Tony El Patrón: la prima intervista di Tony Effe

“Untouchable, uncrushable, blunted in a 600”, ripeteva due volte Pusha T nel ritornello di “Untouchable”, campionando due barre di The Notorious B.I.G.. Intoccabile quindi, indistruttibile, col riferimento finale alla lussuosa Mercedes-Benz S600. Probabilmente non nasce da qui l’ispirazione di Tony Effe, ma l’impressione, sentendolo parlare del suo nuovo disco e ascoltando l’album, è che si senta proprio così. Non impiegherà molto a ribadirlo, mentre chiacchieriamo rilassati in una stanza di un hotel a Milano.

L’ambiente è tutt’altro che spartano, ma Tony Effe rimane sempre sé stesso, anche seduto su una poltrona intarsiata, con al polso più brillanti di quanti se ne possano contare. “Questa cosa di Untouchable nasce perché ultimamente, tra dissing e robe varie, qualcuno a Roma ha provato a tirarmi in ballo. Tutti che chiacchierano, ma alla fine, di base, nessuno può toccarmi. Quello è il senso. Gente senza arte né parte, senza cultura della musica, fa la strada ma nemmeno la fa. Ma di che cazzo stiamo parlando?”

Non ci mette molto a rimarcare anche l’aspetto più “fisico” della questione, giusto per non lasciare qualcosa di non detto, di fraintendibile. “Io sono così e sarò sempre così, non puoi cambiare una persona a trent’anni. Se uno mi viene a rompere il cazzo reagisco, non è che penso eh no ora faccio il rapper, sono così, è strada, è come sono cresciuto. Ovviamente tante cose provo a limitarle, ma non sempre ci riesco. Devi anche dare un messaggio ogni tanto, sennò ognuno fa come gli pare”.

Questo è Tony Effe, e lo è sempre stato. Sin dagli esordi, da quel leggendario “Crack Musica” che ha segnato una generazione, o forse più di una, imponendo un nuovo paradigma. “Il nostro impatto più che su Roma è stato proprio su tutta l’Italia, cioè, non è che da Roma siano usciti poi troppi rapper simili a noi. Sicuramente abbiamo rotto degli schemi. Quando vedi qualcosa che funziona poi viene normale emularla, ma chi lo fa per primo vince”, spiega. 

Non c’è spocchia nella sua voce, ma una sorta di calma serafica, quella di chi è consapevole di avere ragione, a prescindere da ciò che pensa chi lo sta ascoltando. Questa consapevolezza però è arrivata col tempo, perché all’inizio nessuno di loro si stava rendendo conto della portata di questo cambiamento, erano troppo impegnati a metterlo in atto per riflettere sulle conseguenze. 

È stato casuale. La cosa più strana è che se ti guardi intorno in Italia adesso, si copiano le rime, il modo di vestire, l’immaginario, tutto. Noi invece stavamo sì in fissa per la Glo Gang, per Chief Keef e Fredo Santana, però facevamo una roba diversa, era una trap romana, in chiave nostra, ci siamo distinti. Adesso anche quelli che fanno trap o drill bene o male vedi che stanno copiando, come il passamontagna dal mondo UK, oltre che come suono”. Precisa subito, però, che la sua non è una critica, anzi: “Sono pro a questa cosa eh, vedi che ora un sacco di gente si sta appassionando anche al rap UK, che prima nessuno l’ascoltava, neanche io, mi faceva cagare. Ora invece qualcosa me l’ascolto, grazie anche a questi ragazzi che hanno portato quella musica qui”.

La stessa consapevolezza torna a fare capolino quando gli viene chiesto se anche per lui, come ormai molti nell’industria vociferano da mesi, la trap si sta avvicinando al tramonto, o perlomeno ad una ridimensionata sul mercato. Non ci pensa neppure una frazione di secondo: “Dicono questa cosa perché i pionieri della trap hanno iniziato a fare pop, semplicemente per questo. Di base io pop non lo faccio, quindi la trap non so quanto sia morta in realtà”. 

