Music

The Queen is Dead, il rapporto tra la Regina Elisabetta II e la musica

Articolo di

Lorenzo Baravalle

Ai re e alle regine si cantano le canzoni. Gli aedi omerici, i bardi nelle corti, e allo stesso modo fanno oggi le rockstar. Come se la monarchia, una delle più antiche istituzioni al mondo, avesse bisogno della musica per tramandare il suo carisma nella cultura popolare. La Regina Elisabetta II non è stata da meno

La corona ha una forza evocativa con pochi eguali nell’immaginario popolare, allo stesso tempo è spirito di una nazione e simulacro di un potere antico ed elitario. Così, mentre Elisabetta II modernizzava la monarchia, lasciando corona, scettro e mantello a Freddie Mercury e indossando l’iconico Barbour al volante di un Defender, molte band trovarono in lei l’incarnazione di tutto quello contro cui combattere. 

Alla fine del 1700 la testa dei sovrani rotolava dalla ghigliottina. Nel 1977 quella di Elizabeth Alexandra Mary finiva sulla cover del singolo dei Sex Pistols, “God Save The Queen”. La band dice di non aver scritto il pezzo proprio in occasione dei 25 anni di regno di Elisabetta. «“God Save The Queen” non la scrivi perchè odi gli inglesi, ma perchè li ami e sei stufo di vederli maltrattati» sono le parole della voce della band, Johnny Rotten. Ma negli anni ’70, Elisabetta II ancora non faceva comparsate alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi nei panni di una Bond Girl, né si mostrava mentre beveva il tè in compagnia dell’orso Paddington.

Allora il peso della corona si sentiva e quando i Pistols noleggiarono una barca per cantare “God save the queen/Shes not a human being/and There’s no future/And England’s dreaming” davanti a Westminster, furono arrestati e il brano venne bandito dalla radio della BBC.

Il brano sconvolse così tanto gli inglesi che Rotten venne aggredito per strada e molti negozi di dischi si rifiutarono di venderlo. Le poche copie con la faccia di Elisabetta censurata, stampate dall’etichetta A&M prima che i Sex Pistols passassero alla Virgin, oggi sono le più preziose mai realizzate in UK. 

Che la regina non vedesse di buon occhio il rock britannico, lo sanno bene i Rolling Stones, che Her Majesty ha cercato di evitare per anni. Non si presentò nemmeno alla cerimonia per la nomina a “Sir” di Mick Jagger nel 2003: si racconta che scelse quel pomeriggio come momento ideale per fare l’operazione al ginocchio che rimandava da anni. 

Sicuramente c’entra il fatto che Mick Jagger l’abbia chiamata spesso “Chief Witch”, e forse anche la storia di sesso ed eroina che il leader degli Stones si dice avesse avuto con la sorella di Elisabetta, Margaret.

Dopo la dipartita della regnante, Sir Mick Jagger ha scritto che per tutta la vita Sua Maestà è sempre stata lì ad accompagnare la sua vita. Come un personaggio che deve fare i conti con la scomparsa del suo antagonista. Chissà se davanti allo specchio gli è scappato di canticchiare “Sympathy for the devil”. 

La Regina e la musica inglese hanno avuto un rapporto particolare, in bilico tra l’istinto di preservare il rispetto per un’istituzione secolare e lo stare al passo con i tempi. 

I Beatles, con quel look da bravi ragazzi, nel 1968 ricevettero la Medaglia dell’Impero Britannico da una Elisabetta in carica già da 16 anni. Lennon la restituì dopo un anno, in segno di protesta contro la guerra in Vietnam, mentre Sir Paul McCartney invece ci scrisse un pezzo: Her Majesty. Elisabetta nominò baronetto anche Elton John, ma per le sue opere di beneficienza e non per la musica. Ha provato per ben due volte a dare il cavalierato a David Bowie, che rifiutò in entrambe le occasioni: «non fa per me, non saprei cosa farmene». Lui, in fondo, Duca lo era già diventato per acclamazione popolare.

Alla notizia della morte, la mia mente è andata con scarsa originalità a quel pezzo dei The Smiths, “The Queen is Dead”. Morrisey, il leader e songwriter della band, ha scritto un pezzo sulla decadenza del potere della monarchia inglese. Si rivolge a Carlo, ora nuovo Re d’Inghilterra, e gli chiede se non ha mai desiderato di finire in copertina del Daily Mail con il velo da sposa di sua madre, in una metafora sul liberarsi dei protocolli e fare quello che ti va veramente di fare. Poi immagina di fare irruzione a Buckingham Palace e di incontrare la Regina. “Ehi, ti conosco e non sai cantare”. “Sì, ma dovresti sentire come suono il piano”. 

Ai tempi delle chart Spotify (Elisabetta è salita al trono nell’anno in cui per la prima volta si stilò una classifica delle canzoni inglesi più vendute), il governo inglese ha fatto sollevare diverse polemiche quando ha proibito gli artisti grime e drill dal suonare dal vivo, scatenando l’odio di artisti come LD dei 67, che ha dichiarato di come sia assurdo poter fare interi tour all’estero e nemmeno una data in Inghilterra. La situazione si è distesa rapidamente quando è stato dimostrato che questo genere non è di base legato alle gang criminali. La scena musicale oggi non ha più preso di mira la corona come le band degli anni ’70 e ‘80 (se non consideriamo una piccola frecciata di Dizzee Rascal), quantomeno fino all’arrivo di Slowthai. Il rapper di Northampton non ha solo intitolato il suo album “Nothing Great About Britain”, ma ha chiuso la title track dicendo “Only if you respect me a little bit, Elizabeth, you cunt”. Nel verso prima aveva detto che sposerebbe volentieri Kate Middleton. 

Ma le parole di Slowthai, così estreme e dirette, non hanno mai fatto il clamore che fecero quelle dei Sex Pistols. Forse sono cambiati i tempi, forse la delicatezza dell’ascoltatore, o forse è l’aura di Elisabetta a essere diversa. 

Una cosa però è certa: “The Queen is Dead”, ma i cantanti continueranno a scriverle canzoni.