Ho sempre amato le storie di montagna. Forse perché sono cresciuto ai piedi del Monviso, una montagna di quasi 4.000 metri, triangolare e solitaria. O forse perché le storie di montagna raccontano di un mondo antico e lontano, quasi impossibile da trovare da altre parti.
La prima storia che riesco a ricordare la origliai dall’anziano proprietario di un rifugio. «Era la notte di Natale», disse a mio padre, fermo davanti a una fotografia di un uomo con gli sci in mano e dei lunghi pezzi di ferro che spuntavano dallo zaino. «Sa come sono quelle notti, no? – continuò – si sta insieme e si beve. A un certo punto saltano su in due e buttano lì la cosa “Scommettiamo che arriviamo in punta al Monviso stanotte?”. Ci siamo messi tutti a ridere, fuori faceva un freddo da morire, in cima ci saranno stati 40° sottozero. Ma sono partiti lo stesso e quando sono arrivati in punta si sono accorti che nessuno gli avrebbe mai creduto se non avessero portato una prova. Così hanno smontato la croce che c’è in cima al Monviso e l’hanno portata giù a spalle. In primavera comunque l’hanno rimontata». Quel signore e quella piccola storia origliata avevano scatenato la mia immaginazione. Pur non essendo un alpinista, al massimo un camminatore della domenica, da allora non ho mai smesso di cercare storie di montagna e di rimanerne ogni volta stregato. Walter Bonatti, con la sua estetica unica e mai più eguagliata; Reinhold Messner, il primo al mondo capace di scalare tutti gli ottomila senza usare bombole di ossigeno; Simone Moro, un bergamasco che sfida i giganti himalayani d’inverno, con condizioni atmosferiche ai limiti dell’impossibile. Quegli uomini raccontano di un mondo quasi fantastico in cui io non andrò mai. Come i navigatori, che salpavano verso terre sconosciute, gli alpinisti sono gli ultimi conquistatori: vette inesplorate, certo, ma anche luoghi dell’anima che non è facile visitare se non sei sull’orlo del baratro. Quando un alpinista parte per andare a scalare, si chiama “spedizione”, come quelle degli esploratori. Un alpinista scala per conquistare una montagna e per capire qualcosa di sé stesso. Anche se tutte le quattordici montagne che superano gli ottomila metri sono state scalate, scalarle rimane il Santo Graal, la più grande sfida per gli alpinisti d’alta quota. Da quando Messner ha dimostrato che si può arrivare così in alto senza usare bombole d’ossigeno, quello è diventato lo stile di chi davvero vuole compiere un’impresa.
Scalare un ottomila senza ossigeno è come essere seduti sull’ala di un aereo e provare a respirare. C’è un quarto dell’ossigeno che c’è all’altezza in cui viviamo. Sopra i 6.000 metri inizia quella che chiamano la “fame d’aria”, in cui più che respirarla, l’aria cerchi di mangiarla. Ma dai 7.000 metri si entra nella “Zona Della Morte”, dove il minimo movimento ti costa una fatica immane e il più piccolo errore lo paghi con la vita. A quelle quote fai venti passi e poi le gambe si bloccano e ti devi fermare per ricaricare le energie. Più sali, più il numero di passi si riduce e il tempo di riposo aumenta. Il nostro cervello funziona ad ossigeno e zuccheri e nella “Zona Della Morte” è già molto se non vomiti il poco che riesci a mangiare per il senso di nausea costante. Gli alpinisti descrivono quella sensazione come “obbligarti a mangiare mentre soffri il mal d’auto o il mal di mare”. Prima di riuscire a bere possono passare ore, perché devi bollire la neve ghiacciata se non vuoi bruciarti l’esofago. Non riesci mai a dormire in maniera adeguata. L’alpinismo è una guerra tra corpo e mente, perché quella nausea, quell’insonnia, sono un meccanismo di difesa del corpo per obbligarti a tornare a quote dove sta meglio. Nella “Zona Della Morte” invece ci entri solo quando sei sicuro di poter tentare di arrivare in cima e ci rimani solo lo stretto necessario. A quelle quote non ti ci abitui mai. Gli elicotteri non volano a quelle altezze e anche se sei in cordata con qualcuno, nella “Zona Della Morte” sei sempre solo. Il tuo compagno è solo un aiuto psicologico, perché anche volendo non può aiutarti. Se dopo Messner gli ottomila senza ossigeno sono diventati l’obiettivo degli alpinisti (con l’ossigeno, a 8.000 metri ti sembra di essere a 6.500), da qualche anno la nuova frontiera è scalare quei giganti d’inverno, dove hai il 15% di possibilità rispetto all’estate di arrivare in cima. L’ambiente cambia di continuo, il vento sopra i 100km/h offre finestre strettissime di bel tempo. D’inverno al campo base – un accampamento attrezzato ai piedi della montagna, dove gli alpinisti vivono la maggior parte del tempo durante la spedizione – la temperatura è di -35o. In cima invece scende fino a -70o e per arrivare lassù ci vuole una settimana, vivendo in tende piazzate in spazi così piccoli da essere poco più grandi di un nido d’aquila. Quando torni al campo base dalla montagna, ti sembra che faccia quasi caldo.