Di nuovo, il tono non è arrogante, ma sicuro, c’è una sottile ma sostanziale differenza, e prim’ancora che qualcuno provi a rinfacciargli qualche virata più mainstream o pop negli ultimi anni, è già pronto a rispondere. Con la stessa decisione, con lo stesso tenore. “Io nasco dalla trap e quella è la roba che mi rappresenta. Poi mi piace anche la roba alla “Escort Lover” (il nuovo brano con Guè Pequeno presente in “UNTOUCHABLE, ndr.), un po’ Justin Bieber, l’ascolto. Quello che mi ispira cerco poi di farlo in chiave mia, cioè, da ragazzino mi ascoltavo i Backstreet Boys a stecca, ogni tanto ancora li riascolto, mi fomenta quella roba. Non c’è solo la trap, pistole e bricks. Come 21 Savage che fa il pezzo con Justin, è la stessa cosa”.

La consapevolezza del suono sembra essere totale nella stesura del nuovo disco, quindi.
Già, il nuovo disco, che arriva a qualcosa come sei anni di distanza dal primo progetto della Dark, sostanzialmente un’eternità per i tempi moderni. “In verità è stato il corso degli eventi, è successo quello che è successo e adesso avevo bisogno di fare un disco mio. Lo volevo fare anche prima di “Dark Boys Club”, poi abbiamo deciso di fare un mixtape anche vista la situazione col COVID, non conveniva far uscire un disco”. Non che la lavorazione di questo progetto sia stata esente dalle complicazioni legata alla pandemia, come spiega lui stesso, anzi. “Questo disco l’ho fatto in due mesi, due mesi e mezzo. Sono andato tutti i giorni in studio da Drillionaire, da solo, a 30-40 km da casa mia. È stato abbastanza sofferto, io sono un tipo comodo, farmi 40, anzi 80 km tra andata e ritorno mi pesava, però comunque un po’ di struggle serve sempre”. 

Primo album solista, pandemia, cambio parziale di team di lavoro: lo struggle sicuramente non è mancato, e non sembrano esattamente le premesse con cui qualcuno vorrebbe lavorare al proprio esordio in solitaria. I risvolti alla fine, però, sono stati positivi, soprattutto grazie al legame che si è instaurato con lo stesso Drillionaire, che è finito per dirigere l’intero progetto, senza che per questo la relazione tra Sick Luke e Tony sia cambiata di una virgola. 

“Con Luke ci lavorerò sempre, però il fatto che lui sta a Roma e io a Milano mi ha portato a beccarmi più volte con Drill. È da un po’ che lavoro con lui, però ora abbiamo un rapporto davvero simile a quello con Sick, gli voglio un sacco bene, mi ha aiutato molto con il disco, sia a livello lavorativo che umano. Mi ha dato una grande mano, lo ringrazio molto”. Non è l’unica persona che Tony cita e ringrazia in quanto a rapporti umani, fa lo stesso con altri due dei nomi presenti in tracklist: Tedua e Lazza, colleghi a cui è molto legato, al di fuori del discorso di stima artistica.
“Io sono una persona abbastanza disponibile con tutti, non sono invidioso, non sono maligno, mi sento figo, non so come dire, sto bene con me stesso. Di base non ho problemi con nessuno. Tedua lo conosco da tanto tempo, ci siamo allenati insieme, siamo andati in vacanza insieme, gli voglio proprio bene. Lazza lo conosco da due/tre anni, anche lui bravissimo, poi per me è uno dei più forti a fare questa roba, dovrebbe stare non ti dico al posto di qualcun altro, ma sì, dovrebbe. Poi ha la cazzimma, ci arriverà. Quando lavori duro e hai la passione, e lui ce l’ha, i risultati arrivano”. 

Rapporti umani che gli sono serviti anche a vivere con più serenità il trasloco a Milano, una realtà non sempre facile da approcciare, soprattutto se si proviene da una realtà completamente diversa come quella romana. Tony Effe però non ha reciso i legami con la sua città natale, anzi, sono forse più forti che mai e gli servono a ricordare ciò che non va dimenticato. “In questi quattro mesi sono stato spesso a Roma, devo scendere sempre, devo stare al Rione, beccare i miei amici. Devo stare lì al bar, è proprio qualcosa di cui ho bisogno, qui mi perdo troppo nel comfort, nella comfort zone di questa città. Qui a Milano ho una routine semplice, sveglia, palestra da Petrosyan – per tutti i mesi di lockdown era solo questa -, poi da quando ho iniziato col disco è stata palestra, studio e a letto. Ora alle 23.00 vado a dormire e sveglia presto. A Roma ho orari simili: faccio palestra, vado in ufficio e poi un salto in Rione. Lì ho gli amici di sempre, ho bisogno di starci. Preferisco spendere i soldi a Roma che a Milano, portare a cena fuori i miei amici giù, capito? Preferisco “sgloriare” a Roma piuttosto che a qui (ride, ndr)”.

