The Zone of Interest, il suono orrorifico dell’olocausto

Nel 1988 il compositore minimalista Steve Reich, al culmine del suo percorso artistico, decise di realizzare per la prima volta un’opera che andasse letteralmente a scalfire ciò che del suo passato aveva cercato di dimenticare. Di origine ebraica e unico figlio della paroliera e cantante June Carrol e dell’avvocato Leonard Reich, fin dai primi anni di vita, a causa della separazione prematura dei suoi genitori, si trovò perennemente, tra il 1939 al 1942, a viaggiare tra New York e Los Angeles, sostando solamente per qualche ora nella stazione di Chicago. Accompagnato dalla sua tata Virginia, quei viaggi assunsero un sapore romantico di libertà e di scoperta che mai Reich aveva provato nella sua giovane vita. Ma nello stesso momento storico tanti altri bambini in Europa venivano fatti salire a bordo di treni “differenti” da cui probabilmente non sarebbero mai più tornati.

Dal processo di reminiscenza infantile dell’autore nacque Different Trains, opera suddivisa in tre movimenti (American – Before the War, Europe – During the War, After the War) che prendeva fedelmente in esame il ricordo sonoro di ciò che erano state le differenti esperienze dei protagonisti; dalla tata di Reich sino alle testimonianze dirette di coloro che riuscirono a tornare in vita dai campi di concentramento. Infatti, l’elemento costante che rese unica l’opera stessa fu il grandissimo lavoro di sincronizzazione sonora tra i ricordi vocali dei sopravvissuti e lo spazio sonoro circostante, dato dal respiro dei treni, dalle voci che ne annunciavano le differenti stazioni, dalle sirene della guerra in Europa. In tutto questo, un elemento rimaneva incessante: l’innocenza perduta dell’epoca precedente e l’impossibilità di recuperare la propria vita dalla tragedia appena conclusa (and the war was over. Are you sure?).

Estrapolare la memoria sensoriale di un trauma universale come quello dell’Olocausto è stato da sempre materia di analisi delle arti figurative: “la questione dell’identificazione con la sofferenza accaduta ad altri è importante e scomoda, ma è un pilastro di gran parte del lavoro artistico. In effetti, una funzione del lavoro creativo potrebbe essere quella di aiutarci a immaginare cosa significhi aver attraversato cose che non abbiamo effettivamente vissuto noi stessi; questo può essere visto come parte della funzione etica dell’arte”. Ma se la musica così come l’architettura, la pittura e la scultura sono sempre riuscite nell’intento di mettere al centro dell’esperienza lo spettatore, il cinema ha saputo raccontare più che rendere parte attiva lo spettatore di tale avvenimento. Tutto ciò potrebbe letteralmente cambiare con il nuovo film di Jonathan Glazer, The Zone of Interest (La zona d’interesse), candidato a 5 Premio Oscar, tra cui Miglior Film e soprattutto Miglior Sonoro.

Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, l’opera di Glazer sembra apparentemente incentrarsi sulle vicende della famiglia del Generale Rudolf Hösse. L’innocenza di un tuffo nel lago, i primi amori, il giardino di una casa in campagna curato nei minimi dettagli come fosse l’Eden. Ma in tutta questa apparente tranquillità convive il dolore più puro, il manifestarsi più imponente della violenza umana.

La casa della famiglia Hösse, infatti, costeggia il campo di concentramento di Auschwitz, dove lo stesso generale studia le più potenti tecniche di gassificazione per i nuovi arrivati. Ma tutto ciò che avviene al suo interno non viene volutamente mostrato allo spettatore, è il suono così come la musica composta da Mica Levi a mostrare gli orrori che avvengono nel campo di concentramento.

Sin dalla prima sequenza, quasi a raffigurare un’overture situazionista, in cui lo schermo si manifesta più nero della morte stessa, sono le urla, la sofferenza, la disperazione a farla da padrone. Il suono è il vero narratore della storia e la violenza è unicamente alimentata dalla sua intensità, ci porta sin dove il racconto non vuole addentrarsi, troppo l’orrore che ne potrebbe scaturire.

Il muro che costeggia e suddivide le due realtà sonore, parallelamente protagoniste della storia, permette alle volte di distaccarsi da ciò che avviene, manifestandosi nella zona franca del nostro udito. Ma la sensazione di estraniamento è costante, non ci si libera dall’orrore sonoro che Glazer ci vuole raccontare. Se la famiglia del generale sembra quasi assuefatta da ciò che avviene a pochi passi da loro, il lavoro del sound designer Johnnie Burn (Nope, Poor Things, Under The Skin, La Favorita, The Lobster) nel frattempo, è abbastanza incessante da diventare uno sfondo rimbombante. Attraverso continui layer sonori, il film ci espone a una verità inquietante: per quanto insidiosa possa essere l’accettazione da parte degli Hösse di ciò che accade oltre il muro del loro giardino, non sono così straordinari nella loro non curanza. Tutti noi siamo capaci di ignorare la realtà che ci circonda.

