Nel corso degli ultimi giorni, grazie all’edizione milanese di Sneakerness, il mondo dello streetwear ed il fenomeno collaterale del reselling ha attirato l’attenzione di alcune testate giornalistiche come Striscia la Notizia ed il Corriere della Sera, che finora non conoscevano tale ambiente. L’idea che la gente ha colto dai vari servizi è quella di un mondo piuttosto malsano, al limite dell’illegalità, fatto di guadagni facili e capi esageratamente costosi.
Ovviamente, come spesso accade in questi casi, si fa di tutta l’erba un fascio, senza indagare troppo su quale sia la sfera completa dell’argomento, ed è per questo che alcuni personaggi direttamente interessati hanno reagito con dure critiche nei confronti dei media. Chi vive questa passione, perché in realtà di questo si tratta, si sente infatti in bisogno di chiarire che oltre alla pura apparenza materiale si nasconde una vera e propria cultura.
Il collezionismo di sneakers (e quindi la nascita della figura dello sneakerhead) risale al periodo tra gli anni ’80 e ’90, quando le scarpe indossate dai giocatori dell’NBA trovarono posto anche fuori dal campo, diventando oggetto del desiderio di fan e star. Da quel momento il culto per le sneakers cominciò ad invadere il campo dell’abbigliamento, trasformandosi in un fenomeno di massa (per lo meno all’estero). Quando si parla di collezionismo è inevitabile pensare ad una ricerca maniacale del prodotto più raro ed affascinante, che non si limita ad essere un semplice articolo, ma si porta dietro delle storie più o meno interessanti. Ecco quindi che un oggetto comune come una scarpa o una t-shirt diventa un simbolo di appartenenza ad una cultura, tanto da causare “rischi” o compromessi pur di aggiudicarselo.
Questa situazione però non accade solamente oggi e ristrettamente nell’ambito streetwear, ma è sempre esistita, anche in settori come l’arte, le automobili, la musica ed il cinema. Parlando semplicemente dal punto di vista economico, è noto che ad una bassa offerta a fronte di un’alta domanda, il prezzo sale proporzionalmente. Non c’è quindi da meravigliarsi se alcune sneakers come quelle esposte a Milano superino i quattro zeri o per lo meno se alcune edizioni limitate vengano rivendute ad un prezzo maggiorato rispetto al retail. Il fenomeno del resell ha dilagato recentemente nel nostro Paese, ma negli Stati Uniti, per esempio, è una realtà già ben consolidata che vanta store specializzati da oltre una decade.
Attualmente in Italia si ha l’impressione che ci sia un’invasione di giovani reseller improvvisati che, grazie ai marketplace su Facebook ed ai siti di resell, riescono a guadagnare cifre spropositate, nonostante la loro età. Ma non è cosi. I famigerati ragazzini di tredici anni che guadagnano tremila euro al mese sono estremamente rari, tanto da poterli contare sulle dita di una mano (esagerando). Il reseller infatti non è assolutamente un lavoro semplice, soprattutto in un periodo in cui i mezzi rendono la vendita più accessibile a tutti. Inoltre, la difficoltà non consiste solo nel riuscire a vendere il prodotto, bensì anche aggiudicarselo non è un’impresa da poco. Si parla sempre di capi limitati che per poterli acquistare bisogna vincere raffle sovraccaricate di richieste, o comunque avere contatti che di certo richiedono esperienza nell’ambiente. Ciò che sembra quindi così facile com’è stato mostrato, in realtà non lo è.
Detto ciò, è decisamente riduttivo vedere il mondo dello streetwear e delle sneakers come un freddo mezzo di arricchimento. Alla base di questo settore ci sta la creatività ed il lavoro di menti geniali che cercano di mettere al mondo un prodotto che non si limita solamente ad un fatto estetico, ma che porta con sé un bagaglio di emozioni e racconti. Gli esempi sono pressoché infiniti, ma è inutile stare qui ad elencarli, perché chi ha questa passione li conosce bene e per le “nuove leve” non c’è nulla di meglio che scoprirne la storia gradualmente.