Dopo l’acquisizione di Supreme da parte di VF Corporation analisti, media e semplici appassionati provano a immaginare gli scenari che attendono il brand street per antonomasia, dopo un accordo di cessione da 2,1 miliardi di dollari e il passaggio a un gruppo con in portafoglio più di trenta label, che ne fanno il leader globale nel settore dell’abbigliamento da lavoro.
Ci si chiede come il modus operandi di un marchio che ha fatto diventare di uso comune termini come release, hype, Box Logo e affini possa accordarsi alle esigenze di una multinazionale che rifornisce i negozi di tonnellate di articoli eterogenei, dalle sneakers Vans agli zaini Jansport ai giubbotti Napapijri. Supreme d’altra parte si è affermato alla metà degli anni Novanta vendendo capi da skate nel negozio di Lafayette Street e, soprattutto, ponendosi come catalizzatore delle migliori energie e personalità del periodo, coinvolgendo sportivi, artisti, writer, fotografi, registi e così via.
Non è inoltre mai venuto meno ad alcuni staple: innanzitutto i drop a cadenza regolare e limitati al massimo nella quantità, così da innescare quel meccanismo di attesa spasmodica data dall’esiguità dell’offerta, a fronte di una domanda elevatissima; in secondo luogo, una buona dose di irriverenza, cruciale quando si commercializzano oggetti di ogni genere, diversi dei quali al limite del nonsense, dagli accendini al recente dentifricio, passando per flipper, estintori, palline da tennis e il non plus ultra della categoria, il mattone logato; da ultimo l’approccio direct-to-consumer, che elimina le fasi intermedie vendendo direttamente ai consumatori, nel caso di Supreme parecchio fidelizzati. Lo «Chanel dello streetwear» – com’era stato definito nientemeno che da Vogue nel 1995 – vanta un enorme seguito sui social, spazi di discussione su Reddit e legioni di clienti devoti, disposti a pagare anche cifre astronomiche sui siti di resell pur di ottenere i prodotti desiderati.

Tutti elementi apparentemente difficili da conciliare con le dinamiche di una holding, che da Supreme si aspetta mezzo miliardo di dollari di fatturato entro il 2022. Per la griffe newyorchese, comunque, non si tratta di una novità assoluta: nel 2017, anno dell’uscita di Louis Vuitton x Supreme – uno dei casi più emblematici di commistione tra lusso e streetwear – metà del capitale era passata al fondo di private equity Carlyle per circa 500 milioni. Se già allora in molti avevano accusato James Jebbia di avere avallato la trasformazione da etichetta “alternativa” di nicchia ad azienda mainstream interessata solo ad aumentare i profitti, le voci critiche sono ora destinate a moltiplicarsi.
Ad ogni modo diversi osservatori tendono ad escludere che all’orizzonte ci siano cambiamenti radicali; d’altronde VF Corp. controlla brand che, da anni, collaborano regolarmente con la label, su tutti The North Face e Timberland.
Tanto per cominciare non sarebbe in discussione la strategia fondata su release e, in generale, sulla scarsità di articoli, che costituisce la ragion d’essere di Supreme.
Ugualmente remota è l’eventualità dell’aumento a dismisura della distribuzione: sebbene alcuni paventino un futuro nei centri commerciali, come è per la maggioranza dei marchi nell’orbita della nuova proprietà, quest’ultima sembrerebbe intenzionata più che altro a spingere sulla presenza in mercati oggi fondamentali quali Cina e Corea del Sud.

I maggiori dubbi sono sulle collaborazioni con le maison di lusso. Il ceo di VF Corp. Steve Rendl, infatti, pur notando come Supreme abbia dimostrato di sapersi muovere bene in quel settore, ritiene che «la sua essenza risieda nella connessione con la scena skate della East Coast»; in altre parole, sembra intenzionato a preservare l’autenticità della griffe, la sua storia, distante per definizione dall’elitarismo e dagli standard di prezzo del mondo luxury. Supreme, secondo il manager, ha maggiore affinità con l’ambito sportswear e outdoor, dunque le partnership future potrebbero concentrarsi lì.
Perplessità simili riguardano l’influenza che i vertici della società potrebbero esercitare sulla scelta delle co-lab, privilegiando magari i brand della casa madre a scapito della concorrenza. Di nuovo, le dichiarazioni dei diretti interessati, sottolineando come continueranno gli accordi «con marchi al di fuori del portfolio di VF Corp.», sembrano escludere lo scenario, anche perché Supreme ha sempre fatto della varietà in materia di collaborazioni la propria cifra, alternando high-end e mass market, stilisti concettuali e aziende inserite a pieno titolo nella pop culture; non resta che aspettare.