si sono gasati tanto quanto me, e io mi sono completamente fidato senza mettere alcun paletto: volevo che fossero parte integrante del progetto, lasciando anche loro liberi di sperimentare senza vincoli».
«Ci tengo a sottolineare come tutte le persone che ho coinvolto nel progetto, non solo artisti, si sono spese più del necessario richiesto, in maniera molto naturale e spontanea. L’ho inteso come un bellissimo riconoscimento, umano oltre che artistico, raro in un mondo come quello della musica fatto di tanta gente falsa. Se c’è quest’aurea intorno all’intero progetto non è dovuto solo al mio lavoro, ma principalmente al fatto che ogni persona coinvolta è andata oltre allo svolgere il proprio compito, mettendoci del loro e contribuendo in maniera indispensabile alla realizzazione del disco».
Nel disco sembrano esserci ispirazioni musicali tanto diverse fra loro, a tratti distantissime e alcune dal respiro fortemente internazionale. Dunque mi chiedo, quali sono gli ascolti e le referenze che Stefano predilige nella sua vita privata?
«Io ascolto veramente tantissima musica nel mio privato. Principalmente roba che orbita intorno al mondo del rap, con diverse oscillazioni e contaminazioni. Però ascolto anche tanta elettronica, sia spinta che più di nicchia, sono cresciuto guardando i film di fantascienza e sono affascinato dalle loro colonne sonore. Il mio disco preferito in assoluto è In the court of the crimson king dei King Crimson, che ho in duplice copia originale prima stampa. In realtà trovo spunti di interesse veramente ovunque».
«A volte capita che sono in studio e non ho idee: bisogna essere onesti, chi va in studio e tutti i giorni porta a casa qualcosa in qualche modo sta barando, probabilmente grazie a questi nuovi sistemi tecnologici, che producono roba in serie con una velocità sproporzionata. Per trovar ispirazione in momenti come quelli io ho playlist che mi sono appositamente costruito e che vanno da Bob James a Billy Idol».
Trueno non è altro che il risultato di tutto ciò che Stefano esprime con estrema lucidità a parole. Un suo personalissimo spazio, un luogo dove unisce i suoi esordi dell’underground duro e puro a un nuovo modo di fare musica, in cui ogni produzione è composta con strumenti reali e synth analogici, insieme a batterie, sampling, re-sampling e distorsori. Stabber sogna di proporre tutto ciò dal vivo, ispirandosi ai live di James Blake. «È vero, in Trueno gli strumenti reali sono stati la mia guida. Una cosa che mi ero imposto era che le produzioni suonassero così come volevo ancor prima che mettessi mano sul computer. Tutti i suoni sono generati da sintetizzatori reali, analogici, batterie elettroniche, pedali e distorsioni. È stata una creazione realmente artigianale, con le mani sui pomelli e con un processo di registrazione che ha seguito tutte le fasi che portano un determinato strumento a suonare in un certo modo. Alla vecchia maniera insomma. Anche i limiti che ti offrono certe macchine che ancora utilizzo, vecchie e dunque limitate, mi hanno obbligato a mettermi in una forma mentis differente, ormai dimenticata».
Concludiamo la nostra chiacchierata riavvolgendo il nastro, tornando laddove per Stabber tutto è partito, a quel progetto con cui entrò di diritto nell’olimpo del panorama rap italiano. Quindici anni fa Danno, Stabber e Dj Craim pubblicavano Numero 47, il primo e unico album sotto lo pseudonimo di Artificial Kid, un ibrido tra immaginario cyberpunk, rap e sperimentazione di scrittura narrativa: a detta di chi scrive uno dei progetti più belli del rap italiano.
«Proprio in questi giorni è il quindicesimo compleanno esatto di Artificial Kid, ricordo fosse marzo del 2009. Fu una chicca, distante da tutto e tutti, realizzato in sole due settimane. Io e Simone ci conoscemmo a Roma mentre io stavo facendo la tesi in università. Venne una settimana da me all’Aquila e abbiamo fatto tutto nella mia cameretta, in tempi che ad oggi sono impensabili. Nell’opinione pubblica è correttamente definito come un esperimento atipico e un po’ futurista che fluttua attorno a un immaginario cyberpunk, però è anche uno dei dischi più intimi di Simone, che con la scusa di parlare di Artficial Kid in realtà parla di sé in una maniera che probabilmente non ha mai fatto neanche sui dischi dei Colle».
«Negli anni quel progetto è talmente diventato un culto che continuare quel discorso è sempre un po’ pericoloso. Con Danno e Craim siamo amici da una vita, ci sentiamo continuamente e ci abbiamo pensato tante volte a un seguito, ma il tema non è dei più semplici e immediati. Appena l’idea di un mio disco ha preso forma, sapevo però benissimo che avrei fatto un pezzo con entrambi e che sarebbe stato il brano di apertura. È un riconoscimento personale per quel che è stato e per quanto abbia per me significato, oltre a considerarlo il punto forse più alto del disco. Non è una intro, è la canzone di apertura che offre anche una visione complessiva di cosa andrai ad ascoltare. La strofa Simone me l’ha inviata in quattro giorni, scrivendo di cose intime con una semplicità talmente spiazzante che esula dal solo rap e che può parlare a tanti. Quando è venuta in studio Angelina, a cui ho fatto ascoltare le tracce che già avevo chiuso e che ci sarebbero state nel disco, mi ricordo lucidamente che ascoltando Il profumo delle rose mi disse di aver la pelle d’oca. Una ragazza di vent’anni, con la metà degli anni miei e pure di Simone. Questo credo testimoni bene la trasversalità del brano».