Storia degli influencer, dal Rinascimento ai social media

Seppur fiaccata dalle limitazioni dovute alle pandemia, quella dell’influencer è di certo la figura che incarna più di ogni altra vizi e virtù della moda odierna, perché esemplare del connubio ormai inscindibile tra quest’ultima e i social media.

Il termine richiama generalmente quelle star contemporanee che, a colpi di post, hashtag, stories, selfie nella cabina armadio e simili, macinano fatturati degni di una multinazionale, da Beyoncé al clan Kardashian-Jenner al gran completo, alla nostra Chiara Ferragni; eppure, se si prende in considerazione l’etimologia della parola (stando alla Crusca, nell’inglese influencer è in uso dal 1664 “con il significato generico di persona che influenza qualcosa o qualcuno”) emerge una storia assai più lunga e complessa di quanto si potrebbe credere, legata alla capacità – e al potere – di influenzare appunto gusti, orientamenti e comportamenti altrui, riguardanti nello specifico l’abbigliamento e il lifestyle più in generale.

Andando a ritroso nei secoli, si scopre come tutto ciò fosse prerogativa innanzitutto dei sovrani, che dettavano letteralmente legge nelle proprie corti, stabilendo cerimoniali, etichette, codici vestimentari, in definitiva usi e costumi dei loro accoliti.
Partendo allora da alcune delle più conosciute monarchie del passato, si può tentare di tracciare una cronologia degli influencer ante litteram, ovvero di quelle eccezionali personalità in grado di plasmare a proprio piacimento le “tendenze” coeve, innescando autentici sommovimenti estetici che, dalle rispettive cerchie, si propagavano poi nei vari strati della popolazione.

Un percorso da iniziare nel Rinascimento di Caterina de’ Medici, moglie di Enrico II e regina di Francia, una delle donne più potenti e controverse del suo tempo, capace di esercitare un enorme ascendente sull’abbigliamento e le consuetudini sociali del XVI secolo. Le viene attribuita, tanto per cominciare, la moda dei tacchi alti, che commissionò a un calzolaio di Firenze per ovviare all’insicurezza causatale dalla bassa statura.
Cavallerizza provetta, sdoganò inoltre l’uso delle culotte aderenti, prontamente imitata da stuoli di nobildonne, che nonostante questo tipo di intimo fosse osteggiato perché ritenuto lascivo e oltraggioso, presero a farlo confezionare colmo di dettagli preziosi.

E ancora, adottò il corsetto per assottigliare la vita, costringendo di fatto le dame di corte ad adeguarsi; incoraggiò l’uso del profumo, ideato per lei dal profumiere Renato Bianco (divenuto una celebrità anche oltralpe col nome “francesizzato” René le Florentin); codificò l’arte della tavola, esigendo forchette (una rarità all’epoca), tovaglie damascate, la separazione tra piatti dolci e salati, nuove pietanze tra cui il gelato, ecc.
Traguardi oggi ineguagliabili per qualunque food influencer.

Ancora maggiore la portata dei cambiamenti coincisi con il regno di un’altra monarca del Cinquecento, Elisabetta I Tudor, tanti e tali da far parlare di età elisabettiana: l’immagine della “regina vergine”, idolatrata quasi fosse una divinità, era scandita da vestiti pomposi (in materiali quali velluto scuro e broccato intessuto d’oro e argento, riservati per legge alla Casa Reale), dalle gorgiere minuziosamente increspate, dai gioielli in quantità industriali (specialmente perle, simbolo per eccellenza di purezza) e, soprattutto, dal look icastico con incarnato diafano, ricci rossi raccolti per mettere in risalto la fronte, sopracciglia depilate e labbra scarlatte.
Un make up artificioso, ottenuto grazie a sostanze tossiche come biacca o distillato di belladonna, eppure fedelmente replicato dalle suddite, che arrivarono a tingersi i denti pur di imitare l’effetto di quelli marci di Elisabetta.

Altrettanto prorompente, per l’immaginario del XVIII secolo e non solo, risulta il guardaroba dell’ultima sovrana di Francia Maria Antonietta, consacrato nella cultura pop dall’eponimo film di Sofia Coppola, che ci restituisce un’estetica opulenta, eccessiva in tutto e per tutto, tra parrucche incipriate, parure da capogiro e abiti dalle dimensioni esasperate (il panier, l’intelaiatura che ne aumentava a dismisura il profilo, poteva raggiungere i cinque metri) in un tripudio di balze, crinoline, ruches, nastri, ricami e orpelli a non finire.
D’altra parte, il protocollo di Versailles vietava alle donne a corte di indossare due volte lo stesso vestito, e la regina doveva ovviamente primeggiare in questa corsa alla sregolatezza, supportata dalla fida Rose Bertin, un personaggio che precorse gli odierni stylist e designer, soprannominata non a caso “ministra della moda” e incaricata di curare, in tutto e per tutto, le mise di Sua Maestà.
Lo stile sfarzoso di Maria Antonietta ha ispirato nel tempo decine di collezioni delle principali griffe, da ultima la F/W 2020 di Moschino, tutta acconciature torreggianti, colori confetto e outfit elaboratissimi, ma gli esempi abbondano, dal sontuoso défilé Christian Dior Haute Couture F/W 2007 alla Cruise Chanel del 2013.