Questa è l’alta quota d’inverno. Questo è l’alpinismo senza ossigeno e senza sherpa che ti portano lo zaino. Questo è l’alpinismo che una manciata di uomini e donne sulla Terra hanno scelto come stile di vita, per raggiungere luoghi che grazie a loro possiamo provare a immaginare. Ho sempre voluto raccontare le storie di questi uomini incredibili, storie in grado di raccontare la fatica e la vittoria, lo sforzo, il dolore e la soddisfazione. Leggendo, ho incontrato però un’altra storia, piena di dolore, di sconfitta, e di forza di volontà, che parla di una donna. Si chiama Tamara Lunger, ed è la più grande alpinista italiana.
Tamara è la seconda italiana arrivata in cima al K2 e, dopo quel successo, ha tentato di scalare gli ottomila, per lo più in invernale. È arrivata in vetta al Lhotse, 8.516 metri, ma non lo considera nel suo “palmares”, perché ha usato l’ossigeno per un centinaio di metri per salvare le dita dei piedi che rischiava di perdere. Ma i suoi fallimenti, le sue sconfitte, e soprattutto il modo in cui le ha superate sono molto più spettacolari dei suoi successi. Tamara non ha mai nascosto le sue cadute, le spedizioni finite male se non addirittura in tragedia, ma anzi le ha messe in piena luce.
Dal momento in cui ho realizzato di voler raccontare la sua storia, l’unico titolo che ho avuto in testa è stato infatti “Le più straordinarie cadute della mia vita”. Quando glielo spiego stiamo cenando. Le sue sopracciglia si aggrottano e smette per un secondo di masticare. Le leggo in faccia che si sta chiedendo dove voglio andare a parare. Il suo volto è molto espressivo e non fatico a crederle quando dice che non è capace di nascondere nulla. «Tamara, tu hai fatto il K2, ma hai scritto libri solo sulle tue sconfitte. Ed è stato catartico leggerli, perché hai raccontato a cuore aperto come hai affrontato la delusione e la perdita. Mi ci sono riconosciuto molto più che nella conquista di una vetta». Sorride e il viso si distende. Gli occhi, azzurri come il ghiaccio puro, sono gentili e in qualche modo che non riesco a spiegarmi, persino caldi. Li pianta nei miei e cercando una spiegazione abbozza: «in fondo siamo tutti montanari. Abbiamo tutti le nostre montagne da scalare».
Questa è la sua storia. La storia delle più straordinarie cadute di Tamara Lunger.
Mentre scrivo, Tamara Lunger ha da poco compiuto 37 anni. È nata e cresciuta in Val D’Ega, sopra Bolzano, prima di tre sorelle. Il padre è stato uno sportivo “con rendimenti da professionista in discipline in cui non era previsto neanche il rimborso spese” – mountain bike e sci alpinismo – così faceva lavori che gli permettevano di avere abbastanza tempo per allenarsi. Le donne di casa seguivano in camper il padre nei fine settimana in cui c’erano le gare. È così che Tamara ha imparato ad amare la competizione e la vita all’aria aperta. Il “clan Lunger” continua a essere il porto sicuro di Tamara, che quando è sugli ottomila, oltre al leggendario meteorologo Karl Gabl, consulta sempre anche la mamma, a cui chiede di sentire che cosa ha da dire “il pendolino”. Grazie al clan Lunger, Tamara ha costruito una bussola morale che la guida ancora oggi. In particolare, mi colpisce il suo rapporto con il denaro: viene da una famiglia semplice, di soldi non ce ne sono mai stati molti, ma non l’ha mai frenata dal praticare uno sport che ne richiede parecchi (una connessione internet al campo base può costare fino a 8.000 dollari al mese, per esempio).
«Non ho mai avuto paura di restare senza soldi. Anche all’inizio, quando mi proponevano spedizioni che richiedevano soldi che non avevo, ho sempre accettato. E alla fine li trovavo sempre. Non mi guardo mai in tasca, mi importa di più pensare a quello che sto vivendo, perché domani potrei essere già morta». Essere e non avere.