Ma dicevamo, il disco quindi? È la prima volta che Tony Effe si concede in un’intervista singola, è impossibile, quindi, non finire a toccare un bel po’ di argomenti. Ma “UNTOUCHABLE” è il filo rosso che lega tutta la conversazione, non scompare mai dai radar. Un annuncio, il suo, che ha scioccato tutti e ha scatenato un delirio sul web, tanto per la tracklist, quanto per il comparto grafico: “me l’aspettavo, sia per Gucci che per Side, un po’ per tutto”.

La cover è infatti uno scatto ad opera di Anton Tammi, regista famoso per aver curato diversi lavori per The Weeknd, ed è un nome tripla AAA dell’industria. Ma come nasce questa idea? “È stata una cosa abbastanza casuale in realtà. Qualche tempo fa ho fatto una campagna per Dsquared2, non ricordo di preciso quando, e ho conosciuto una modella francese, Serena, e abbiamo fatto amicizia. Lei è un’amica stretta di Anton, gli ha mostrato le mie cose dicendogli che stavo preparando il progetto singolo e mi ha detto che ci avrebbe messo in contatto. Tramite lei quindi ci siamo sentiti. Sapevo che aveva fatto il video e la cover di The Weeknd, e che anche quella stessa cover è nata in maniera casuale da un suo scatto per cui The Weeknd si è preso bene. Io appena ho visto i suoi lavori ho proprio detto fermi tutti, qualsiasi cosa, a qualunque costo, deve curare lui il mio disco”, e così è stato. Talmente deciso da aver parzialmente modificato quella che era la sua idea iniziale, lasciando forte libertà interpretativa a quello che era il concept che lo stesso Tony aveva immaginato: “La mia idea per la copertina era di riprodurre un processo, perché il disco originariamente doveva uscire il 21 maggio, perché io ho un processo fra due giorni (l’intervista è stata fatta il 19 maggio, ndr), poi per questioni discografiche è slittato al 4 giugno. La mia idea, quindi, era solo quella del processo, la composizione finale l’ha sviluppata in chiave sua. Anche il discorso delle facce nascoste, cioè, quelli sono tutti miei amici, fa molto ridere la cosa”.

Dietro questa scelta, però, si cela anche un messaggio non troppo velato alla competizione, una presa di posizione implicita ma piuttosto evidente. “Diciamo che i miei colleghi dal punto di vista grafico non è che investano molto, fanno delle cover abbastanza low budget, la mia sostanzialmente equivale a un altro featuring americano”. Non un puro vezzo estetico quindi, o un qualcosa legato soltanto all’immagine, da sempre punto forte del suo personaggio, bensì un modo per ribadire il proprio status, ben al di sopra di quello di molti. “Il periodo in cui ho puntato più sull’immagine ho fatto poca musica. Nel momento in cui faccio musica, invece, mi concentro su quella e la comunico, quando hai momenti un po’ morti su Instagram spingi l’immagine, per swaggare”.

Parlando di status, il suo viene ribadito sin dalla traccia che apre il disco, che vede sulla produzione, trap al 100%, un Gucci Mane in forma strepitosa. Risultato? Trap al 110%. “Gucci è proprio il padre della trap in America. Diciamo che con questo disco rimettiamo un attimo la chiesa al centro del villaggio”, racconta, sorridendo mentre pronuncia queste parole. “Inizialmente avevo puntato su un altro artista, Gucci non so perché non l’avevo proprio calcolato, poi però ho scritto il pezzo e ho ritirato subito quell’offerta, mi sono detto questa deve farla Gucci. L’altro rapper aveva la sua traccia da due mesi, ma non andava in studio, non lo so, boh. Infatti quel brano non è finito nel disco. Invece Mane mi ha mandato la strofa cinque giorni dopo che gli avevo inviato la mia, si è fomentato proprio”. 