Nel Novecento, l’avvento del cinema consegnò alle star del grande schermo la facoltà di suggestionare, a ogni livello, la società: si possono citare il fascino androgino di Marlene Dietrich, il tubino nero Givenchy di Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany“, subito consegnato agli annali, oppure la chioma platino di Marilyn Monroe, paladina di una femminilità svenevole eppure conturbante.
Le controparti maschili non furono da meno, e i divi della Golden Age hollywoodiana contribuirono a fissare un ideale di eleganza, di attitudine nel vestire rimasto sostanzialmente intonso; il pensiero va ai completi azzimati di Cary Grant, al trench reso celebre da Humphrey Bogart, al chiodo di Marlon Brando, all’intramontabile accoppiata t-shirt e jeans di James Dean, e via discorrendo.

Negli anni ‘60, il testimone passò in parte ai nuovi protagonisti della musica, dell’arte, del fermento creativo tipico della decade: si imposero infatti personalità come Twiggy, modella filiforme che fece scalpore per l’immagine fresca e anticonformista, da adolescente imbronciata con caschetto biondo e ciglia allungate dal mascara, e trascinò le vendite del suo capo prediletto, la neonata minigonna; oppure Jackie Kennedy, che dapprima rivoluzionò il ruolo della first lady americana, trasformandolo in una figura sofisticata e ispirazionale, poi da moglie del magnate Aristotele Onassis continuò a lanciare tendenze, dai foulard leziosi ai pantaloni Capri, dai sandali flat infradito agli occhialoni fumé.

Due decenni dopo, l’isteria collettiva scatenatasi attorno a Lady Diana sancì un nuovo paradigma in tema di culto della celebrità: la principessa del Galles divenne la persona più seguita e fotografata al mondo, una copertura mediatica senza precedenti ne documentò ogni infinitesimale sfaccettatura, agevolando l’imitazione pedissequa dei suoi abiti e look, a partire dal celeberrimo taglio di capelli bob.
A suggellarne lo status iconico arrivò perfino Dior, rinominando appunto Lady Dior la borsetta in pelle squadrata da lei prediletta.

Gli anni ‘90 videro l’ascesa delle top model, un’inedita schiera di muse ispiratrici capitanata dalle “Big Six” (Cindy Crawford, Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Linda Evangelista, Christy Turlington, Kate Moss), le migliori interpreti possibili dell’abbigliamento nineties che alternarono dentro e fuori le passerelle, tra abiti grunge, cromie sgargianti, jeans morbidi e naked dress, esprimendo un gusto sporty-chic.

Negli anni Zero l’ossessione generalizzata per le celebrity fu portata per così dire alle estreme conseguenze, in un’apoteosi di scatti rubati, paparazzi in servizio permanente e servizi al limite del morboso, un mix che iniziò a spostare l’attenzione verso Kim Kardashian, Paris Hilton, Nicole Richie e altre socialite “famose per essere famose”, iperpresenzialiste e determinate a mostrare urbi et orbi la loro esistenza patinata, in un racconto per immagini zeppo di party, dimore principesche, accessori esagerati, outfit sfavillanti e un assortimento interminabile di borse, obbligatoriamente ricoperte di loghi, dal Monogram Louis Vuitton alle doppie F di Fendi, dal motivo Dior Oblique al GG Plus di Gucci.

La diffusione capillare dei social ha infine (virtualmente) eliminato i residui gradi di separazione tra star e spettatori, consentendo alle prime di assumere il pieno controllo della propria immagine per trasferirla direttamente sugli schermi di pc e telefoni dei secondi, in un flusso ininterrotto di foto, video, commenti e reazioni, favorendo personalità pronte ad alimentarlo con le proprie gesta, magari non epiche ma sicuramente a misura di post.

Tutto sommato, lo scarto tra le mode ricalcate sui vezzi di monarchi, attori e supermodel e il successo delle tute Champion x Chiara Ferragni potrebbe essere meno netto di quanto si pensi.