Il documentario sportivo più significativo uscito negli ultimi anni è senza dubbio “Free Solo”. Non necessariamente il più bello, ma quello più importante. Diverse sono le motivazioni: come il film è riuscito a cogliere l’essenza di Alex Honnold e della sua ossessione per l’arrampicata, le inquadrature mozzafiato, la storia, la dinamica appassionante.
Tutte queste cose sono contestualmente vere, ma il merito di “Free Solo” è l’aver dato dignità a uno sport poco sotto la luce dei riflettori. Così accade per i cosiddetti “sport minori”: fino a che Netlfix – o una qualche altra piattaforma – non ci realizza un prodotto a riguardo, sembra non esistano. Alex Honnold e “Free Solo” hanno dimostrato che anche una pratica sportiva non necessariamente sotto la lente di ingrandimento dei media, non solo può essere degna di essere raccontata, ma può risultare di gran lunga più appassionante. Da questo presupposto nasce un altro grandissimo documentario come “14 Vette”, dedicato al mondo dell’alpinismo, e ora “The Deepest Breath” che riguarda il mondo dell’apnea.
Caricato poche settimane fa su Netflix (con polemiche al seguito, a causa della scelta di farlo uscire negli stessi giorni in cui il sottomarino Titan affondava negli abissi) come progetto originale della piattaforma, “The Deepest Breath” racconta le storie parallele di una campionessa italiana Alessia Zecchini e del safety-diver Stephen Keenan. Ognuno dei due in viaggio verso la propria missione, quella di Alessia: battere il record del mondo in assetto costante; quella di Stephen, trovare un proprio posto nel mondo, fino al punto in cui, nel 2017, le loro vite non si incrociano e collidono in una storia di passione sportiva e sentimentale.
Senza addentrarsi troppo in quello che il documentario racconta (e in questo caso più che in altri è bello vederlo senza realmente sapere le storie dei protagonisti coinvolti o anche solo citati): chi ha mai sentito parlare dell’apnea come sport? Pochi, forse pochissimi, non si parla del gioco di trattenere il respiro sott’acqua che si fa da bambini, ma di vere competizioni, vere sfide che prevedono tecnica, anni di pratica, dedizione e rischi importanti. L’apnea si può considerare a tutti gli effetti uno sport estremo, che spinge il corpo ai suoi limiti, sia polmonari che nervosi.
Una cosa che viene spiegata molto bene all’interno del documentario è come gli incidenti accadano spesso negli ultimi metri di risalita, questo perché la mancanza di ossigeno è tale da costringere il cervello a un blackout, che assomiglia molto a uno svenimento ma che in certi casi può risultare addirittura fatale.
Da sport poco conosciuto, “The Deepest Breath” ha messo l’apnea al centro della discussione planetaria, mostrandone aspetti ignoti con una crudezza molto poco velata: impressionano le scene di apneisti con pupille ribaltate a causa della mancanza di ossigeno. E nel suo piccolo è diventato un vero caso, tanto da far rimbalzare la storia di Stephen Keenan e di Alessia Zecchini (campionessa di calibro mondiale, ma semi sconosciuta ai più fino a qualche settimana fa) su tutti i principali siti di informazione mondiali, qui un articolo di Il messaggero, qui uno del Guardian e qui uno del NY Times – giusto per segnalare solo i portali più famosi.
Il fascino di un documentario come questo, come era stato per “Free Solo”, è nell’esplorazione del limite, nel mostrare che cosa significa camminare in bilico su una corda molto sottile che separa la vita dalla morte, oppure raggiungere i 104 metri di profondità sotto il livello del mare con la sola forza del proprio fiato e delle proprie gambe.
Ciò che spinge queste persone a compiere atti che ai più sembrano assurdi e insensati è il motivo per il quale ci si innamora delle loro storie, della loro capacità di essere profondamente umane nonostante la distanza fisica e mentale che le separa chi sta di fronte al computer mentre guarda Netflix. Impressionante pensare quanto poco significhi un metro nella quotidianità e quanto invece valga per uno sportivo che deve scendere e risalire sott’acqua la lunghezza di un grattacielo di 70 piani.
È evidente che questo tipo di approccio non può che avere delle conseguenze potenzialmente mortali, come ricorda il padre di Keenan “Gli sport estremi hanno conseguenze estreme”, e questa parte non viene mai dimenticata dalla regista Laura McGann, che decide di tenere sempre presente il fantasma di che cosa potrebbe succedere, anche in momenti apparentemente tranquilli.
Per questo “The Deepest Breath” risulta così drammaticamente affascinante, per la sua capacità di trasportare lo spettatore in un mondo che non gli appartiene senza farlo sentire escluso, ma ricordandogli costantemente che ciò che guarda non è un film di finzione con un lieto fine: sono vere esperienze di persone in carne e ossa che mettono la propria vita su una linea per spingere oltre il limite di ciò che si conosce.