Si sente che è davvero gasato all’idea del pezzo, ora ci ha fatto l’abitudine “solo perché l’ho squagliata per i troppi ascolti”, ma è davvero fiero del risultato finale, soprattutto dell’organicità di esso. “Di base con queste collaborazioni estere, tranne rari casi in cui si costruisce un rapporto di un certo tipo, come Sfera e J Balvin in “Baby”, tu mandi il pezzo con la tua strofa e il beat e loro fanno lo stesso. Lui, invece, si è legato al mio immaginario, ha citato Tony, ha citato l’Italia, si è preso proprio bene”. Per quanto possa sembrare assurdo, però, non è stata la presenza di Gucci Mane a far sobbalzare dalla sedia gli appassionati della trap e della Dark Polo Gang. La penultima traccia, “Luce a Roma”, vede infatti il ritorno del binomio Tony – Side, una coppia che, fatte le dovute proporzioni ma in linea anche geografica, per i fan del gruppo è l’equivalente della Cassano – Totti per i tifosi romanisti. 

È impossibile non finire a parlare di questo iconico ritorno, evitando però il gossip fine a sé stesso. “Diciamo che con Side ci sono stati dei disguidi. Io so di avere ragione, però sono cose che capitano, c’erano altri elementi di mezzo, lavoro, salute, genitori… è stato un casino. Sono passati due, tre anni, io non sono uno che porta rancore, poi sono cresciuto con lui, ci ho passato un sacco di tempo insieme, abbiamo iniziato insieme, gli voglio bene. Le cose che sono successe le ho lasciate nel passato, a livello umano non mi interessa, sticazzi del passato”. È sincero, non c’è nulla di forzato nella sua voce. Poco dopo, però, ci tiene a precisare qualcosa: “Certo, se ora stavo sotto un ponte magari andavo da Side e lo ammazzavo, ma visto che le cose sono andate in maniera diversa, è passato tutto in secondo piano. Gli voglio bene, poi sono fan di Side, fare un pezzo con lui era qualcosa che volevo per il mio disco, e anche lui ne aveva voglia. Ci siamo beccati in studio e abbiamo fatto una traccia, quella”.

Nelle settimane precedenti all’annuncio, sul web si sono rincorsi diversi rumors, dovuti a un paio di foto e dirette che avevano attirato l’attenzione dei fan, convinti (e a ragione, si scoprirà poi) di aver visto Side riflesso in una foto di Tony, o di aver sentito Side nominare Tony in alcune dirette su Instagram. “Siamo entrambi troppo goffi su queste cose, come sempre. Non è cambiato niente in questi anni (sorride ndr)”. 

Non è cambiato niente, o forse è cambiato tutto, in un momento preciso, che Tony non descrive nel disco, ma che lo ha portato a scrivere una barra particolare in “Diverso”, l’ultimo brano dell’album: “Non volevo fare il rap ma i crimini”. Il motivo, ai tempi, era incredibilmente più semplice di quanto si possa pensare. “I nostri modelli da ragazzini erano quelli che facevano i soldi in zona, più che i rapper. A Roma chi faceva i soldi in strada era quello che si scopava la figa, non era, con tutto il rispetto, il rapper. Noi siamo nati con quell’idea, e dopo ci siamo ritrovati dentro”. Poi, però, è arrivato il momento preciso di cui parlavamo: “Quando hanno arrestato i miei migliori amici, che eravamo ancora ragazzini, quella cosa l’ho sofferta tanto, quasi che avrei voluto essere lì con loro. Quasi che avrei preferito essere lì dentro assieme a loro, e non in questo percorso con la musica. Non so come spiegartelo, dovevo esserci anche io lì quella volta. Nella mezz’ora che è successo quel fatto io ero andato dalla mia ragazza dei tempi, questo mi ha salvato. Lì per lì, però, volevo essere con loro, mi sembrava sbagliato. Era qualcosa in cui eravamo invischiati tutti e tre, non era giusto che non ci fossi anche io. Come tutte quelle volte che ce l’eravamo cavata eravamo in tre, dovevamo esserlo anche quella volta”.

E adesso, Tony vorrebbe ancora fare i crimini? O è cambiato qualcosa? “Per fortuna è andato tutto per il meglio, ora c’è la mia carriera, loro sono usciti, stiamo qui insieme, ridiamo, scherziamo e ci divertiamo”. Né un sì né un no, ma d’altronde c’era da aspettarselo, non avrebbe potuto essere “UNTOUCHABLE” altrimenti.

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