Da quando abbiamo visto The Substance al Festival di Cannes, non possiamo smettere di pensarci. Non solo al film, ma anche alle reazioni che ha saputo suscitare in una sala gremita di critici internazionali. Nei grandi festival come Cannes e Venezia – soprattutto a Cannes, dove il pubblico casual non esiste – le reazioni tendono a essere composte e “ritmate”. C’è il classico applauso finale (fintamente) cronometrato e, quando fortunati, qualche reazione più spontanea nei momenti salienti. Anche quando scattano fischi o mugugni di disapprovazione, c’è sempre un certo distacco e un rispetto dei ritmi del film.
Ma ci sono casi rari in cui l’opera riesce a sorprendere anche la platea più esperta, portando a reazioni davvero autentiche e sopra le righe. È successo nel 2015 con Mad Max: Fury Road e si è ripetuto quest’anno con The Substance. E la sorpresa non deriva mai davvero dal “cosa” viene detto, quanto dal “come” viene detto. È l’annosa questione di forma e sostanza, proprio quella che sta al centro del film di Coralie Fargeat. Esploriamola più da vicino.
Il “cosa”
Elisabeth Sparkle (Demi Moore) è una stella di Hollywood, come ricorda il suo cognome letteralmente scintillante. Ha vinto un Oscar, ha una stella sulla Walk of Fame, ha goduto di un successo straordinario ed è stata desiderata per tutta la vita. Nella seconda fase della sua carriera, come successo con Jane Fonda, ha ripiegato su programmi televisivi di fitness.
Arriva il giorno del cinquantesimo compleanno di Elisabeth e Harvey (un altro nome non casuale), il capo della sua emittente, decide che è tempo di un cambio: serve qualcuno di più giovane. Abbattuta, ferita e scontenta di ciò che è diventata, Elisabeth riceve un suggerimento: esiste una sostanza che, una volta iniettata, le permetterà di creare un doppio. Una versione migliore, più giovane, più bella e prestante di sé. Senza pensarci due volte, Elisabeth si fa l’iniezione dando vita a Sue (Margaret Qualley).
Ci sono delle regole: entrambe hanno a disposizione sette giorni prima di lasciare il posto all’altra. Anche se sono sostanzialmente indipendenti, insieme formano un’unica entità: le azioni di Elisabeth influenzano Sue e viceversa. Ben presto, Sue, grazie alla sua straordinaria bellezza e gioventù, ottiene da Harvey il lavoro nel programma di fitness, iniziando a godersi la vita. Tuttavia, l’alternarsi con Elisabeth diventa sempre più pesante. Le regole vengono infrante e le conseguenze non si fanno attendere, portando la situazione a un punto di rottura.
Questa è in purezza la trama di The Substance. Un soggetto di per sé piuttosto scarno, ispirato al Ritratto di Dorian Gray, in cui certo emergono temi fondamentali come lo sguardo e lo sfruttamento della donna nel mondo dello showbusiness e la difficoltà di accettarsi. Ma non c’è nient’altro. Nessuna idea geniale o sconvolgente. Questo perché la forza dirompente del film della Fargeat – come dovrebbe essere sempre nel cinema – sta nel “come” viene raccontata. Nella narrazione per immagini.
Il “come”
The Substance è un film che parla attraverso le immagini, riducendo al minimo i dialoghi per sollecitare e sfinire lo sguardo dello spettatore. Ogni dettaglio conta: il corridoio arancione degli studios, il bagno a scacchi di Elisabeth, il salone con la gigantografia evocativa che richiama Dorian Gray. Ma al centro della scena ci sono i corpi e i loro riflessi. Demi Moore, in un casting geniale, incarna la difficoltà di accettare l’invecchiamento, mentre Margaret Qualley diventa l’oggetto del desiderio maschile. Durante le sue performance di aerobica, la camera esplora ogni centimetro del suo corpo, passando da momenti di puro soft porn a una ripetizione quasi parodistica.
Man mano che il film avanza, lo spazio dedicato ai corpi si intensifica. Ma, a causa del continuo infrangimento delle regole da parte delle protagoniste, le forme mutano: da sensuali e naturali a malformazioni, mutilazioni, deterioramenti e, infine, raccapriccianti fusioni. Nessuno sconto: l’ossessiva attenzione per centimetri e dettagli, già mostrata, viene ripetuta. The Substance gioca con noi, divertendoci prima e punendoci poi, fino a un finale squilibrato, sopra le righe eccessivo, ma perfettamente consapevole di esserlo.
Coralie Fargeat, nel suo film precedente Revenge, aveva già dimostrato di voler affrontare tematiche audaci attraverso il cinema di genere, in quel caso con un approccio di rape and revenge scomposto e ricreato a modo suo. Con The Substance avviene lo stesso, transitando dal body horror all’horror in generale.
A livello visivo, il film cita tutto: da Cronenberg a Kubrick, da La donna che visse due volte a Quarto potere, da Carrie a Society – The Horror, fino a Tetsuo e ai titoli della Troma. Ci ricorda che il moderno concetto di “elevated horror” è un’illusione priva di significato. Ogni dettaglio dei temi affrontati passa attraverso immagini e suoni, senza tralasciare metafore o messaggi. Fargeat comunica con estrema libertà, cercando sempre di stupire. Perché anche quando si abbatte il sistema, vomitandoci letteralmente sopra, ci si può divertire.