“Off-Season” è un termine tecnico che arriva dal mondo dello sport, ed è legato all’intervallo di tempo che passa tra la fine di una stagione agonistica e l’inizio di un’altra. Durante questo break, viene definito off-season un periodo comunque trascorso ad allenarsi per migliorare le proprie skills e farsi trovare pronti per l’inizio del campionato successivo. Sembrerebbe quindi un momento dalla tensione agonistica minore rispetto alla stagione effettiva, ma in realtà è proprio lì che viene fuori la mentalità vincente, quella del campione, di chi sa che è proprio quello il momento che può fare la differenza tra un bravo giocatore e un fuoriclasse. Hard work beats talent, when talent doesn’t work hard, il duro lavoro batte il talento, se il talento non lavora duro.
Questo J. Cole lo sa bene e ha intitolato proprio “The Off-Season” il suo nuovo album, il sesto ufficiale. Un lavoro che, stando a questa premessa, dovrebbe quindi rappresentare una fase transitoria, in cui lavorare sodo e migliorare i propri mezzi, nell’attesa dell’exploit successivo. Ma è davvero possibile considerare un disco del genere “solo” un intermezzo di quella che lui ha definito la “The Fall Off Era”?
“The Fall Off Era”: quando, come, cosa
“The Fall Off Era” è un percorso che inizia il 30 dicembre 2020, fatto intendere da un post sul profilo Instagram dell’artista che sembrava indicare una sorta di programma diviso tra progetti: la serie di featuring concessi e l’uscita di “Revenge Of The Dreamers 3” della sua Dreamville Records, e alcune prossime pubblicazioni, “The Off-Season”, “It’s a boy” e “The Fall Off”, quest’ultimo scritto in grande, quasi ad indicarne la maggior importanza.
Un messaggio ai tempi un filo criptico, e che ancora oggi è tutt’altro che chiarissimo. Si è infatti vociferato molto su un possibile ritiro del rapper, una volta realizzato questo ciclo, e lo stesso Cole ha disseminato indizi che sembrerebbero ricondurre a questa conclusione. Nessuno sapeva di preciso cosa aspettarsi, e nessuno ha certezze riguardo i capitoli previsti per (un più o meno prossimo?) futuro. L’unica sicurezza al momento è “The Off-Season”, e si è rivelato una garanzia spiazzante.
In questo progetto, J. Cole sembra essersi riconciliato con ciò che era prima di “KOD”, un riavvicinamento caldamente indicato prima da “Middle Child” e ribadito poi da “Lion King On Ice” e “The Climb Back”, con quest’ultimo che poi si è scoperto far parte del nuovo progetto.
In realtà, anche “Middle Child” avrebbe dovuto farne parte, ma Cole stesso ha raccontato di aver voluto pubblicare il brano in anticipo, poiché stufo di tenera la sua musica ferma. Forse è stato meglio così visto l’impatto devastante avuto dal singolo. Inserito nell’album, il resto del progetto avrebbe retto il paragone ingombrante?
“Applying Pressure”: prepariamoci a “The Off-Season”
La storia della pubblicazione di “Middle Child”, così come diversi aneddoti relativi alla lavorazione di “The Off-Season”, sono contenuti in un breve documentario che ne ha anticipato l’uscita, pubblicato dallo stesso rapper su YouTube. Breve ma intenso, “Applying Pressure: The Off-Season Documentary” offre uno scorcio importante di ciò che è stata la lavorazione dell’album, ma soprattutto di ciò che gli ultimi anni hanno rappresentato per J. Cole. Il racconto si apre con una voce fuori campo, che si scopre poi essere 21 Savage, un rapper per certi versi agli antipodi rispetto all’autore di “Born Sinner”, con cui però in realtà condivide molto, come già dimostrato in “a lot”, traccia collaborativa che è valsa ad entrambi un Grammy Award come Best Rap Song.