Come hanno raccontato sia il regista che il sound designer del film al New York Film Festival, il lavoro di ricerca sonoro è partito prettamente dalla visita della casa della famiglia Hösse che era realmente l’edificio più vicino ad uno dei muri che separava il campo di concentramento di Auschwitz dalla realtà famigliare del generale nazista. Aggiunge Glazer che in maniera più specifica proprio quel muro è diventato l’oggetto d’interesse della sua linea narrativa perché era veramente l’unico elemento che poteva “distogliere” la realtà sonora di una famiglia dall’orrore del più grande genocidio di sempre. Convivere con il senso di colpa con chi non vuol vedere ma può sentire.

Il lavoro sicuramente più ambizioso e rivoluzionario, per una tale messa in scena, è stato quello di ricreare fedelmente tutto ciò che avveniva nel campo senza mai mostrarlo effettivamente. Comunemente, durante una fruizione cinematografica, siamo abituati a vivere in maniera esperienziale e sinestetica ciò che il suono compie fisicamente all’interno di una scena, ma Burn si spinge oltre la visione teorica che lo studioso Michel Chion definiva come l’audiovisione vuota. Infatti nel suo saggio, L’audiovisione: suono e immagine nel cinema, Chion prendendo ad esame l’ultimo film di Tarkovskij, Sacrificio, arriva a contemplare la possibilità di un mondo sonoro udibile senza che questo si sottolinei o si manifesti all’interno di una scena: “essi sono come aldilà delle immagini e non si manifestano mai ad alcun personaggio così come agli spettatori stessi”.

Fruendo della tecnica del super-campo, in cui ogni elemento sonoro vive una propria realtà autonoma, Burn struttura i molteplici elementi sonori rendendoli acusmatici, non permettendo allo spettatore di rintracciarne la fonte, quasi a come sottolineare che l’esperienza sonora non avvenga in quel dato momento, ma che sia il risultato, una memoria sonora antecedente, di ciò che si è vissuto senza mostrarne volutamente attenzione.

Il processo è stato quello di completare formalmente il film attraverso la strutturazione di una library che permettesse di catturare tutti gli elementi raffigurativi che circondavano la casa degli Hösse, così come dei mezzi di trasporti bellici che si muovevano all’interno del campo. Analizzando attentamente le testimonianze dei sopravvissuti rese disponibili dal museo di Auschwitz, Burn ha raccolto in un documento di 600 pagine ciò che la famiglia probabilmente aveva ascoltato all’interno della propria quotidianità (la fauna selvatica, i veicoli, l’artiglieria, le lingue parlate dai prigionieri) costruendo una mappa sonora in cui poter individuare i probabili volumi uditivi a seconda della loro distanza dal luogo di origine.

Come analizza Sarah Shachat su IndieWire, oltre al ronzio perpetuo dei macchinari, c’è una costante prova sonora della sofferenza umana, che secondo Burn non sarebbe mai stata realmente riproducibile portando gli artisti in uno studio per riprodurre in loop l’audio di sottofondo. Burn e il suo team del suono hanno trascorso mesi viaggiando in tutta Europa per trovare momenti di suono estremo che fossero più vicini a ciò che stavano cercando di ricreare. “Abbiamo deciso che praticamente tutto il suono del film dovesse risiedere sulla parete anteriore della sala, dietro lo schermo”, ha detto Burn. “Quella direzionalità attira costantemente la nostra attenzione oltre il mondo su cui Rudolf e sua moglie Hedwig vogliono concentrarsi e fa sì che il pubblico occupi uno spazio orribile e sotterraneo. È quello in cui ci confrontiamo con il potere dell’insensibilità umana; la giustapposizione di suono e immagine crea un senso intenso ed esperienziale della “banalità del male” che così spesso può degradarsi in cliché quando drammatizzato”.

Il racconto del dolore non si limita unicamente alla sua funzione sonora ma si destruttura perennemente nella musica composta da Mica Levi. Accompagnata dalle tre fasi di colore che si alternano alla narrazione visiva (nero, bianco, rosso), la musica si modella in base all’evolversi graduale dello stato di violenza. C’è una perenne disconnessione sensoriale e uditiva in cui diventa complicato accorgersi di cosa sia realtà e finzione, e la musica si manifesta realmente nel trauma diventando l’unica guida nei meandri oscuri della lacerazione umana.

Jonathan Glazer non ragiona per associazioni, mostrando chiaramente cosa sia stato l’olocausto, ma porta lo spettatore ad auto-analizzarsi su quanto sia effettivamente labile il confine tra chi commette fisicamente una violenza e chi ne lascia scorrere le conseguenze non curandosene. L’immagine sarebbe stata una scorciatoia, un modo per mostrare già quanto effettivamente lo spettatore poteva conoscere, ma il suono non si riesce a dimenticare, si insinua nel cervello portandoti ad uno stato differente del dolore, spaccando i timpani della realtà.