Tamara inizia a scalare gli ottomila a 23 anni, in cordata con una leggenda vivente, Simone Moro, che le insegna tutto quello che sa su quelle montagne. Insieme tentano il Manaslu e la traversata del Kangchenjunga. Insieme compiono la prima salita in invernale del Pik Pobeda, la montagna più alta della Siberia. E insieme affrontano i Gasherbrum, in cui Moro cade in un crepaccio e si salva anche grazie a Tamara, che ha resistito sull’orlo di quell’abisso trattenendo il compagno, nonostante la corda le stesse quasi amputando un dito.
A 24 anni è la più giovane donna mai arrivata in cima al Lhotse ma, come ho già scritto, Tamara non la considera valida, perché ha usato l’ossigeno, anche se soltanto per pochi metri. Tamara è così, non scende a compromessi e non sa raccontare bugie. «Non so tenermi un segreto. Mi divorerebbe da dentro».
Due anni dopo vive la prima, grande, delusione d’amore: ci sono tanti modi e tutti validi per ripartire da quel dolore, quello di Tamara è stato andare a scalare il K2. Arriva in vetta senza ossigeno e senza sherpa. È la seconda donna nella storia italiana a farcela, dopo Nives Meroi. La conquista del K2 la consacra nella storia dell’alpinismo italiano che non ha ancora trent’anni. La competizione che la nutre e le permette di compiere imprese fuori dal comune la spinge a cercare un nuovo traguardo, un nuovo grado di difficoltà. Nell’inverno del 2016 Tamara e Simone Moro partono per tentare la prima scalata in invernale della “Montagna degli Dei”, il Nanga Parbat. La prima grande caduta di Tamara, che con il suo fallimento ha fatto la storia dell’alpinismo.
Il Nanga, con i suoi 8.126 metri, è soltanto la nona montagna più alta del pianeta, ma è la più grossa. Dal campo base alla cima ci sono 4.000 metri di dislivello, il doppio di quelli che servono per scalare l’Everest, e anche per questo è considerata una delle montagne più difficili. Non è mai stata scalata d’inverno e al campo base non sono in molti.
Insieme a Simone e Tamara, che vogliono provare ad arrivare in cima per una via aperta e mai completata da Reinhold Messner e Hanspeter Eisendle, c’è un pugno di altri alpinisti, provenienti da tutto il mondo. A provare per la via “normale”, più facile, ci sono Alex Txikon, basco, Ali Sadpara, pakistano, e Daniele Nardi, italiano. La via Messner-Eisendle, che Simone e Tamara hanno iniziato ad attrezzare, è minacciata però da un grande seracco – un blocco di ghiaccio grande come un palazzo, sempre più instabile. Abbandonano quindi il progetto di raggiungere la cima del Nanga Parbat per la Messner-Eisendle e, quando tornano al campo base, ricevono l’invito del team Txikon-Sadpara-Nardi di andare con loro per la via normale, su cui hanno montato le corde fisse. Dietro quel grande favore c’è la consapevolezza che avere Simone in cordata aumenta sensibilmente le possibilità di successo. Simone e Tamara lo sanno bene.
L’alta montagna è un ambiente strano: c’è un vetro sottilissimo tra amicizia e rivalità che si rompe molto spesso. Nonostante il suo spirito competitivo, Tamara soffre quando succede: arrivare a un campo in alta quota e trovare esaurite le riserve di gas che lei e Simone avevano portato su, senza essere avvisati da nessuno, oppure chiedere notizie su un seracco o un crepaccio e ricevere mezze risposte. Sono solo alcuni esempi. Il senso di comunità che si trova sulle nostre montagne, in Himalaya si rarefà come l’aria e per Tamara è sempre più difficile accettarlo. «Siamo tutti montanari», le sue parole di prima mi rimbombano in testa mentre me lo racconta. Stanno tutti inseguendo lo stesso sogno, lo stesso obiettivo, è vero. Ma in gioco c’è la vita.
Certe volte succede però che nei lunghi giorni passati al campo base, aspettando una finestra di bel tempo che permetta di andare fino in cima e tornare, si stringono e si cementano amicizie. È quello che succede sul Nanga, tra Tamara, Simone, Ali e Alex. Daniele ha litigato con tutti ed è tornato a casa.
Tamara Lunger è l’unica donna in una cordata che sta per tentare di scalare una montagna mai scalata d’inverno. Mi racconta quasi con rabbia che per molto tempo ha schiacciato la sua parte femminile, l’ha combattuta, perché non voleva sentirsi debole. Alle superiori i ragazzi la prendevano di mira, umiliandola davanti a tutti. Come quando alla festa di fine liceo è stata l’unica ragazza a presentarsi in pantaloni, perché non le andava di mettersi un abito. Anche in montagna, dice, ha sempre dovuto dimostrare di “essere all’altezza”, nel senso di non sottrarsi a nessun lavoro o nessun carico. Con l’extra di dover anche tenere a bada gli spiriti bollenti di alpinisti troppo invadenti, che spesso «sembrano marinai appena scesi da una nave».
