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“The Last Of Us” ha creato un precedente?
Articolo di
Lorenzo Baravalle
Ho giocato a “The Last Of Us” insieme a Rossella, mia moglie, durante il primo lockdown. La storia è semplice: un virus, di cui non si conosce l’origine, infetta tutto il mondo. L’umanità e le sue convenzioni crollano nel giro di pochi giorni, in un’apocalisse senza ritorno. Insomma, la nostra fu una pessima scelta di tempi. Non sono un gamer, né lo è lei, ma avevo letto che quello non era un gioco come gli altri, che alla fine ti sembra davvero di aver fatto un viaggio. Quello che posso dire, per evitare di rovinare l’esperienza a chi non ci ha mai giocato, è che una volta arrivati alla fine e spenta la PS4, io e Rossella ci siamo guardati senza dire una parola: entrambi avevamo gli occhi gonfi di lacrime.
“The Last Of Us” è uscito 10 anni fa ed è stato qualcosa di completamente nuovo nel mondo dei videogame. Non è lo sparatutto zombie a cui siamo stati abituati, con munizioni infinite da scaricare su folle di morti viventi. Le armi scarseggiano, spesso te la devi cavare soltanto con un coltello e una benda, e molto presto ti accorgi che i veri antagonisti non sono gli infetti, ma tutti gli altri, quelli che come te sono rimasti umani e cercano di sopravvivere. Loro sono la vera minaccia, perché, come nella vita vera, nessuno è più crudele con l’uomo di un altro essere umano, specie se in ballo c’è la propria sopravvivenza, e in questo caso non sto pensando per forza a quella fisica. Giocando ti accorgi che se arrivasse un’apocalisse è molto probabile che l’umanità finisca così. Per questo si riesce a empatizzare velocemente con i due protagonisti e il legame che si crea ed evolve tra loro. È vero, tangibile. Joel, un uomo di mezz’età indurito e disincantato, ed Ellie, una ragazzina sfrontata e decisa, che attraversano gli Stati Uniti in cerca di una speranza a cui nessuno dei due sembra credere fino in fondo.

Insomma, la serie uscita nelle ultime 9 settimane partiva da un’ottima base, da un capolavoro narrativo con pochi eguali nel suo genere e non è un caso – ma non era nemmeno scontato – che uno degli autori e registi del gioco, Neil Druckmann, sia anche uno dei due showrunner della serie. L’altro è Craig Mazin, che in palmares ha un’altra grande miniserie uscita per HBO, “Chernobyl”.
La loro sfida era quella di non cadere nella monotonia di uno scenario sempre più o meno simile (viaggio-sopravvivenza-infetti da uccidere) e di rispondere alle (tante) domande che il videogioco lasciava senza risposta. Lo hanno fatto fin da subito, spiegando con una teoria quantomeno interessante che il virus era un fungo. La loro storia doveva essere così convincente che sono arrivati al punto di vietare a tutti – troupe e cast compresi – di riferirsi agli infetti come “zombie”.
Togliendo molta azione dalla sceneggiatura, quello che resta in “The Last Of Us” sono i sentimenti, che hanno fatto esplodere in episodi che sono già un cult, come il terzo intitolato “Long Long Time”, dopo il quale se non vi viene da piangere “non sono mica sicuro di volervi conoscere”, o “When We Are In Need”, ottavo episodio, nel quale mettono in scena uno dei personaggi più crudeli, allegorici e veri visti da tempo a questa parte in una serie. Ma se questo episodio è preso quasi interamente dal videogame, il terzo è una narrazione originale di Druckmann e Mazin, con la quale hanno voluto prendersi una pausa dal viaggio di Ellie e Joel e hanno fatto capire quanto sono bravi a scrivere quando di mezzo ci sono pistole, emozioni e la fine del mondo fuori dalla porta.

E poi ci sono le interpretazioni magistrali di Pedro Pascal nel ruolo di Joel e Bella Ramsey in quello di Ellie. Avevo delle riserve all’inizio, lo ammetto: l’aspetto fisico è molto diverso dai loro omologhi nel gioco, e per essere una serie molto fedele alla fonte di partenza qualcosa mi stonava. Poi ho capito dove volessero andare a parare. La profondità della loro recitazione ha tirato fuori il dramma di vivere in un mondo nuovo e difficile. L’ha umanizzato, rendendolo ancora più vero, e per questo universale. Bella Ramsey ha portato sulla scena una Ellie più decisa, più indipendente. Pedro Pascal ha dato una tridimensionalità del tutto nuova al personaggio di Joel. Hanno trasformato Joel e Ellie in qualcosa di molto più grande, con le loro tensioni morali, la disperata incapacità di fidarsi di qualcun altro, e il loro bisogno di una famiglia, mai dichiarato apertamente eppure sempre così vivido nelle scene con loro protagonisti.
Neil e Craig l’hanno detto: “Se una scena d’azione non ci permetteva di raccontare qualcosa di un personaggio, di farlo evolvere, allora per noi era un taglio facile”. Una masterclass di scrittura, racchiusa in una frase.
La domanda a cui rispondere rimane se “The Last Of Us” ha creato un precedente, un riferimento per raccontare storie che non arrivino più solamente dai romanzi, ma anche dai videogame.
Naturalmente sì, aspettiamoci nei prossimi anni sempre più titoli pescati dagli scaffali di GameStop. Ormai l’abbiamo imparato: se a Hollywood qualcosa funziona, ce lo propinano fino alla nausea. Mi viene però difficile immaginare un’esperienza più intima ed emotiva di quella che ha regalato questa serie. E forse è questo uno dei motivi profondi del successo della serie. È ben scritta, è ben recitata, d’accordo, ma è quello che ci fa provare a coinvolgerci e a farci rimanere affascinati. “The Last Of Us” ci ricorda chi siamo, ci ricorda come funzioniamo al di là di infetti e scenari postapocalittici. Ci ricorda che la nostra salvezza sono gli altri, è il sentirsi parte di qualcosa. Un gruppo. Una famiglia. E ci ricorda che per farlo non c’è bisogno di grandi compagnie, né di legami di sangue. Basta essere in due per sentirsi protetti da quello che c’è là fuori. Basta essere in due per trovare il coraggio di lottare e resistere.
When you are lost in the darkness… look for The Last of Us.
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