I due tornano a lavorare insieme in questo progetto e a loro si aggiunge Morray, nuova leva in rapida ascesa negli States, che con Cole ha in comune la città di nascita, Fayetteville, in North Carolina. Le atmosfere della loro “m y . l i f e” ricordano molto quelle di “a lot”, con l’aggiunta evocativa della voce di Morray al ritornello, ritornello che cita Styles P, come vi abbiamo raccontato in questo articolo. Non è un caso quindi che 21 Savage sia l’unico a comparire nel documentario e che no, questo disco non segue la falsariga dei vecchi progetti di Cole. I featuring, infatti, non mancano, anzi, sono di spessore assoluto.
Parte 1: la forza, la tecnica, l’arroganza
Oltre ai già citati 21 Savage e Morray, compaiono anche Bas (in tre brani), Lil Baby, 6lack, e vocals aggiuntive di Cam’ron, Lil Jon, T Rose, Puff Daddy e persino Damian Lillard, oltre a un’infinità di sample e riferimenti, di cui trovate sempre qui la lista completa. Insomma, J. Cole non è più l’eremita dei cinque picchi, non vive più isolato dalla scena, non ha più paura di collaborare. Anzi, come racconta in uno dei brani del disco, il suo senso di cameratismo non è mai venuto meno, nonostante l’assenza di featuring per molto tempo, come racconta in “l e t . g o . m y . h a n d” quando descrive un contrasto avuto con Puff Daddy perché quest’ultimo era intenzionato ad avere un confronto tutt’altro che pacifico con Kendrick Lamar.
Per difendere Lamar, autore dell’epica strofa in “Control” che portò alla suddetta lite, Cole non ci ha pensato due volte a venire alle mani. Un racconto che viene alla luce mentre l’intero mondo del web chiede a gran voce un disco collaborativo tra i due, ma Cole e Kendrick non sembrano intenzionati a far trapelare nulla a riguardo.
C’è davvero tanto in “The Off-Season”. Verrebbe quasi da dire che c’è tutto, nonostante la durata ridotta, e nonostante la presunta natura da intermezzo che il titolo sembra voler lasciar trapelare. C’è l’arroganza sin dai primi versi in cui la voce che si sente è quella di Cam’ron. Dalle frecciatine mandate a una miriade di colleghi, colpevoli di fare dischi di 30 tracce che vendono meno di 100k unità nel primo weekend (al momento in cui scriviamo, le previsioni di vendita per questo disco oscillano sulle 300k unità), fino alla chiusura della strofa con un gioco di parole su “Tears in Heaven” di Eric Clapton (!).
Made it out, it gotta mean something, continua nella successiva “a m a r i”, a rimarcare i propri traguardi, e l’importanza che hanno in virtù di dove è partito, una città non certo considerata tra le capitali del rap. C’è la tecnica, c’è il sound, c’è l’efficacia. J. Cole, però, non è mai stato autocelebrazione e basta, e non può esserlo neanche in “The Off-Season”. Sta solo, per l’appunto, affinando i propri mezzi tecnici.
Dov’è però il J. Cole che tutti conoscono? La risposta è subito servita. Jermaine Lamarr Cole fa capolino al secondo 00.26, e non scompare più. I successivi 2322 secondi – sì, li abbiamo contati – di “The Off-Season” sono un manifesto di ciò che l’hanno reso grande, e un ottimo reminder del perché il suo ritiro ci auguriamo arrivi il più tardi possibile.
Parte 2: i timori, i demoni, le riflessioni
“My family tree got a history of users that struggle with demons”: in “m y . l i f e”, con 21 Savage e Morray, arriva il primo diretto al costato dell’ascoltatore. Torna quell’introspezione che ha fatto la fortuna di J. Cole. Non il vittimismo, ma la spiazzante sincerità, quell’onestà con cui ha sempre raccontato passato e presente, senza dimenticare le preoccupazioni del futuro. Come quelle legate a “l e t . g o . m y . h a n d”, in cui riflette sul suo ruolo di figura paterna e sull’obbligo di preparare i figli a camminare sulle proprie gambe. Una sfida non da poco, che va al di là della certezza economica o dell’agio sociale. Una sfida che nasce proprio dalla maledizione insita nel family tree, nei demoni del passato, nella paura che il DNA si riveli una condanna ineludibile.