Quando stanno per partire, Tamara guarda Alex salutare Igone, la compagna che lo segue in ogni spe- dizione. Sa che se è l’uomo a giocare la parte dell’eroe, tutto è più facile. E sa invece che per una donna è diverso chiedere a un uomo di aspettarla a valle, non è lui al centro, al top. Pochi giorni prima della partenza le sono anche venute le mestruazioni (le chiama la Zia Mitzi), che la fanno sentire fisicamente molto debole.
La salita per la via normale è più facile, Simone la tranquillizza dicendole che saranno molto più veloci rispetto alla Messner-Eisendle, ma nulla è scontato in un’invernale e il minimo imprevisto può fare la differenza tra successo e fallimento, tra sopravvivere e morire. Come quando arrivano al Campo 2, a 6.100 metri, e scoprono che due dei quattro materassini che hanno si sono bucati. Significa che due persone dovranno dormire separati dalla roccia e dal ghiaccio del Nanga solo dal sacco a pelo e dalla tuta d’alta quota. Significa non dormire. Per compiere uno sforzo fisico e mentale come quello che stanno compiendo, dormire è fondamentale. Riuscire a riposare i muscoli e la testa, anche solo per poche ore, è necessario soprattutto quando entreranno nella “Zona Della Morte”. Con un “Tetris d’alta montagna” usano i materassini rimasti in modo che tutti ne abbiano almeno un pezzettino. Tamara è schiacciata contro il fianco della tenda. In piena notte, quando le scappa la pipì e deve cambiarsi per la Zia Mitzi, lo deve fare usando una bottiglia e una piccola lucina, per essere sicura di centrare il buco e non sporcare i compagni che intanto si sono addormentati. Un’operazione che richiede ogni volta più di venti minuti di contorsionismo e avvitamenti. In montagna tutto è più difficile.
Quando arrivano al Campo 3 hanno ormai superato i 6.700 metri e sono alle porte della “Zona Della Morte”. La tenda è piazzata su una specie di pianoro e così, quando non riesce ad addormentarsi per colpa del solito tetris, Tamara apre la zip ed esce dalla tenda. «Non ho mai vissuto una notte simile. Sono rimasta lì immobile davanti alle montagne illuminate dalla luna. Un paesaggio così non l’avevo mai visto. In quel momento mi sono resa conto che comunque sarebbe andata a finire la spedizione, sono stata una dei pochi esseri umani ad aver potuto godere di quello spettacolo. Non so spiegarlo, so solo che ho sentito qualcosa di molto profondo, come se fossi arrivata al centro della vita e lì mi sono detta “ok, posso anche morire. Non mi sentirò mai più così piena e completa”. Sono questi i momenti che danno il senso a ciò che facciamo. Non è stupire con qualche impresa straordinaria, diventare famosi, fare soldi. Quelli sono gli strumenti per portarci fin lassù. Non vogliamo che qualcuno ci dica quanto siamo bravi, vogliamo solo esserlo abbastanza per vivere simili momenti di felicità». Penso che queste parole di Tamara siano la miglior risposta possibile a tutti noi che, leggendo e ascoltando queste storie, ci siamo chiesti almeno una volta “ma chi glielo fa fare?”.
Tutti noi abbiamo un talento, e il più grosso danno che possiamo fare a noi stessi è non perseguirlo. Perché se lo facciamo, se lo coltiviamo senza farci influenzare dall’opinione degli altri, possiamo vivere momenti di pienezza simili a quelli di un alpinista che guarda il mondo illuminato dalla luna e capisce che quello è il suo posto nel mondo.
Dopo questa notte magica è arrivato il momento del Summit Push, dello sforzo finale per tentare di arrivare in cima. È arrivato il momento per Tamara di una caduta talmente spettacolare da farla entrare nella storia dell’alpinismo mondiale. Da Campo 4 a 7.200 metri partono per la vetta alle 6 del mattino. È tardi, d’estate si parte a mezzanotte, ma d’inverno fa troppo freddo. Fin dai primi passi Tamara si accorge che qualcosa non va. Non soffre il mal di montagna, eppure ogni cosa che ingerisce – che sia solida o liquida – la vomita. Sa bene che non si può affrontare uno sforzo così senza idratarsi e nutrirsi, ma la sua competitività, la sua volontà di schiacciare quella parte debole che sente hanno la meglio e continua a camminare. 25 passi e si ferma. Man mano che sale i passi si riducono. Prima 20, poi 15. Simone davanti a lei la vede in difficoltà e la spinge nell’unico modo possibile: con la voce. «Forza Tamara, manca poco. Duecento metri alla cima, Tami! Ci siamo!». Sembrano pochi, ma sono un’immensità. «Centocinquanta metri Tami, vedrai che ce la fai».
Lei però si sente sempre più debole. Ha provato di nuovo a bere del tè caldo e ha di nuovo vomitato. «Settanta metri» urla Simone, e mentre lei alza lo sguardo, lo vede scomparire dietro una roccia. Tamara è completamente sola. La disperazione ha la meglio. Ha perso il suo riferimento visivo e con Simone se n’è andata anche la sua motivazione. Mancano 70 metri alla cima del Nanga Parbat, meno di un campo di calcio, per compiere un’impresa mai riuscita a nessuno nella storia. A quel punto si mette a pregare. Tamara vive il suo rapporto con Dio in maniera molto personale. Parla spesso con Gesù, condividendo sensazioni e impressioni mentre cammina in alta quota. Ma oggi, a 70 metri dalla cima, non sente nessuno. Poi, all’improvviso, una sensazione. Un’intuizione chiara e lampante. “Tamara, se arrivi in cima non torni più a casa”. Ha sempre rifiutato quella parte sensibile, istintiva, eppure lì, a 8.056 metri, completamente sola, a pochi passi dall’impresa della vita, decide di abbandonarsi al suo istinto. Dà le spalle alla cima del Nanga Parbat e decide di tornare indietro.
Simone, Ali e Alex conquistano per la prima volta in invernale la vetta del Nanga Parbat, ma tornando in tenda al Campo 4 nessuno parla, nessuno festeggia. Lo sforzo è stato talmente grande che nessuno ha le energie neanche per congratularsi. Tamara tornando indietro è anche caduta e ha rischiato di morire. Nessuno le chiede perché abbia quei graffi sulla faccia, né come stia. Nessuno è felice, nessuno ride. La montagna ti spezza anche quando riesci a conquistarla. Tamara trascorre cinque minuti amarissimi, in
cui si rende conto di quello che i compagni hanno fatto e a cui lei è arrivata così vicina. Ma quel momento passa veloce com’è arrivato, cancellato dalla consapevolezza di tutto quello che ha guadagnato in cambio di un successo.
Simone Moro ha detto di non essere mai stato tanto orgoglioso di Tamara Lunger. Nessun alpinista avrebbe preso quella decisione a 70 metri dalla cima, e per questo lei è entrata nella storia dell’alpinismo mondiale. 70 metri a quella quota vogliono dire quasi un’ora e mezza di cammino. Se avesse proseguito sarebbe morta lei e molto probabilmente anche tutti i suoi compagni. Non esiste nessuna foto dei tre in cima, perché nessuno ha voluto scattarla senza Tamara. Hanno detto che la prima in invernale del Nanga Parbat è un successo che hanno costruito in quattro. Didar, il cuoco che li aspetta al campo base, quando vede Tamara le dice: «Ma ti rendi conto di cosa hai fatto? Mai prima d’ora un essere umano è andato così in alto come te e anche se non sei arrivata su, mai qualcuno è stato così forte». Questa è stata la prima, spettacolare, caduta di Tamara Lunger, che a 70 metri dalla cima del Nanga Par- bat ha iniziato a seguire la sua intuizione: “sei vai in cima, non torni più a casa”.
Il mare ha un solo modo di ucciderti. La montagna ne ha mille. Gli alpinisti lo sanno bene, ma arriva per tutti un momento in cui questa lezione ti viene sbattuta in faccia e devi solo sperare di essere abbastanza fortunato da poterla raccontare. Tamara l’ha vissuta nell’inverno del 2021 sul K2, la “sua” montagna. La seconda, spettacolare caduta di Tamara Lunger, in realtà è molto più di una caduta. È una tragedia. Un trauma che Tamara mi ha raccontato star superando solo dopo due anni di grande e difficile lavoro su sé stessa. La maggior parte degli alpinisti, quando entrano a contatto con la morte come ci è entrata lei, “tirano una tenda” su quello che è successo. Tagliano il ramo secco e non ne parlano più. Tamara, che sul Nanga Parbat ha imparato ad ascoltarsi, ha capito che per superare quello che le è successo doveva tirarlo fuori, lasciarlo sfogare, raccontarlo a tutti, perché anche altri possano riconoscersi in quel dolore e provare a superarlo come ha fatto lei. Oggi, se si guarda indietro, vede che quello che è successo, per quanto terribile, è stato un seme che sta germogliando in progetti bellissimi che non sarebbero mai nati senza quel seme del male. Ha perso amici, ma ha trovato le loro famiglie. «Sto cercando di riemergere da quelle ceneri». Ma andiamo con ordine. Che cosa è successo nell’inverno del 2021 sul K2?