Ed ecco perché quel My life is all I have, my rhymes, my pen, my pad, ripreso da Styles P e interpretato dalla voce di Morray, diventa ancora più importante, più significativo, più d’impatto. Cole sa bene qual è lo strumento tramite cui provare ad eludere quel fato, tramite il quale interrompere un circolo vizioso da cui lui sembrerebbe essere stato il primo in grado di scampare. Ed è per questo che in “a p p l y i n g . p r e s s u r e” si scaglia proprio con chi tratta superficialmente quello strumento.
L’ossessione per il duro lavoro, per la minuzia certosina con cui lavorare alla propria arte, è un concetto che torna sia in “p u n c h i n ’ . t h e . c l o c k” , in cui compare l’estratto di un’intervista di Damian Lillard, che in “1 0 0 . m i l’”.
La presenza di Lillard non è affatto una scelta casuale: il cestista dei Portland Trail Blazers va infatti a tutti gli effetti considerato anche un rapper, visto che dietro lo pseudonimo di Dame D.O.L.L.A. ha realizzato tre album ufficiali e collaborato con nomi del calibro di 2 Chainz, Lil Wayne, Mozzy, Juvenile, Jadakiss, G-Eazy, Jeremih e Jamie Foxx. Allo stesso tempo, J. Cole non è più solo un rapper, ma anche un cestista professionista, avendo esordito nella Basketball Africa League con la casacca dei Rwanda Patriots BBC (il video del riscaldamento pre-gara con la sua stessa musica in sottofondo ha già fatto il giro del web). Due spiriti e due percorsi affini, e lo si denota dalla stessa attitudine espressa da Lillard nello spezzone di intervista che Cole ha inserito.
Il rapper della North Carolina torna poi a sfidare sé stesso, forse l’unico modo efficace in cui migliorarsi davvero, oltre che da un punto di vista tecnico. Lo fa in “p r i d e . i s . t h e . d e v i l”, riflettendo sull’orgoglio e sui problemi che gli ha causato, tornando indietro negli anni. “Pride be the reason for the family dichotomy”, “l’orgoglio è la ragione di una dicotomia familiare”, la causa della rottura, forse la radice di tutti i problemi, come lui stesso realizzerà nella barra successiva. Un nemico difficile da affrontare, soprattutto nel momento in cui il successo – e che successo – sembrerebbe concedere di diritto la possibilità di esser orgogliosi di sé, delle proprie esperienze, della propria arte, del proprio status. Cole odia però quella comfort zone, la teme, come racconta nel documentario, e ha dovuto separarsene per riuscire a scrivere un nuovo disco, per riuscire a scrivere “The Off-Season” (e, probabilmente, il resto di “The Fall Off Era”).
Waiting for The Fall Off
Cosa rimane da aggiungere, quindi? Come già scritto, c’è tanto, c’è tutto in questo disco. C’è un uomo di 36 anni che, all’apice del successo – è il 95esimo artista più ascoltato al mondo su Spotify -, torna a mettersi in discussione solo per l’amore della musica. Che rinuncia a crogiolarsi nei traguardi raggiunti, spaventato dall’effetto negativo che questo relax potrebbe avere sulla sua produzione. Che teme il futuro, nonostante le premesse siano più che rosee. Che non ha fatto pace con il suo passato, nonostante la convinzione diffusa che soldi e successo risolvano tutti i problemi.
C’è ben poco altro da chiedere, soprattutto se poi il sound che fa da cornice al tutto è firmato dallo stesso Cole, da Timbaland, da T-Minus, da Boi-1da e altri fuoriclasse del genere. Resta da sperare solo una cosa: che ciò che Cole rappa in “h u n g e r . o n . h i l l s i d e” resti valido per parecchio tempo, ci auguriamo per anni. If I quit now, then I’m dead wrong.
Shit gon’ get hard, keep your head strong, if I quit now, then I’m dead wrong
” H U N G E R . O N . H I L L S I D E ” J. Cole
Fightin’ off this hunger for hours, big stepper, nigga, don’t get stepped on.
The money might fade, but respect don’t, still gon’ be me when success gone
I don’t speak the language of cowards, I walk through the flame like I’m Teflon.