Dopo il fallimento della spedizione sui Gasherbrum – in cui Tamara ha rischiato di perdere la mano quando Simone Moro è precipitato in un crepaccio e lei ha resistito con la corda che le segava lentamente il pollice, salvandogli la vita – e la clausura del Covid, ha pensato che fosse il momento di tornare alla montagna a cui è più legata, il K2, che non è mai stata scalata in inverno. Per la prima volta si separa da Simone Moro e organizza la spedizione invernale con il rumeno Alex Gavan. Il K2, 8.611 metri, è la seconda montagna più alta del pianeta, e dopo l’Annapurna è la montagna dove si muore di più. Si calcola che il numero di alpinisti che sono arrivati in vetta è pari al numero di quelli che sono morti. Il K2 – o “la” K2, come la chiama Tamara – è una montagna affascinante e cattiva. Il Collo di Bottiglia – uno strettissimo canale a poche centinaia di metri dalla cima, e sormontato da un blocco di ghiaccio grande come un palazzone di periferia – è il passaggio che terrorizza tutti gli alpinisti capaci di arrivare a quelle quote. Probabilmente non esiste al mondo passaggio più complicato del Collo di Bottiglia del K2.
Le difficoltà del K2 non si limitano al Collo, ma sono malignamente in agguato in tutti i passaggi e i metri che ci vogliono per arrivare fin lassù. Il Campo 1 è posizionato in un punto così impervio da avere spazio per sole sei tende. Quando esci e non c’è luce, devi stare attento, perché la tenda si apre direttamente sul vuoto. Il vento e le tempeste di neve offrono pochissime finestre di bel tempo. Per questo nessuno è mai arrivato in vetta d’inverno. O almeno fino al 2021: due team nepalesi guidati da “Nimsdai” Purja e Mingma G Sherpa, hanno conquistato il K2 proprio mentre Tamara era lì.
Con Alex, Tamara non si trova bene: è molto più veloce di lui, lo aspetta ore e ore nelle salite di acclimatamento che fanno quando il maltempo gliene dà la possibilità. Tamara però non è mai sola: conosce e scala spesso con Juan Pablo Mohr Prieto – detto JP – e Sergi Mingote. «Non ho mai visto nessuno muoversi su una montagna come JP. Mai nessuno così veloce» mentre mi dice questa cosa, provo a immaginare quante persone debba aver visto in montagna in tutta la sua vita. Quel giudizio mi appare davvero impressionante. JP è leggero e sorridente. Tamara lo prende in giro dicendogli che è proprio uguale a come lei s’immagina Gesù. Curiosamente, anche JP ha 33 anni. Sergi invece è un uomo di quasi 50 anni, è stato sindaco del suo paese in Catalogna, ha scalato diversi ottomila, tra cui due volte l’Everest in solitaria; il Broad Peak e il K2 a distanza di sette giorni l’uno dall’altro, sempre senza ossigeno supplementare. A casa lo aspettano la moglie Miriam e la figlia Julia. Racconta spesso di loro.
Tamara si trova benissimo a scalare con Sergi: se JP si muove come un giaguaro delle nevi, Sergi ha lo stesso passo di Tamara e per questo legano moltissimo. Con Sergi e JP, sconosciuti fino a poche settimane prima, si sente sé stessa molto più che con il suo compagno di cordata, che a volte le dà l’impressione di voler esser servito da lei. Quando glielo racconta, i due le dicono di non preoccuparsi, che loro ci saranno sempre per lei. Guardando JP, Tamara ha la sensazione che «questo mi riporta a casa, qualunque cosa succeda». A Campo 3, nell’ultima salita di acclimatamento, Tamara matura una decisione complicata. Alex arriva alla tenda molto dopo di lei: «non posso star qua ad aspettarti, l’ansia che ti sia successo qualcosa mi divora. La nostra cordata finisce oggi». Nell’impresa alpinistica più complicata mai affrontata, nel bel mezzo di quella che dovrebbe essere la scalata della sua definitiva consacrazione, Tamara ha il coraggio e la forza di non farsi andare bene una situazione complicata. Di tagliare, nonostante la posta in gioco. Ha già scalato questa montagna, ma le sensazioni che sta provando questa volta sono molto diverse dalla prima volta sul K2. Le condizioni sono davvero estreme, in certi momenti sente che la montagna la sta rifiutando.
Dopo il momento di grande tensione vissuto al Campo 3, lei e Alex sono ai piedi della montagna, di ritorno al campo base, quando sentono un urlo venire dalla parete sopra di loro. Tamara vede un corpo cadere e fermarsi a poche centinaia di metri da dove si trova. Corre, ma sa già quello che troverà. Quello che non sa è chi troverà. Sergi Mingote, l’amico che solo poche ore prima l’aveva accolta nella loro cordata quando lei gli aveva raccontato delle difficoltà con Alex, facendola sentire al sicuro, è riverso nella neve. Non è ancora morto, ma Tamara sa bene che non c’è niente da fare, anche se ovviamente ci ha provato lo stesso. Ha chiamato Simone Moro che è però sul Manaslu, ha chiamato con il satellitare chiunque potesse raggiungere per non lasciare nulla d’intentato. JP arriva correndo, «Fuck! Fuck! Fuck!», e dal campo base la conferma: sono le 15:20, il tramonto è tra poche ore, le autorità hanno risposto che forse sarebbero venute su l’indomani. È finita. Sergi Mingote, un uomo gentile e un grande alpinista, è morto.
Per Tamara è uno shock. Prima la fine della cordata con Alex al Campo 3, poi la tragedia di Sergi. «La giornata più allucinante della mia vita», non sapendo quello che ancora doveva succedere. Non sapendo che il K2 non ha ancora finito con loro. Quando il corpo di Sergi viene portato via e Alex lascia il campo base – non senza difficoltà e discussioni – Tamara e JP si ritrovano senza più compagni. Spiega che non si sente pronta a salire. Confida di aver paura di rimanere sola. JP le ricorda senza esitare che lui ci sarà sempre per lei. Decidono di fare cordata insieme e provare la vetta anche in ricordo di Sergi. Tra i team che proveranno la vetta ci sarà anche quello composto dall’islandese John Snorri e da una vecchia conoscenza di Tamara: Ali Sadpara, il pakistano entrato nella leggenda del suo paese per la scalata in invernale del Nanga Parbat. Insieme a loro c’è anche il figlio di Ali, Sajid Sadpara, poco più che ventenne.
Dopo aver consultato il solito meteorologo Karl e il pendolino di mamma Lunger, la nuova cordata Tamara-JP è pronta a sfruttare la stretta finestra di bel tempo e tentare la cima. Non appena partiti, Tamara si rende conto di quanto sia veloce JP e di quanto stia faticando lei. Come sul Nanga, è tornata anche la Zia Mitzi. «Sul Nanga lo vivevo come una rogna. Ma grazie a quello che ho vissuto laggiù, ho capito che non mi debilita soltanto, ma mi permette di stare davvero dentro le cose che vivo». JP è sempre più veloce e lei non vuole rimanere indietro. «Sentirsi sempre in competizione e inferiore sono due facce della stessa medaglia». Mi appunto questa frase, ripromettendomi di pensarci tornando a casa da questa chiacchierata.
JP capisce il momento di Tamara, le dice di non preoccuparsi, che avrebbero cambiato il loro piano di attacco alla cima per permetterle di recuperare. Ma in montagna non c’è tempo per aspettarsi e quando arrivano al Campo 3 Basso, Tamara capisce che non ce la può fare. È come se la montagna la stesse rifiutando. Lo dice a JP: «non è la mia volta». Mentre guarda JP allontanarsi le viene da pian- gere. Non vuole lasciarlo solo, ma sente che questa decisione è quella giusta. Mentre sta tornando giù, Tamara incrocia la cordata di Ali Sadpara, anche loro diretti al Campo 3. «Kaki, ma cosa fai?» le dice Ali. Tamara gli spiega che non se la sente, ma lui la convince ad andare su con loro. Passa un’ultima notte al Campo 3 con JP, ma al mattino la sua decisione non è cambiata. «È come un’intuizione. Non è paura di morire. E dopo il Nanga ho capito che devo seguirla quell’intuizione». Torna giù al campo base, lasciando il tentativo di vetta a JP, Ali Sadpara e John Snorri. Anche Sajid Sadpara, infatti, rinuncia alla cima per un problema alla bombola di ossigeno d’emergenza.
Si augura che ce la facciano, vuole bene a ognuno di loro. Con JP e Ali ha condiviso un pezzo di vita davvero importante. E invece non li rivedrà mai più. JP, Ali e John vengono investiti da una tempesta. I loro corpi verranno ritrovati in estate da Sajid Sadpara, che è tornato sul K2 a cercarli. Ritrova JP 400 metri sopra il Campo 4, Ali 300 metri più su, vicino al Collo di Bottiglia, John 100 metri ancora più in alto. Sono morti soli, lottando per tornare a casa dopo aver conquistato la cima. Tamara ne è convinta. Quando glielo chiedo, se lei pensa che ce l’abbiano fatta, il suo è un sì deciso. «JP era il più veloce. John il più lento di tutti. Per come hanno ritrovato i corpi, per me sono arrivati in cima e stavano tornando al Campo 4».
Tamara sul K2 ha perso tutti. Prima Sergi. Poi JP e Ali. «Sono tornata a casa e ho pianto per giorni. L’unico modo per non piangere era mangiare e allora mangiavo, mi ingozzavo. Quando ho smesso di piangere ho dovuto affrontare le aspettative della gente, degli sponsor, e lì mi sono sentita schiacciata». Le persone che incontra non fanno che chiederle “quando ricominci, Tamara? Quale sarà la prossima impresa?”. «È come avere mille occhi che ti guardano, tutti in attesa di conoscere la tua prossima mossa». Quelle aspettative le sente addosso come un obbligo. Il “personaggio Tamara Lunger” sta schiacciando Tamara, la donna che tornata dal K2 non sa più chi sia. «Io volevo soltanto spiegare a tutti che sono umana anche io».
Quando ha ricominciato ad allenarsi, perché si sentiva obbligata a soddisfare quelle aspettative, si è infortunata alla schiena. «Non riuscivo a muovermi e… ero felice! Lo so che è sbagliato dirlo, ma devo essere sincera». Dopo sei mesi di fisioterapia ha ripreso gli allenamenti, rompendosi due volte la caviglia. Qualcuno le ha detto: «Tamara, che cosa deve ancora succedere perché tu capisca?». Il suo corpo aveva capito quello che la sua mente ancora rifiutava: «non sono più la Tamara di prima».
Come si fa a superare una situazione così? Come si fa a ritrovare la strada verso sé stessi? Semplicemente non si può. Non dopo un’esperienza simile. Per quanto tu voglia recuperare la persona che eri, un trauma così grande ti cambia per sempre e allora l’unica cosa che ti resta da fare è cercare di fare in modo che quel dolore si trasformi in qualcosa di buono.
Si è seduta davanti agli sponsor e gliel’ha spiegato a cuore aperto, sperando che capissero quello che stava per dire: «non posso più essere quella di una volta. Ho bisogno di tempo per ricominciare, per riprendermi. Non so quanto ci vorrà, perché… ho paura di morire». Tamara non ha mai avuto paura di morire. Nemmeno quando era a 70 metri dalla cima del Nanga. Ha rinunciato per una sensazione, ma non per la paura di morire. Anche sul K2, non è tornata indietro per paura di morire. Ora invece sì, quella paura la prende prima di fare qualsiasi cosa. «Mi mettevo gli sci e avevo paura di una valanga. Salivo in bicicletta e aveva paura di cadere e spaccarmi la testa. Prendevo il parapendio e avevo paura si strappasse la vela. Sono stati due anni davvero difficili. Davvero duri». Poi, un paio di mesi prima dell’estate, Tamara ha iniziato un percorso con una trauma-terapista. La specialista la obbliga a rivivere quello che è successo sul K2, a stare dentro quel trauma e condividere quello che sente. «Che cosa senti Tamara? Che cosa vedi?» «Se insegui i tuoi sogni…. muori».
Quando me l’ha detto, mi sono venuti i brividi sulla schiena. I suoi occhi di ghiaccio caldo erano incollati ai miei. Per un secondo mi è sembrato di vederli vibrare. «Non è così, lo sapevo, ma non l’avevo mai tira- to fuori. A quel punto lei mi ha chiesto: “ma è così, Tamara?” e da quel giorno ho cominciato a razionalizzare, a superare quel trauma. Da quel giorno non ho più paura di morire».
Io non so se Tamara ricomincerà a scalare gli ottomila e sinceramente, dopo quello che mi ha raccontato, nemmeno mi interessa. Pensavo di incontrare una grande alpinista e mi sono trovato davanti una donna capace di prendere le sue cadute, i suoi traumi, e trasformarli in qualcosa di buono per sé e per gli altri. Una donna che ha imparato ad accettare sé stessa e le sue sensazioni. Tamara oggi sta portando avanti, insieme ad altri, il sogno di JP di insegnare l’arrampicata ai bambini e alle bambine del Pakistan: si chiama Climbing For a Reason. Ha costruito un rapporto strettissimo con le famiglie degli amici che ha perso sul K2, in particolare con Miriam e Julia, la famiglia di Sergi in Catalogna.
Per giorni ho cercato un modo emozionante per chiudere la storia di Tamar Lunger. Mentre cercavo questo finale mi tornava continuamente in mente un momento preciso della chiacchierata fatta con lei, in una sera d’estate sulle Alpi Piemontesi. Me lo ricordo così bene che non ho bisogno di riprendere la registrazione. Ancora adesso, mentre scrivo, fatico a trattenere le lacrime. Un giorno Miriam, la moglie di Sergi Mingote, le ha detto: «quella spedizione mi ha tolto Sergi, ma mi ha regalato te». Per giorni mi sono chiesto perché mi tornasse in mente sempre e solo quella frase. Poi ho capito. Non credo ci sia modo migliore per raccontare e riassumere le più straordinarie cadute di Tamara Lunger, la donna che mi ha ricordato che “siamo tutti montanari, con le nostre montagne da scalare”, l’alpinista capace di compiere imprese straordinarie, ma di scrivere libri soltanto sulle sue sconfitte.